di Franco Pezzini

Alessandro Defilippi, E poiché io sono oscuro… Di Merlino, del Graal e di Carl Gustav Jung, presentazione di Gian Piero Quaglino, pp. 200, € 20, Moretti & Vitali, Bergamo 2023.

Dorothea e Friedrich Schlegel, La storia del Mago Merlino, a cura di Silvia Alfonsi, introduzione di Michael Müller (trad. da Francesca Brunetta), pp. 280, € 22, Studio Tesi, Roma 1984/2022.

 

EST. FORESTA – NOTTE

Buio. Il suono delle grida di battaglia e il clangore del metallo sul metallo. La foresta si illumina di vividi scintillii che volano dalla spada e dall’ascia mentre i cavalieri corazzati si fanno a pezzi e si vibrano colpi violenti l’uno con l’altro. I cavalieri in sella si scontrano frontalmente al galoppo, il loro armature rese incandescenti nello scontro. Scintille vorticano sulla loro scia e fluttuano al suolo. La foresta prende fuoco.

TITOLI PRINCIPALI contro le fiamme. Fuori dai suoni dell’antica battaglia cresce la musica, eroica e barbarica, con una vena di malinconia.

Due occhi in preda alla follia riflettono il fuoco. Gli occhi appartengono a un uomo senza età, insieme antico e fanciullesco, femmina e maschio; i suoi occhi sono afflitti dal peso di troppa conoscenza. È così vicino alle fiamme che una ciocca dei suoi capelli incolti sfrigola per il fuoco. La colpisce con la mano come se fosse un insetto fastidioso. Indossa un mantello nero con guarniture d’argento. È Merlino. Il mago tesse un sentiero attraverso la foresta in fiamme, schivando i combattenti, e cerca.

 

Carmarthen, o poco distante – Galles meridionale. Una mattina lavorativa di fine aprile, cielo scolorito, poco traffico sulla strada. Nessuno nella nostra direzione. Lasciata la cittadina, con informazioni raccogliticce stiamo puntando verso le colline, anzi una in particolare, a poco distanza dall’abitato. Ma è difficile individuare una collina: non è come una città, o persino un fiume, che hanno i loro bravi cartelli. Così a un certo punto della strada scendo a chiedere informazioni a un falegname indaffarato davanti al suo laboratorio: un tipo simpatico, un celta alto coi baffoni che sembra uscito da Asterix. Questo non si limita a fornire informazioni generiche, ma sospendendo il lavoro mi conduce all’interno tra sgabelli, gambe di tavoli, saracchi, martelli e trucioli per sedersi al bancone e tracciarmi a biro su un foglietto la cartina con l’esatto percorso. Altri, immagino, gliel’hanno chiesto in precedenza, visto che lo trova normale… mentre di solito cercare una collina non è così normale.

Ringraziato il falegname, seguiamo le indicazioni fino ad arrivare a una chiusura della strada tra rilievi verdescuri, coperti d’alberi fitti: non c’è nessuno, non ci sono targhe o indicazioni, siamo soli nel silenzio. E non c’è neppure bisogno di attraversare le proprietà private e risalire il fianco boscoso del panettoncino che si erge a sinistra, perché quel che importa non è la cima ma l’insieme della collina stessa, o il mistero di ciò che racchiuderebbe. Perché quella è Bryn Myrddin, la collina di Merlino, il mago nato qui vicino, a Carmarthen – se davvero quel nome significa, come vuole la tradizione, “forte di Merlino” – e forse resta ancora in ascolto, all’interno, invisibile in una Grotta di cristallo.

