di Gioacchino Toni
Nel volume 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi 2015) Jonathan Crary, docente alla Columbia University e tra i fondatori delle edizioni indipendenti Zone Books, ha argomentato come attraverso le innovazioni tecnologiche digitali il capitalismo sia giunto a inediti livelli di dissoluzione della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. In continuità con quanto esposto in 24/7, Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista (Meltemi 2023), evidenzia come le disuguaglianze e il dissesto ambientale siano correlati al capitalismo digitale, da lui indicato come fase terminale del capitalismo globale votato alla finanziarizzazione dell’esistenza sociale, all’impoverimento di massa, all’ecocidio e al terrore militare.
Ritenendo assurda la pretesa di poter perseguire il cambiamento sistemico ricorrendo ai medesimi apparati che garantiscono la sottomissione a concessioni e regole imposte da chi detiene il potere, lo studioso denuncia come, a differenza di quanto sostenuto da alcuni ambienti di tecno-attivismo1, lungi dal poter essere strumento di cambiamento radicale, l’universo di internet sia del tutto incompatibile con una Terra abitabile e con le relazioni umane di stampo egualitario.
Ritenendo del tutto illusoria «l’idea che internet possa funzionare indipendentemente dalle dinamiche catastrofiche del capitalismo globale», lo studioso sostiene che la dissoluzione di tale sistema non possa che comportare «la fine di un mondo guidato dal mercato e modellato dalle odierne tecnologie in rete». I mezzi di comunicazione presenti in un mondo postcapitalista assomiglieranno necessariamente poco alle reti finanziarizzate e militarizzate dominanti, visto che i dispositivi e servizi digitali attualmente in uso «sono resi possibili dall’esacerbazione illimitata della disuguaglianza economica e dal deturpamento accelerato della biosfera terrestre, indotto dall’estrazione di risorse e dal consumo superfluo di energia» (p. 13).
Internet, sostiene l’autore, si è rivelato del tutto funzionale a quel processo di globalizzazione capitalista, con relativa «“dissoluzione della comunità” e di qualsiasi relazione sociale indipendente dalla “tendenza universalistica del capitale”», previsto da Marx.
Il complesso di internet è divenuto rapidamente parte integrante dell’austerità neoliberale, nella sua costante erosione della società civile e nella sostituzione delle relazioni sociali con dei loro simulacri online monetizzati. Esso promuove la convinzione di non essere più dipendenti gli uni dagli altri, l’idea per la quale siamo amministratori autonomi delle nostre vite, che possiamo gestire le nostre amicizie nella stessa maniera in cui gestiamo i nostri conti online (p. 15).
Tutto ciò ha dato luogo a quell’“apatia narcisistica”2 propria di individui sempre più «svuotati del desiderio per la comunità, che vivono nella passiva conformità all’ordine sociale esistente» e, continua Crary, al «deterioramento della memoria e l’assorbimento delle temporalità vissute; non tanto la fine della storia, quanto piuttosto il suo divenire irreale e incomprensibile» (p. 15). Una paralisi del ricordo che tocca tanto l’ambito individuale che collettivo e che – come sul finire degli anni Ottanta aveva intuito Guy Debord3 – nell’esaltazione dell’istantaneo lo perpetua, altro e identico, uguale a sé stesso.
Se storicamente i sistemi di comunicazione hanno sempre teso a disgregare le comunità locali inserendole all’interno di ambiti più allargati ove è stato mantenuto il monopolio del sapere e la dominazione culturale ed economica4, è possibile vedere in internet un sofisticato apparato globale volto alla dissoluzione della società.
«Internet disperde i senza-potere in un bazar di identità, sette e interessi separati, ed è particolarmente efficace nel solidificare le formazioni di gruppi reazionari. L’isolamento che produce diventa infatti un incubatore di particolarismo, razzismo e neofascismo» (p. 20). Storicamente, sostiene l’autore, i tentativi operati dai gruppi soggiogati di appropriarsi efficacemente dei media della comunicazione per portare avanti finalità politiche altre in fin dei conti non hanno ottenuto granché.
