Cecco Bellosi, Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, introduzione di Davide Van De Sfros, prefazione di Aldo Bonomi, Milieu Edizioni, Milano 2013, pp. 240, € 14.90
Ogni italiano con una minima infarinatura scolastica ha in mente almeno due luoghi letterari: una selva oscura nella quale s’è sperduto un viandante, e una corona di cime montuose che sembrano sorgere dalle acque d’un lago. Accanto ad altre immagini radicate, più che nel patrimonio letterario, nella dimensione dell’infanzia (una bottega dove un falegname intaglia un pezzo di legno, la grotta del presepe, mari e foreste di una Malesia fantastica), quei due luoghi sono parte dell’inconscio collettivo di una nazione: ne costituiscono alcuni tratti identitari, in certo modo. Molti, in diversi modi, hanno spiegato che in quella selva oscura ci siamo dentro tutti, perché la selva è la nostra stessa vita: per questo la riconosciamo ovunque. Diverso è il caso del paesaggio che apre due delle pagine più famose del capolavoro del Manzoni, che si avvia per l’appunto su quel ramo del lago di Como i cui monti bisognerà poi che Lucia saluti col suo addio: monti descritti in punta di pennello, con una precisione estrema, ma che quasi tutti finiamo col conoscere solo per averne letto la descrizione, e non per averli visti o frequentati. Né sappiamo molto dei laghée che quei luoghi popolano: nell’immaginario nazionale, la Lombardia è Milano, e su Milano, falsamente, si appiattisce come su un luogo comune.
È su quei monti, attorno a quei due ramo del lago, che Cecco Bellosi ha ambientato il suo Con i pedi nell’acqua. O meglio: sono gli abitanti che popolano quei luoghi ad essere venuti alla penna raffinata, colta ed elegante di questo quasi-esordiente che ha avuto, come i gatti, alcune vite da spendere e un po’ troppe cose da fare per dedicarsi alla scrittura, scegliendo una solo anagrafica terza età per rivelarsi narratore di razza e di spessore, inanellatore di vite e racconti pubblicati dalle Milieu edizioni, un’agguerrita casa editrice indipendente dal catalogo molto interessante.
Il fascino di queste storie di irregolari – “agli irregolari” è dedicato il libro: e a chi, se non?, verrebbe da chiosare – è la via tortuosa, le molte selve che al cittadino che non ne vede i segni e i sentieri possono apparire oscure e nelle quali ci si addentra con la consapevolezza che si sta entrando anche dentro un archetipo letterario; ed entrandoci lo si scopre tanto diverso dalla realtà quanto lo è dai tempi e dagli uomini narrati da Bellosi il nostro presente: un presente che ci viene da altri spacciato come immutabile, inevitabile, ineludibile.
Con un incipit inaspettato, l’Autore [a sinistra] sceglie di introdurre il suo lettore non attraverso i sentieri degli sfrosatori, degli spalloni, dei contrabbandieri la cui epica, tra l’inizio del secolo breve e i primi lampi del Sessantotto, sarà il centro della narrazione: ma dalle cucine della scuola di chef di Arzegno, che «per buona parte del Novecento ha partorito la pattuglia dei migliori» (p. 15): il confronto con le cucine televisive odierne, con «le dilettanti allo sbaraglio che imperversano nelle case a tutte le ore dal digitale terrestre o dal satellite» (p. 33) passate senza colpo ferire dalla professione di sorelle minori a quella di riscaldatrici di surgelati o spadellatrici in quattro salti, mostra senza possibilità di mediazione la differenza tra due mondi inconciliabili. E ci fa capire, subito, che è in quell’altro mondo che stiamo per entrare, quando il lago non era ancora la meta dei nuovi ricchi: «Sullo scorcio di fine secolo si è passati velocemente, insinuando qualche debole traccia di cronaca rosa sui muri screpolati nei secoli, dallo stilista italiano all’attore americano al petroliere russo arricchito alla borsa nera della morte del comunismo: c’è chi il bandito lo interpreta al cinema, e chi lo fa per professione nella vita di tutti i giorni» (p. 75).