All’inizio degli anni Ottanta un regista visionario inglese, John Boorman, produce, sceneggia (con il connazionale Rospo Pallenberg) e dirige Excalibur, la migliore delle trasposizioni mai apparse sulla saga arturiana. Un prodotto covato dal 1969, e che pur uscendo nel 1981 a dare idealmente inizio al tripudio del fantasy che connoterà quel decennio, in realtà parla molto di più il linguaggio utopico, onirico e lisergico degli anni Settanta. Archiviate tutte le banalità medievaleggianti di Hollywood, Boorman ci proietta in un mondo barbarico, fangoso, di inusuale brutalità nei combattimenti: le armature scintillanti appaiono, è vero, ma la funzione scenica è talmente simbolica da accentuarne la dimensione mitica (in effetti scintillano solo alla corte di Artù, sogno metastorico di ciò che palpita per un tempo breve restando poi per sempre come motore di idee e di sogni); e comunque si accompagnano alla trasfigurazione di una primitiva realtà pseudoceltica volutamente fuori da coordinate definibili. Una rilettura purgata dalle contraffazioni ideologiche – delle monarchie inglesi dai Normanni in avanti, che vi troveranno un precedente incomparabile in chiave di accredito, ma anche dei nazionalismi fascistoidi che cercheranno di scippare anche il ciclo arturiano – la libera rilettura della tardoquattrocentesca Le Morte Darthur di Thomas Malory riesce a capitalizzare sia le storie sull’Artù più arcaico sia l’eco delle successive trascrizioni cortesi con alcune straordinarie storie d’amore. Trovando punti di contatto con un’opera più o meno parallela, la saga arturiana in cinque romanzi di Mary Stewart avviata nel 1970 e che pure parallelamente mi pare rappresenti del ciclo la più bella trascrizione in forma di romanzo contemporaneo.

Certo Mary Stewart ricostruisce con attenzione un potenziale sfondo storico, in una Britannia abbandonata dai Romani, nuovamente frantumata tra infiniti piccoli regni per essere riunificata – per una stagione in fondo breve – da un principe di belle speranze che oltretutto ha dalla sua il più straordinario dei consiglieri, Myrddin Emrys ossia Merlino. Figlio non del demone incubo che secondo la gente avrebbe visitato la madre monaca, ma di un amante di lei: un personaggio illustre – il comandante Ambrosio Aureliano poi re di Britannia – che non può riconoscere Merlino e tuttavia finirà con l’arruolarlo come consigliere riservato, anche a causa delle sue doti specialissime. Educato da un eremita, poi formato attraverso una serie di incontri più o meno felici – dagli ultimi druidi dediti a pratiche oscure (ma che hanno paura di suo padre) agli ingegneri militari romani e ai medici dell’Asia Minore – Merlino sa che il riflesso del sole può trovarsi anche in una pozza fangosa. Dedito a crisi in qualche modo profetiche, dotato di ottima cultura in un mondo che l’ha persa, sensibile, pragmatico ma capace di sognare, Merlino diverrà il mentore del cugino Artù. A un certo punto incontrerà una discepola, Nimue, e nella grotta arredata che gli fa da casa – appunto sotto la collina di Bryn Myrddin – tra pergamene e marmellate cercherà di passarle tutto il proprio sapere. All’inizio gli era parsa un maschio, il doppio di un giovane apprendista che l’aveva affiancato per un breve periodo ed era morto annegato lasciandolo nello sconforto: ed è Artù, dopo un incontro col presunto ragazzo, a rivelare al sapiente ciò che per una volta lui non riusciva a vedere, che si tratta cioè di una giovane donna. Merlino scopre l’amore, riamato; ma gli effetti di un veleno somministratogli dalla principessa Morgause che ha spinto Artù a un involontario incesto partorendone un figlio fatale, Mordred, iniziano a causargli crisi catalettiche. Verrà creduto morto, nello strazio di Nimue che prenderà il suo posto di consigliera di Artù; e tumulato nella grotta-casa a un certo punto vi si risveglierà. Riuscirà a uscire, ma non riprenderà il ruolo pubblico: il suo tempo è passato, Nimue si è rifatta una vita e Merlino esce di scena ritirandosi nella sua casa-grotta.

