di Maurizio Marrone
Cormac McCarthy, Il passeggero, Einaudi, 2023, pp. 385, € 21,00 stampa, € 10,99 eBook.
Per un lungo periodo ho pensato che La strada, uscito ormai sedici anni fa, sarebbe stato l’ultimo, definitivo, romanzo di Cormac McCarthy. Con il senno di poi, in un certo senso, si potrebbe dire che lo è stato e, forse, continua ad esserlo. Dopo la sconfitta dello sceriffo Bell che, in Non è un paese per vecchi, abdica alla furia innominabile del male e si arrende al feroce Shigurh – buco nero anti-mondo, metafora e messaggero di un’apocalisse a venire – ciò che resta sono le tracce sbiadite nella cenere di un padre e di un figlio che si trascinano macilenti nel simulacro di tutto ciò che era.1 Titoli di coda. Buio in sala. Fine.
Nel corso dell’inverno è invece trapelata la notizia che lo scrittore americano stava per dare alle stampe non uno, bensì due nuovi romanzi: Il passeggero (nell’impeccabile traduzione di Maurizia Balmelli) di cui mi appresto a parlare e Stella Maris – tecnicamente un prequel – che, con una scelta editoriale quantomeno discutibile, Einaudi ha deciso di pubblicare nel prossimo autunno. Poi, qualche settimana fa, purtroppo, McCarthy ci ha lasciato e Il passeggero è diventato, questo sì, il suo lascito testamentario; l’ultima traccia su carta di quello che, insieme a Faulkner, Steinbeck, Roth e De Lillo, può senza tema di smentite, essere considerato uno dei più grandi narratori americani – e non solo – del secolo scorso e di uno scorcio di quello che ci sta sfuggendo tra le dita. Il viaggio attraverso i lacerti del mondo e del linguaggio, cominciato in un frutteto marcescente del Tennessee e passato al setaccio della sublime antropologia del paesaggio nella Trilogia della frontiera, appariva concluso con l’apocalisse annunciata dalla Strada ma, con uno spasmo lisergico, ha ripreso forma grazie al suicidio annunciato della folle Alicia e all’amore maledetto che divora suo fratello Bobby. L’incipit del libro è di quelli che lasciano il lettore impietrito come una statua di sale.
Nella notte era scesa una leggera nevicata e i suoi capelli ghiacciati erano aurei e cristallini e i suoi occhi gelidi e duri come pietre. Uno degli stivali gialli le si era sfilato e spuntava dalla neve sotto di lei. La sagoma del cappotto impolverata di neve si disegnava dove l’aveva lasciato cadere e vestita solo di un abito bianco lei pendeva tra i nudi e grigi tronchi degli alberi invernali con il capo chino e le mani leggermente rivolte all’infuori come quelle di certe statue ecumeniche la cui postura chiede che ne venga contemplata la storia. Che vengano contemplate le fondamenta del mondo poiché originano dal travaglio delle sue creature. Il cacciatore si inginocchiò e conficcò il fucile accanto a sé nella neve e si sfilò i guanti e li lasciò cadere e giunse le mani l’una sull’altra. Pensò che avrebbe dovuto pregare ma preghiere per una cosa simile non ne aveva. Chinò la testa. Torre d’Avorio, disse. Oro del Tempio. Rimase li inginocchiato a lungo.2
Un corpo esangue la cui bellezza profetica annichilisce ogni possibile redenzione; una topografia del collasso la cui filigrana precipita da subito la narrazione nelle viscere del suo stesso limite. Di ciò di cui non si può parlare – avrebbe detto Wittgenstein – si deve tacere.
Comincia così, a ritroso da una fine che in realtà è un inizio, la vicenda che vede legati uno all’altra Bobby e Alicia Western.