A meno che il difficile compito di creare nuove forme di vita comunitarie e cooperative non divenga una priorità politica, tutte le forme di attivismo online continueranno a essere del tutto innocue, incapaci di ottenere alcun cambiamento radicale o di fondo. Dimostrazioni, proteste, cortei hanno sì luogo, ma, al contempo, avviene una re-immersione nella separazione atomizzante della vita digitale. I legami che sembrano sbocciare nel mezzo dell’azione finiscono poi per evaporare. Persino negli effettivi eventi dei cortei, delle occupazioni, delle zone liberate e delle mobilitazioni di ogni tipo, la solidarietà di gruppo è affievolita da una massa critica di individui che sono sempre anche altrove, appiccicati ai loro dispositivi e alle risorse di autopromozione messe a disposizione dai social media (p. 22).
La retorica green con cui vengono presentati progetti e industrie per l’energia rinnovabile cela l’intenzione di mantenere modelli devastanti di consumo, competizione e disuguaglianze crescenti, pertanto nasconde secondo Crary un dispositivo di devastazione sociale e ambientale a cui occorre urgentemente contrapporre un immaginario in cui la dimensione sociale torni a ricoprire il ruolo che le spetta, cessando di essere una semplice appendice dell’universo online.
Una fase cruciale della lotta degli anni a venire per una società equa consiste nella creazione di assetti sociali e personali che abbandonino il predominio del mercato e del denaro sulle nostre vite associate. Ciò significa respingere il nostro isolamento digitale, rivendicare il tempo in quanto tempo vissuto, riscoprire i bisogni collettivi e resistere ai livelli montanti di imbarbarimento, inclusi la crudeltà e l’odio che traboccano dall’online. Non meno importante è il compito di riconnettersi umilmente con ciò che resta di un mondo pieno di altre specie e forme di vita (p. 12)
Crary sostiene la necessità e la possibilità di attuare forme di rifiuto radicale contro la martellante pretesa dell’indispensabilità di internet e dell’insignificanza di tutto ciò che risulta refrattario ad assimilarsi ai suoi protocolli. L’accettazione passiva della «intorpidente routine online quale sinonimo di vita» palesa, secondo lo studioso, un deficit collettivo di immaginazione derivato dalla resa a una cultura e ad un’economia di matrice tecnoconsumista responsabili delle devastazioni ambientali e della vita degli esseri umani.
lo stesso storytelling dell’alfabetizzazione tecnologica necessaria a ridurre le diseguaglianze, sostiene Crary, si rivela un eufemismo che, nei fatti, si traduce in shopping, videogiochi, serie televisive e altre attività tendenti ad indurre a dipendenza; occorrerebbe guardare all’universo di internet come alla quintessenza del libero mercato deregolamentato del tardo capitalismo secondo cui tutto è permesso soltanto se può essere monetizzato e vendibile.
Se nel corso dello sviluppo del capitalismo industriale si sono approfonditi gli studi e le tecniche di gestione scientifica dei movimenti corporei al fine di renderli efficienti sul lavoro, ora i colossi tecnologici si concentrano invece sull’“economia dell’attenzione” monitorando e guidando i movimenti dello sguardo sugli schermi con l’obiettivo di addestrare la visione relegandola al ruolo di mero accessorio dell’elaborazione di informazioni. In linea con le richieste del capitalismo neoliberale, le architetture degli attuali dispositivi digitali agiscono omogeneizzando al ribasso e meccanizzando l’universo emotivo umano.
Internet, continua lo studioso, produce una sorta di naturalizzazione di un individualismo che ha fatto propria una logica di disimpegno nei confronti di un mondo vissuto in comune con gli altri5. Crary sostiene che sin dalla metà degli anni Novanta internet ha mirato a neutralizzare le energie ribelli dei giovani negando loro spazi e tempi di autonomia e autoriconoscimento collettivo, dunque la possibilità di costruirsi una memoria e di avere esperienze reali. Distolti dall’azione politica, i giovani sono divenuti il target su cui costruire conformismo tecnologico e consumistico inducendoli ad abitudini e comportamenti prevedibili e duraturi.