Più romanticamente fiabesca è la versione di Dorothea e Friedrich Schlegel, La storia del Mago Merlino, edita in edizione italiana negli anni Ottanta e ora riproposta da Studio Tesi: un’opera, Geschichte des Zauberers Merlin (“Storia del Mago Merlino”), Lipsia, 1804, che risente dell’entusiasmo del romanticismo nascente del cosiddetto Circolo di Jena. Merita ricordare il legame tra i due autori e tutto un mondo di intellettuali –Wilhelm August von Schlegel (fratello di Friedrich) e la moglie poi divorziata Caroline Michaelis, Schelling che ne sarà il nuovo coniuge, Ludwig Tieck, Novalis, Rahel Levin, Henriette Herz, gli amici di Madame de Staël… – amanti delle antiche storie e pronti a discuterne nei salotti culturali. Ma c’è forse anche qualcosa di più personale: come riferirà Dorothea in una lettera all’amica Caroline Paulus, 1805, “Ho [tradotto] un romanzo dall’antico francese (Merlino)” nell’ambito della passione condivisa con l’eruditissimo partner – è lui “Merlino”? –, che a Parigi (1803-1804), ha tenuto lezioni sull’antica letteratura francese. Si sono appena sposati, Dorothea si è convertita al protestantesimo dall’ebraismo (è figlia dell’illuminista ebreo tedesco Moses Mendelssohn) e il risultato è una traduzione/adattamento che al loro amore può dovere parecchio. Si rinvia all’edizione sugli aspetti filologici di questo recupero dal francese.

 

La storia che andiamo ad affrontare potrebbe prendere dunque l’avvio sotto il grigio incerto di una primavera sotto Bryn Myrddin, o invece con l’inizio di Excalibur da quella che l’aria d’essere la sceneggiatura originale, qualunque cosa ciò voglia dire – reperibile online, purtroppo senza particolari glosse esplicative. Dove già emerge un dato interessante, avvertibile a uno spettatore attento: nei primi fotogrammi qui prefigurati, Merlino (un delizioso, impagabile Nicol Williamson), presenta un trucco molto carico – agli occhi, in particolare, un bistro un po’ curioso – poi assente in tutto il resto del film. Non sembra si possa ascrivere il dettaglio a una semplice necessità di contrasto per la scena in notturna. È come se nel magma di questo inizio, e in modo congruo alla sua natura di sciamano, Merlino fosse davvero un essere umano ancora mitologicamente indifferenziato – “uomo senza età, insieme antico e fanciullesco, femmina e maschio” – che nel prosieguo troverà una sua determinazione (forzata? certo drammatica) per l’impatto degli amori umani che lo vedranno coinvolto. Amori via via più sottili e vari, talora consumati nella lussuria pura o nel sesso d’interesse (Uther, Morgana), talora viscerali ma incapaci di sviluppo vitale (Lancillotto) oppure non sufficientemente evoluti (Artù e Ginevra, che arriveranno solo al crepuscolo – lei è ormai chiusa in convento, lui si appresta all’ultima battaglia – a una tenerezza matura ma insieme malinconica): e Merlino stesso dovrà fronteggiare la crisi di propri sentimenti che non è riuscito a capire.

Comprensione e crescita, sentimenti, crisi, realtà nascoste nel grembo della nostra collina interiore: tutti tasselli che sotto l’egida di quell’inizio – dovunque lo si collochi – permettono di avvicinare il meraviglioso libro di Defilippi, probabilmente lo studio più ricco e profondo su Merlino mai condotto in Italia. Introdotto da una splendida presentazione di Gian Piero Quaglino – splendida sia sotto il profilo specifico di un mito letterario, sia sotto quello della chiave junghiana, offerta peraltro in termini limpidissimi –, la disamina di Defilippi, psicoterapeuta e narratore raffinato, autenticamente letterario nella sua capacità di far dialogare mainstream e genere ma qui alla prima prova da saggista vero e proprio, è una fonte preziosa di riflessione e insieme una delizia alla lettura. Il senso del testo è di scoprire come Merlino rappresenti un prezioso attrattore di archetipi: la sua storia è la nostra, quella di chi si ritrova – a partire dall’autore – nelle funzioni da lui incarnate.