Mondo tosto, quello del lago e dei laghée. Al cui centro c’è il mestiere dello sfrosatore: un lavoro duro che può diventare un’arte senza addolcirsi, che consiste nel passare la frontiera per portare farina, caffè, tabacchi, zucchero, dadi, selvaggina. Attorno a quest’arte ci sono regole ferree, comportamenti che non ammettono deroghe o distrazioni, rituali:
«La partenza di ogni viaggio ripeteva un rito silenzioso: ognuno si costruiva con la iuta, la corda e l’ago i peduu d’invöi, le pedule rovesciate con la cucitura sotto il piede; poi ritagliava con il fulcìi le palene, le bretelle con cui si metteva in spalla il sacco ingombrante, spigoloso e odiato quando cominciava a picchiare con insistenza sulle gambe, marinandole nel dolore. Ma poi amato alla fine della corsa. Dentro, dai settecento pacchetti di sigarette per i meno abituati ai mille per i più forti. Come quel tronco di rovere del Bagaten, che i finanzieri provarono ad abbattere, senza riuscirci, anche sparandogli. Ognuno, nel momento della cucitura delle scarpe per il viaggio, stava solo con i suoi pensieri: la morosa, i figli, l’adrenalina che scendeva lentamente in ogni angolo del corpo. Poi, a un cenno, tutti in fila con passo attento, svelto, determinato. Ogni volta le pedule venivano costruite con sapienza da artigiani: gli spalloni dicevano di non volersele portare appresso perché nel passaggio di confine i doganieri potevano fare storie, ma la verità è che non volevano rinunciare al rito propiziatorio» (pp. 130-131).
E ci sono gerarchie dettate dalla capacità individuale di saper trovare ogni volta un passaggio ignoto ai burlanda (i finanzieri) e alla tribù (la polizia tributaria), di saper organizzare e tenere insieme una colonna: da cui le leggendarie vite e imprese dei capi del contrabbando. Il Ment, innanzitutto e prima di tutti: la leggenda, «l’ultimo grande sprazzo di una valle inquieta, mazziniana e valdese, anarchica e contrabbandiera prima di rassegnarsi a un docile tramonto. La leggenda ha contorni sfumati, è traccia di racconto ogni volta diversa. Quando si accenna al Ment, i volti dei vecchi sorridono luminosi e si soffermano per attimi assaporati lentamente, in cui passa la nostalgia» (p. 61).
E poi il Berto, che di soprannome faceva il Mucc, il più radicale e sfacciato: «La finanza aspettava gli uomini sui sentieri più impervi? Bene, lui andava sulle mulattiere, sulle strade sterrate, sulle vie più scontate. La sfrontatezza era il suo mestiere» (p. 212). Il Barogio, che «ha rivestito, nella sua carriera, tutti i ruoli previsti dal mestiere. Spallone, capo, padrone in proprio, pilota di motoscafi suoi e di altri, autista di machine potenti e veloci, sue e di altri» (p. 213). Il Cia Cia, sbattuto dalla guerra su un’isola Greca: che invece di bearsi nell’elogio della fuga, come in un film di Salvatores (roba da fighetti della borghesia meneghina, l’elogio della fuga), imbarcato per Atene, fugge verso il nord, s’inventa un mestiere da barbiere in Bulgaria, viene catturato dalle SS ma evade, per poi ritrovarsi in Jugoslavia «dalla parte giusta: in base all’istinto, non alla politica» tra i partigiani di Tito, finire la guerra sfilando tra gli applausi della città di Spalato, e infine tornare a casa, a Lezzeno, dove la sua casa neanche c’era più: «Ricominciare fu dura, ma per fortuna c’era il contrabbando. Un mondo dove la sua esperienza di movimenti furtivi nella notte, sguardi attenti e capacità di lettura del silenzio si rivelò subito decisamente utile» (p. 187).
E infine il Cinto, che dà la cifra al suo mondo e al racconto di questo mondo con la sua lucida consapevolezza:
«Nei primi anni Settanta tutti, capitalisti e operai, pensavano alla fabbrica come un luogo capace, allo stesso tempo, di innovazioni tecnologiche e di sogni rivoluzionari. Mandando a scuola i figli e andandoci essi stessi, gli operai si illudevano di conoscere le stesse parole del padrone anche se la parola senza potere resta un flatus vocis.
Il Clinto lo aveva capito sin da subito: meglio la libertà del contrabbandiere che la schiavitù della tecnica, con le invenzioni più suggestive della creatività operaia che finivano nelle mani altrui.