Alicia era bellissima, schizofrenica ed è morta suicida poco più che ventenne. Grande esperta di violini cremonesi, mente matematica sopraffina, risolveva funzioni impossibili ma dimenticava i passi compiuti per giungervi perché, diceva lei,
Dopo essere stata formalizzata in una teoria, può darsi che una congettura matematica acquisisca un certo lustro, ma salvo rare eccezioni, non puoi più coltivare l’illusione che racchiuda qualche comprensione profonda, dei fondamenti della realtà. Di fatto comincia a sembrare uno strumento.3
Si è arresa divorata dalla sua stessa intelligenza e dall’incapacità di afferrare il senso di un mondo, foss’anche la sua tenebra più profonda o il suo orrore più cupo, che sapeva sfuggire a ogni sua possibile descrizione e nel quale, comunque, non si era mai sentita a casa.
Voleva scomparire. Be’, non proprio, non esattamente. Voleva non esser mai stata qui fin dall’inizio. Voleva non esser stata. Punto.4
Per buona parte della sua vita Alicia ha convissuto con allucinazioni profetiche, incarnate da Kid, un guitto focomelico e sboccato, metà grillo parlante e metà Bianconiglio horror e dalla sua corte dei miracoli, che la perseguitavano con incalzanti disquisizioni filosofico/morali e patetiche performance d’avanspettacolo. Quello che potrebbe sembrare un divertissement letterario trasfigurato in elogio del kitsch è in realtà uno dei motori entropici del racconto, o meglio, rappresenta il disordine controllato che McCarthy getta sul tavolo, in forma di maieutica della follia, per sbatterci in faccia la sua estetica della fine o, quanto meno, una delle sue forme possibili.
Bobby, il fratello maggiore di Alicia, ha scoperto di essere innamorato di lei molto presto e non ha mai accettato la sua morte. A dieci anni dal giorno del suo addio fatale non è ancora riuscito a leggere l’ultima lettera che lei gli ha lasciato. Ne affiderà il segreto a Debussy, una trans malinconica sua amica e confidente, ma tutto ciò che ne ricaverà saranno delle pudiche lacrime clandestine e un tovagliolo sbafato di eyeliner.
Bobby ha un passato da aspirante fisico quantistico e pilota d’auto da corsa ma, per vivere, fa il sommozzatore di recupero. Quando nel 1980, nelle acque profonde di New Orleans scopre il relitto di un jet con a bordo meno cadaveri di quanti si supponeva dovessero essercene, braccato da due agenti federali che lo accusano di una non meglio definita frode fiscale, comincia la sua fuga verso una meta che – forse lo sa anche lui – è già, da sempre, alle sue spalle. Il suo pellegrinare tragico si consuma tra bettole e alberghi di quart’ordine, popolati da comprimari naif (un dandy filosofo e alcolizzato, un investigatore ebreo che lavorava al circo, una trans bellissima) la cui funzione simbolico/narrativa è cristallina ma i cui contorni McCarthy – come spesso gli accade – non si affanna a definire con precisione. Un viaggio che è erranza patogena verso il limite tremulo di un mondo in dissoluzione e si concluderà al di là dell’oceano, su un’isola delle Baleari.
A ben guardare, tuttavia, la sua fuga comincia il giorno della morte di Alicia. Bobby scappa dal suo amore per lei, che lo divora come un cancro implacabile. Scappa dal rimorso di non essere riuscito a salvarla. Ma, soprattutto, scappa dai deliri di lei e verso quegli stessi deliri, che sono anche i suoi, in una spirale il cui vortice non è altro che metafisica delle tenebre. In una capanna abbandonata lungo una spiaggia deserta, infatti, anche Bobby riceverà la visita di Kid che, abituato ad affibbiare nomi di fantasia ad Alicia, non a caso lo chiamerà Kurtz, proprio come il colonnello folle di Cuore di Tenebra reso immortale da Coppola: «Perché è impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna farsi amico l’orrore.»5 Lo stesso Kid che poco prima, emerso dai meandri alla deriva della sua coscienza, lo incalzava con apparente indolenza:
In giro c’è parecchia gente aggrappata al relitto. Ma non resteranno aggrappati in eterno. Certi pensano che sarebbe una buona idea scoprire la vera natura delle tenebre. Il cuore pulsante delle tenebre e il loro covo. Li vedi andare in giro con le loro lanterne. Cosa c’è che non va in quest’immagine?6
Alle spalle di entrambi, di Alicia e Bobby Western, così come sempre davanti a loro, un padre morto in Messico, solo ed esiliato dal mondo, che ha lavorato con Oppenheimer al progetto Manhattan. Ologramma vivente e allegoria macabra del tempo degli uomini che dilegua, artefice e ideatore di quel bolide incandescente, a cavallo tra monito e profezia autoavverantesi, che ancora tesse in un arco maledetto passato e futuro.