L’opera è articolata in più parti, dopo un Introitus che brevemente problematizza gli aspetti diversi e a tratti contraddittori del personaggio (torniamo all’apparizione all’inizio di Excalibur) e della sua vicenda, spiega il senso delle digressioni in un intero panorama mitologico di tanti secoli, ricorda che “quel che conta sono sempre e solo le storie. Perché quelle storie sono la nostra storia”. Segue infatti un Primo movimento: Piccole variazioni sul mito, sul senso del mito in ottica junghiana, la distinzione dall’idea di leggenda, e l’urgenza di recuperare la verità personale delle storie.

Arriviamo al tema specifico con Secondo movimento: Le storie di Merlino, finalmente, che esplora nessi mitici, etimologici, letterari di un personaggio composito (il bambino profeta, il capo guerriero impazzito, il profeta…) in riferimento a un canone di testi e poi a una vita del mito che ciascuno arricchisce di nuove nuances. Con una serie di step della sua storia: figlio del diavolo (che “cerca in lui l’Anticristo, ma quell’Anticristo si rivelerà in molti momenti un buon cristo, talora un povero cristo, umano, troppo umano, e talaltra invece si avvicinerà alla figura del Cristo, completandola”) e dio minore fin troppo umano, mediatore, daimon e trickster, a esser “ponte tra il mondo sublunare e quello oltremondano”, con un occhio a Zagreo e l’altro al gioco degli opposti; bambino senza padre chiamato a spiegare a Vortiger perché una certa torre crolli sempre (sulla collinozza di Dinas Emrys in Snowdonia, Galles del nord: chi fosse interessato a un pellegrinaggio farà bene a munirsi di una cartina dettagliata, i servizi di informazione turistica non sempre la sanno indicare) e portatore della visionaria Prophetia Merlini (testo 1135) e più avanti della profezia della stella col drago di fuoco; ideatore del gran cerchio di pietre (per noi Stonehenge) e della Tavola Rotonda, terza tavola della Materia di Bretagna dopo quella dell’Ultima Cena e quella del Graal istituita da Giuseppe d’Arimatea, ma anche artefice del concepimento di Artù – Rex quondam, Rex futurus – e grande macchinatore mutaforma come un altro campione dell’ambiguità, il trickster norreno Loki; istitutore del Seggio Periglioso, viaggiatore in cerca e ispiratore della Cerca del Graal, con tutta la nebulosa di simboli connessi. Il tutto termina con La fine (?) di Merlino, attraverso le diverse interpretazioni della sua scomparsa. Perché Nimue/Viviana lo imprigiona? Cosa significa per noi, per me?

Un Terzo movimento: Di alcuni aspetti della figura di Merlino offre singoli spunti di approfondimento sul suo mito, carotaggi in grado di condurre anche molto oltre nel tempo e nello spazio, ma con nessi sempre convincenti e non per mere giustapposizioni erudite o forzature di qualche equivoca Tradizione. Anzitutto il tema dell’oscurità, richiamato nel titolo del volume tramite una citazione dal Merlin di Robert de Boron così resa da Jung: “E poiché io sono oscuro, e sempre lo sarò là dove non mi voglio mostrare, così anche il libro sia oscuro e misterioso”; l’archetipo, con Merlino come rete o attrattore di archetipi; il sacrificio; la malinconia; l’Ombra; la dialettica tra grazia e libero arbitrio, tra Pelagio e Saturno, e quella tra Sé e funzione trascendente, tra Mercurio e Saturno…

Si arriva così al Quarto movimento: Nella mia fine è il mio principio, perché un mito semplicemente è, dunque la storia di Merlino non è conclusa e semmai continua in noi. Come evocato in chiave narrativa nella chiusa del volume, qui a opera del Defilippi scrittore di romanzi e fulminanti racconti. Che ci offre qualche chiave in più – e affascinanti – per il rapporto con le identità che abbiamo dentro.