Il sapere operaio non è mai diventato potere operaio» (p. 168)
Non è un mondo benevolo quello del lago, né facile è viverci. Le storie dei contrabbandieri conoscono le tragedie della montagna, le fucilazioni, gli omicidi di Stato, i caduti per mano dei gendarmi. Ma anche le storie narrate attorno al mondo degli sfrosatori hanno talvolta il sapore della tragedia: come la morte della Gianna e Luigi, partigiani scampati ai fascisti e uccisi dal furore rivoluzionario, dalla grettezza personale, dall’ossessione ortodossa e inquisitrice dei loro ex compagni, sotto l’accusa, falsa, di aver parlato sotto tortura. O l’elegia di Elda, la più bella ragazza di Colonno, annegata nel lago d’Arzeno, il cui corpo fu cercato per quasi due mesi dal più esperto dei rampinieri, e infine trovato nella domenica di Sant’Anna.
È un mondo che si colloca non sulle linee di confine tracciate dai poteri e dagli Stati, ma nella frontiera, cioè nello spazio intermedio tra gli Stati e i poteri: «I luoghi di confine portano dentro di sé lo spirito d’avventura, l’incontro tra storie diverse, il dramma della divisione nel teatro del mondo. Se ne esce più liberi, più duri, più segnati» (p. 53). Nella frontiera, come in una terra di nessuno, vigono altre leggi e altre morali dettate dall’agire quotidiano, da un sapere condiviso sedimentato dalla vita in comune, da un senso di spontanea fratellanza e solidarietà che solo un’ottusa obbedienza può fraintendere per omertà: «L’omertà è sporca quando è suddita della paura e del potere, legale o illegale: in Italia, spesso, i due termini sono intrecciati. L’omertà può essere invece, come dicono i dizionari, solidarietà di popolo; in questo caso ha un volto pulito. Ed è dura a morire, perché non ha bisogno di sentirsi liberata dalla paura» (p. 96). In quel mondo più d’una Resistenza ha calcato quei sentieri: da quella, quasi ignota, dell’insurrezione anti-austriaca e repubblicana guidata nel 1848 da Andrea Brenta, «il Pisacane della Val d’Intelvi», a quella partigiana del 1943-45. E lungo quei sentieri fu guidato (ma questo nel libro non c’è) Giangiacomo Feltrinelli, per rifugiarsi in Svizzera all’indomani della strage di Stato del 12 dicembre.
Le storie di questo mondo vivono finché vive il mondo che le racconta: come aveva capito il Giorgio, quando intuisce che «terminate quelle storie, il lago si sarebbe asciugato negli egoismi senza prospettive di futuro. Come il resto d’Italia» (p. 172).
Perché, dunque, tornare a raccontarle?
Perché quelle storie alludono ad alte storie, che Cecco Bellosi ci racconterà, speriamo presto, in un nuovo libro; storie di rivoluzioni perdute, ma non inutili: «Le rivoluzioni non sono mai inutili, soprattutto quelle perdenti. Sono intrise del profumo inebriante della rivolta e imprimono la convinzione che il mondo possa cambiare davvero. Soprattutto danno senso alla vita» (p. 57). Come con quell’Aureliano Buendía che tutti siamo, o siamo stati, aver perso tutte le 32 rivoluzioni promosse non impedisce di assaporare il sogno della trentatreesima.
Queste storie ci mostrano un mondo diverso dall’attuale, contro il grigiore del presente, per dirci che un altro mondo è stato possibile, e che da quello possiamo imparare a rialzare la testa verso quel cielo cui dare, ancora una volta, l’assalto, «in attesa di una nuova storia con i piedi nell’acqua e la testa fra le nuvole» (p. 233).
Nota
A Con i piedi nel lago è stato assegnato il premio “Segnalazione 2013” – vale a dire “il premio della critica” – del Premio Chiara 2013, ex aequo con Andrea Gianinazzi, L’uomo che vive sui treni. Racconti ferroviari (Armando Dadò Editore, Locarno 2012) con questa motivazione: «Entrambi esprimono una sensibilità particolare per il proprio territorio; per Bellosi il Lago di Como, oggi terra di turisti, ieri di ribelli e artigiani, per Gianinazzi il ticinese, dove la storia con la S maiuscola si incontra con la precarietà di una vita sul confine».
Su Con i piedi nel lago leggi anche la recensione di Sergio Bianchi, qui.