Suo padre. Che a partire dalla pura polvere della terra aveva creato un sole infausto alla luce del quale attraverso la stoffa e la carne gli uomini vedevano le ossa nei copri l’uno dell’altro come una sorta di spaventoso presagio della loro stessa fine.7
Dwight Garner del New York Times, citato tra i commenti in quarta di copertina, scrive che «altri scrittori saccheggeranno queste pagine per farne epigrafi, quasi fosse l’Ecclesiaste, per i prossimi 150 anni.» Vista la densità teoretica e la potenza evocativa del libro è possibile che ciò accada. Quel che è certo è che Il passeggero consegna ai posteri la liturgia laica di una fine annunciata che non ammette deroghe. Alicia e Bobby sono naufraghi che annaspano alla ricerca di un senso che non è dato trovare se non tra i reperti di un mondo in decomposizione irrevocabile, la cui essenza eccede sempre il suo racconto, come Kid sussurra all’orecchio insofferente di Alicia: «Coccolenza ascoltami. Non saprai mai di cosa è fatto il mondo. L’unica cosa certa è che non è fatto di mondo.»8
Così come il mondo non si troverà mai tra le cose del mondo, allo stesso modo il senso del narrare non starà mai tra le cose narrate, ma sempre sulla soglia, in equilibrio precario sul limite invalicabile dell’indicibile. Questa è la lingua di McCarthy e questo è destinato a essere il suo testamento letterario. Sottrazione ed eccedenza di senso che si rincorrono tra dialoghi surreali fatti di pochi fonemi e lunghe disquisizioni sulla fisica dei quanti o sull’omicidio Kennedy. Frammenti e tracce disperse la cui ricomposizione non concede speranza e non chiede salvezza.
Le età dell’uomo che corrono da tomba a tomba. Dei conti su una lastra di ardesia. Sangue, oscurità. Un residuo di bambini morti su una tavola. Le stratificazioni rocciose del mondo con le loro impronte fossili di forma e quantità illimitate. I petroglifi moderni di mio padre e la gente sulla strada nuda e urlante.9
Perché non c’è promessa che non sia già stata infranta e l’unica certezza è la revoca del futuro.
E neanche il Bianconiglio può farci niente.
Non sai cosa potrebbe esserci in serbo per te. Doni insoliti. Penne dorate di un uccello antico. Un calco proveniente dai visceri di una bestia estinta da tempo o una figurina fabbricata con un metallo sconosciuto.
Non mi faccio illusioni
Già.
Manufatti irreali a garanzia di un mondo irreale.
Si bè. È comunque un bel pensiero. Non trovi?
Non trovo, no. Buonanotte.
Ho parlato della relazione tra questi due romanzi qui: https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/leroe-dal-texas-allapocalisse/ ↩
Cormac McCarthy, Il passeggero, Einaudi, 2023, p. 3. ↩
Ivi, p. 298. ↩
Ivi, p. 323. ↩
Tratto dal monologo finale del colonnello Kurtz, interpretato da Marlon Brando, nel film Apocalypse now, 1979. ↩
Cormac McCarthy, cit., p.276. ↩
Ivi, p. 369. ↩
Ivi, p. 128. ↩
Ivi, p. 385. ↩