di Franco Pezzini
Da tre anni (cfr. qui per il 2021, qui e qui per il 2022, e si sono selezionati i 35 incipit relativi al terzo bando) il Premio Calvino tiene un fortunato call racconti dedicato alla scrittura del fantastico: niente di strano, la narrativa fantastica è un terreno su cui si misurano con piacere gli esordienti, che poi passano a scrivere – com’è giusto – anche di altro. Non certo per dire che il fantastico sia un genere più “facile” o meno maturo, tutt’altro: ma più semplicemente agevola il passaggio da oltre il velo – o da dietro il sipario – di quelle fantasie che il pudico realismo tende a censurare, riguardino esse una visione della società o invece del nostro profondo. E che la maschera non sia un camuffamento in senso “facile” e invece permetta l’affiorare numinoso o demonico, traghetti a un teatro di realtà del profondo – come tutti i teatri – e permetta un più diretto confronto con le grandi istanze (il male, la morte…) ci è chiaro dai tempi arcaici del gorgoneion e anzi da ben prima.
Tanto più che per scrivere fantastico è comunque opportuno – ma direi necessario – essersi misurati da lettori con i più vari registri della narrativa, a partire da quella classica: demenziale chiudersi (c’è chi lo fa), e trasformare l’orizzonte del fantastico in un ghetto asfittico.
Tanto più che, come già osservato in altra sede, il fantastico non è tanto o solo un oggetto quanto un modo di narrare, una febbre della scrittura, una forza visionaria che permette la messa a fuoco di qualcosa altrimenti inavvertibile.
Come già detto a proposito del bilancio delle due edizioni del call, finalisti e segnalati rappresentano un bacino di nomi eccellenti che preannuncia qualcosa della produzione di domani: e non stupisce che una serie dei nomi emersi – molti femminili – abbia avuto modo di brillare in questi ultimissimi anni o mesi anche su altri fronti. Cerchiamo dunque di cogliere i segnali di fumo che vengono da queste segnalazioni al mondo editoriale da un lato, al pubblico dei lettori dall’altro, e andiamo online o magari in libreria a cercare i nomi così emersi.
A partire dalle forme brevi, oggi fortunatamente valorizzate in un ampio pelago di belle riviste online. Per fare solo qualche esempio, ricorderei Simona Castanotto (segnalata nella prima edizione con il racconto Gli occhi del gatto), che con la sua ironia e l’affilata intelligenza ha offerto novelle a rivista Blam!, Pastrengo e La Nuova Carne. Michela Lazzaroni, vincitrice di “Oltre il velo del reale 2” con il bellissimo La disincarnata, che rilegge il filone delle haunted house in chiave esistenzialmente ricca, offre testi di alta qualità e grande sottigliezza a inutile, rivista Blam!, Belleville news, Nazione Indiana ma anche – su carta – a Urania, Robot, e un paio di antologie di Moscabianca Edizioni. Fabiana Castellino, editor e autrice efficace ed elegante (Lui a “Oltre il velo del reale 2”), ha presentato ottimi racconti su In Allarmata Radura, Altri Animali, Narrandom, Micorrize, Neutopia, rivista Blam!, Blogorilla, Risme. E così via.
Ma c’è anche chi ha affrontato con successo la formula del romanzo. Come l’attivissima editor, scrittrice, insegnante di scrittura e animatrice culturale Emanuela Cocco, finalista alla prima edizione di “Oltre il velo del reale” con il vivido e originale racconto Nel verde: non solo ha varato per Arcoiris (2021) una splendida collana “di letteratura nera, raccapricciante, fantastica, inquietante, fantasmatica”, tReMa, ma aveva già offerto un romanzo di terribile bellezza, Tu che eri ogni ragazza (Wojtek, 2018) – significativamente non di contenuto fantastico, a confermare l’assurdità di troppo rigide cesure tra contenuti. Ma anche Greta Pavan, redattrice e editor freelance, pure finalista nella prima edizione di “Oltre il velo del reale” con l’inquietante Ona storia briansö, ha poi raggiunto la menzione speciale della Giuria al Premio Calvino con l’ottimo Quasi niente sbagliato accolto da Bollati Boringhieri – e di carattere del pari non fantastico. Sara Catacci, emersa nella prima edizione del call con Se un giorno verranno a prenderti e nella seconda con Un altro piccolo segreto, a sua volta segnalata al Premio Calvino con l’interessante e spiazzante romanzo Il talento di Katia, l’ha poi visto uscire per Dalia, 2022: un testo compatto, complesso, di grande intelligenza dove il “fantastico” è quello della soggettività – creativa, proiettiva, pragmatica nelle sue soluzioni esistenziali – contro le letture oggettive del mondo. A ricordare che strategie giudicate come patologiche possono costituire talora forme di resistenza in attesa – l’essere umano è anche tempo – di recuperare migliori equilibri.
In un panorama richiamato qui senza pretesa di esaustività, un esempio interessante a cui merita dedicare un focus è Col fumo negli occhi di Daniela Ginex (pp. 304, € 20, Kalós, Palermo 2022): già autrice di un romanzo (Divagazioni amorose, Algra, 2017) e di racconti in varie antologie e riviste, Ginex era stata finalista del primo “Oltre il velo del reale” con il godibile, ironico Anime gemelle, a modulare l’irruzione del paradosso – tra Pirandello e Achille Campanile – in forma di commedia di costume. Questo Col fumo negli occhi, ampio romanzo di ambientazione siciliana dipanato su e giù nel corso del Novecento, non ha invece taglio fantastico, se non nel senso del carattere spesso sopra le righe della realtà in cui siamo immersi: un riuscito mix di commedia grottesca (soprattutto l’inizio) e dramma, dove i fili del tempo sono felicemente gestiti e comunque la sobrietà stilistica evita alla dinamica dei personaggi i rischi del melodramma. Una scrittura elegante, priva di barocchismi e sempre molto misurata, va a indubbio merito dell’autrice.
Due gli ideali punti di fuga: uno esplicito in Matilde, figlia ormai anziana del barone Regalbuto nonché ex ragazzina prodigio su un viale del tramonto ormai consumato – maschera più ironica che amara, nelle sue fisime, pretese e acidità; un altro implicito, velato, offerto sempre per sottrazione e spesso dietro porte chiuse, dialoghi mozzi, impressioni e sospetti, nel fratello del cuore Michele, belloccio e torpido. Attorno a lui sedimentano i misteri della vicenda, fino a una chiusa nel segno di un insperato riscatto sociale e un po’ di giustizia tardiva, con un colpo d’ala nell’ultima generazione: a far riflettere sugli stereotipi di italiani brava gente e presunte nobiltà d’animo di ometti “buoni” e ammiratissimi ma in realtà deboli fino alla meschinità.
Il fumo negli occhi del titolo è dunque quello dei personaggi che non sanno vedere, accecati da pregiudizi sociali o affettivi: ma è insieme il fumo della combustione, come dei sigarini di Matilde, delle dignità di facciata d’un mondo ridotto alle sue ceneri.
Il tutto si consuma in un panorama dove baronesse e serve – donne costrette a grandi manovre di resilienza, compromessi e delusioni di fuoco – restano comunque assoggettate a una brutalità machista, più o meno ostentata o invece gestita dietro i sipari in guanti di velluto. Ma lo sappiamo, il trascorrere del tempo dal patriarcato dell’antica arroganza baronale all’età odierna più libera, dove più facilmente – è vero – ci si può smarcare da catene di status, non permette di rassicurare sulla scomparsa di omiciattoli come questo Michele: i cui epigoni popolano oggi in genere soltanto altri tipi di palazzo.
(1. continua)