La vita online genera bisogni governabili all’interno della sua clausura autosufficiente e regolamenta ciò che è consentito sognare. È solo quando i desideri e le speranze si aggrappano alla vita di un mondo fisico condiviso, non importa quanto compromesso, che una persona cresce capace di rifiutare e di provare ostilità verso i poteri e le istituzioni che opprimono e soffocano queste speranze. […] Adesso l’obiettivo è impedire che i giovani godano mai delle circostanze nelle quali immaginare e costruire un futuro che appartenga a loro. Vediamo piuttosto un’infinità di notizie che ci parlano di giovani che utilizzano “creativamente” e in modo “dirompente” i loro strumenti e piattaforme digitali. La priorità è far deragliare la possibilità di una gioventù potenzialmente ribelle e, al fine di nascondere il loro futuro senza un lavoro e senza un mondo, abbiamo la triste narrazione di una generazione che aspira a diventare “influencer”, fondatrice di start-up, o altrimenti allineata a valori imprenditoriali senz’anima (pp. 52-54).
Insomma, sostiene lo studioso, le élite si preoccupano di mantenere gli individui rinchiusi all’interno delle “irrealtà aumentate” di internet, ove «l’esperienza è frammentata in un caleidoscopio di fugaci rivendicazioni di importanza, di ammonimenti senza fine su come condurre la nostra vita, come gestire il nostro corpo, cosa comprare e chi ammirare o temere. La separazione e atomizzazione indotta da internet è aggravata dall’umiliazione e lo sminuimento alimentati dalla cultura dei miliardari» (pp. 98-99). Rispetto al passato sembrano essersi ridotti i terreni comuni su cui «costruire nuove solidarietà che emergano dalle realtà e necessità del conflitto di classe. Nostro malgrado, capitoliamo di fronte al sentimento di impotenza o alle illusioni di “soluzioni” individuali» (p. 99).
Il fenomeno dell’atomizzazione della società in individui assorbiti dai contenuti dei propri schermi amplifica l’implosione dello spazio pubblico palesando il rifiuto della comunità voluto dal neoliberalismo. L’eliminazione dell’incontro, di un modello di vita fondato sulla comunità viene presentato dalla narrazione dominante come fastidioso effetto collaterale da concedere al sistema produttivo dell’era digitale.
Questa frammentazione di un mondo sociale si basa però sull’imperativo della frenesia e dell’essere sempre occupati. È irrilevante cosa si stia effettivamente facendo, se guardare, lavorare, mandare messaggi, fare shopping, navigare su internet, ascoltare musica, giocare o qualunque altra cosa. Il risultato è comunque l’acquiescenza di massa a un’impalcatura immateriale di separazione, sostenuta da un’attività fittiziamente autonoma e dall’indifferenza a qualsiasi cosa avvenga al di fuori di quella determinata pratica (p. 136).
Dopo il 2008 l’economia globale sembra essere tenuta in vita artificialmente dalle élite senza alcun calcolo di lungo periodo propense come sono soltanto ad incassare il possibile per poi cercare, invano, qualche esclusiva via di fuga prima della catastrofe finale6 anche se, ricorda Crary riprendendo Walter Benjamin, la vera catastrofe è piuttosto la perpetuazione dell’attuale mondo, il proseguimento delle sue forme di violenza, ingiustizia e devastazione. La stessa ossessione di sopprimere l’invecchiamento che caratterizza la contemporaneità deriverebbe dalla volontà di immaginare la vita come un presente esteso esente da decadimento e cambiamento7.
Per migliaia di anni, la finitezza della vita è stata ciò che ha dato significato, passione e scopo alla nostra esistenza e ai modi in cui amiamo e dipendiamo dagli altri. La svalutazione della finitezza umana, proponendosi di rendere la longevità delle persone un ricercato prodotto biotecnologico per ricchi, fa parte dell’estinzione di qualsiasi valore o credenza che trascenda la voracità del capitalismo. Con l’assimilazione del “tempo della vita” alla logica della finanziarizzazione, la mercificazione e privatizzazione del futuro si fa adesso esplicita (p. 81)
Ad essere ripresa dallo studioso è anche la convinzione di Robert Kurz secondo cui l’economia dell’informazione trainata dai servizi che ha preso il via negli anni Settanta non è in realtà mai riuscita ad inaugurare una vera e propria nuova fase di accumulazione; il collasso del 2008 ha strettamente a che fare con l’informatizzazione dell’economia globale, una volta che il lavoro e il tempo di lavoro cessano di essere la principale fonte e misura di ricchezza, sostiene Kurz, il capitalismo si indebolisce. Quest’ultimo «si approssima al suo esaurimento quando la tecnologia non si limita ad accrescere la produttività umana, ma a rimpiazzarla» (p. 65).
Ai sogni di un futuro migliore, ai piani per realizzarlo, si è così sostituito sul finire del vecchio millennio un immaginario votato al “presentismo” indotto da tecnologie progettate per abolire il tempo privilegiando l’“adesso” e l’illusione dell’istantaneità, dando luogo a un’accessibilità “on demand” che presuppone una realtà libera da vincoli spaziali, materiali e temporali. A ciò si associano maniacali analisi del rischio, previsioni e simulazioni volte a neutralizzare il futuro prima che esso si dia. D’altra parte, ricorda Crary riprendendo Joseph Gabel8, l’esperienza della temporalità prodotta dal capitalismo è sempre stata costruita su una concezione di progresso come successione quantitativa di momenti presenti volti a mantenere gli assetti socio-economici esistenti.
L’insistente promozione dell’universo tecnologico contemporaneo, sostiene Crary, cela il tendenziale relegamento degli esseri umani ai margini del sistema tecnologico. È, secondo lo studioso, mal riposta la convinzione che vede nell’interecciarsi di internet, intelligenza artificiale ecc. la nascita di un unitario assetto panottico di controllo sociale in quanto a darsi, a suo avvuiso, sarà piuttosto «un patchwork di sistemi e componenti incompatibili e in concorrenza tra loro, che produrrà malfunzionamenti, guasti e inefficienze» (p. 75).
Insomma, secondo lo studioso, la logica capitalista del costante rinnovamento dettato dall’obsolescenza programmata, da una complessità tecnica sempre maggiore, dal taglio dei costi e dalla smania di introdurre aggiornamenti non necessari e non ancora rodati, entra inevitabilmente in conflitto con la stabilità richiesta ad un funzionamento efficiente di un controllo autoritario. Crary prospetta un futuro prossimo non dissimile da quello messo in scena da film distopici in cui la pretesa del controllo sociale assoluto tende a risolversi, di fatto, nell’ingovernabilità.
La soglia di un mondo postcapitalista non è lontana, al massimo pochi decenni. Ma a meno che non vi sia una prefigurazione attiva di nuove comunità e formazioni capaci di autogoverno egualitario, proprietà condivisa e cura per i propri membri più fragili, il postcapitalismo sarà un nuovo regno di barbarie, dispotismi regionali e, ancora peggio, nel quale la scarsità prenderà forme inimmaginabilmente feroci. Sartre vide che le insorgenze emergenti avevano una capacità unica di rompere le maglie della sottomissione ad “apparati antisociali” e di trasformare la passività e l’isolamento in nuove forme di solidarietà. I gruppi rivoluzionari, diceva, nel rispondere allo stato di emergenza potevano definire la propria temporalità e determinare “la velocità con cui l’avvenire gli viene incontro”. Oggi, a oltre mezzo secolo di distanza, tra le fiamme e le devastazioni del nostro mondo vitale, ci rimane poco tempo per andare incontro a un futuro di nuovi modi di vivere sulla Terra e tra di noi (p. 141).
Circa il come far sì che che il postcapitalismo anziché ridursi a ulteriore barbarie si traduca in nuove forme di vita comunitaria cooperativa è tremendamente difficile pronunciarsi. Non a caso lo stesso libro di Crary, opera di denuncia dal registro a tratti apodittico, evita di avventurasi sul che fare. Iniziano ad essere tanti i testi che infrangono la narrazione dominante sull’universo digitale e questo è certamente un primo passo positivo e necessario, restano da trovare le modalità per compiere collettivamente i passi successivi volti al superamento del sistema di sfruttamento contemporaneo.
Su posizioni differenti è, ad esempio, Carlo Milani, Tecnologie conviviali (elèuthera 2022) il quale, ritenendo che il potere debba essere distribuito affinché non si accumuli strutturando gerarchie di dominio, invita a concepire gli strumenti elettronici come potenziali alleati per costruire relazioni solidali e libertarie [su Carmilla]. Autori come Henry Jenkins hanno insistito sull’inedito potenziale partecipativo dei media contemporanei mettendone in luce la possibilità allargata di produzione mediatica, o di incidenza sui contenuti prodotti da altri. A differenza di studiosi come John Banks e Sal Humphreys, che denunciano come il fenomeno partecipativo rappresenti una modalità di espropriazione di lavoro non retribuito sapientemente sfruttata dalle aziende del settore, Henry Jenkins individua nella pratica partecipativa una possibilità di trasformazione sociale emancipativa dal basso. Cfr.: Henry Jenkins, Collaboration, participation and the media, in “New Media & Society”, vol. 8, n. 4, 2006, pp. 691-698; Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Adria 2014; John Banks, Sal Humphreys, The labour of user co-creators: Emergent social network markets?, in “Convergence: The International Journal of Research into New Media Technologies”, vol. 14, n. 4, 2008, pp. 401-418. . ↩
Cfr. Elena Pulcini, L’individuo senza passioni. Individuo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. ↩
Cfr. Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2019. ↩
Cfr. Harold Innis, Impero e comunicazioni, Meltemi, Roma 2001. ↩
Éric Sadin ha denunciato come l’universo di internet tenda a relegare gli individui ad una “sferizzazione della vita” che li isola all’interno di bolle tendenti a vincolarli alle abitudini consolidate e a limitare le occasioni di confronto con l’extra-sfera di appartenenza, dunque a far percepire l’esistenza – reale o vissuta come tale – come del tutto immodificabile. Al posto di una società composta da una pluralità di persone chiamate a confrontarsi, sembra prendere piede «un ambiente costituito da un brulichio di monadi felici di godere continuamente di ciò che si presume possa fare al caso loro in ogni momento. Una nuova condizione, questa, destinata a diventare naturale o a dare la misura di ogni cosa» Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma 2022, p. 97 [su Carmilla 1 e 2]. ↩
Le élite sembrerebbero procedere senza alcuna pianificazione, interessate ormai alla ricerca di una frenetica, quanto improbabile, via di fuga. Si veda a tal proposito Douglas Rushkoff, Solo i più ricchi, Luiss University Press, Roma 2023 [su Carmilla]. ↩
La studiosa Alessia Buffagni ha indagato l’estensione temporale delle esistenze degli individui determinata soprattutto dalla tecnica medica che ha innalzato l’aspettativa di vita e aumentato la popolazione anziana concentrandosi in particolare sull’estensione anatomica protesica nel corso dei secoli e sull’estensione qualitativa contemporanea. «Il concetto di estensione – prolungamento, allungamento – della vita, del suo limite temporale, è una costante nella storia della nostra specie. All’estensione temporale si accompagna l’urgenza di estensione ‘materiale’: l’estensione materiale delle prestazioni – e della prestanza. In principio per normalizzare le proprie funzionalità (in caso di handicap), quindi per accrescerle, e infine, dove possibile, per estremizzarle, fino a metterne alla prova i limiti» Alessia Buffagni, Modellare la tecnologia su un corpo che invecchia. La ricerca di un metodo, Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 71 [su Carmilla]. ↩
Cfr. Joseph Gabel, La falsa coscienza. Saggio sulla reificazione, Dedalo, Napoli 1967. ↩