di Franco Pezzini
Marinella Lőrinczi, LI commentarii, ovvero dei V sensi, pp. 196, € 20, Grafica del Parteolla, Dolianova CA 2022.
Su Dracula, inteso come personaggio di Bram Stoker o quattrocentesco voivoda valacco, in Italia hanno scritto tantissimi, ora tentando chiavi d’approccio originali ma più spesso presentando (diciamo così) il riciclone del riciclone: interpretazioni psicologizzanti da rotocalco, forzature esoteriche, fantasismi di piccolo cabotaggio, ovvietà assortite, in una rimasticatura allungata di Wikipedia. Rari sono gli studi che a distanza d’anni mantengano una vera utilità, vuoi per completezza panoramica – magari con quelle connotazioni pionieristiche che a tratti svelano un godibilissimo gusto vintage (Giovannini, Introvigne, ecc.) – vuoi per brillantezza di chiave prescelta (per esempio Teti, sul rapporto tra vampiro e malinconia). Ma un nome che va rimarcato per importanza particolare – nel senso che un saggio che oggi non ne consideri gli studi resta incompleto e discutibile – è quello di Marinella Lőrinczi, seria studiosa di linguistica romanza e lingua e letteratura romena (già con cattedre all’Università di Cagliari, dove ha iniziato e concluso la carriera accademica), esperta di aeree plurilingui e forme di plurilinguismo, autrice non solo di articoli dedicati alla lingua sarda – “più esattamente all’ideologia linguistica, cioè a idee, opinioni, preconcetti, che si manifestano nei discorsi di persone di varia provenienza sociale e professionale in relazione alla lingua sarda e al suo ruolo sociale e politico”– , ma di alcune opere draculesche di assoluto rilievo per rigore e originalità di taglio.
A partire dal fondamentale Nel dedalo del drago. Introduzione a Dracula (Bulzoni, Roma 1992), per passare poi alla bellissima raccolta Paesaggio marino con dame vittoriane (CUEC, Cagliari 1995), al breve e denso Dracula & Co. Il richiamo del Nord nei romanzi di Bram Stoker (CUEC, Cagliari 1998) e in ultimo a Sulla mistificazione. Il caso del romanzo Dracula di Bram Stoker (1897) (Il Maestrale, 2018), dove affonda il bisturi in certe sovrainterpretazioni ed eccessive disinvolture critiche. Testi – ho ricordato solo quelli sul tema in questione, ma la sua produzione è più ampia e variegata – che meriterebbero assolutamente una riproposizione, e che garantiscono alla materia bibliografie scintillanti e una conoscenza ravvicinata del terreno culturale, visto che l’autrice, “Nata in Transilvania (Romania) da madre fiumana /arpista di professione) e padre ungherese (scrittore), […] laureata a Bucarest” dove ha frequentato la scuola ungherese, ha potuto avvicinare in grazia delle proprie competenze linguistiche testi altrimenti chiusi anche a parecchi colleghi accademici nostrani. Chi scrive è lieto di ammettere il proprio debito nei confronti di questi studi tanto ricchi: riportarne le provocazioni senza citarli sarebbe semplicemente disonesto.
In ordine di tempo, LI commentarii, l’ultimo scritto edito dell’autrice, è però una specie di romanzo, dalla genesi complessa, nascendo da un tessuto di storie di diversa provenienza (ricordi personali, racconti già proposti come autonomi, esperimenti narrativi di vario genere): un testo di notevole potenza onirica, e le cui immagini sembrano in effetti dettate da visioni notturne o da trasfigurazioni di memorie remote, anche per tipo di passo narrativo. A partire dal micromondo di una piazzetta, poi su spiagge coperte da alti cumuli d’alghe polverizzate – pericolosi, un bambino può morirci – e infine in una strana villa semiabbandonata nella boscaglia, dove si consuma il rapporto prima guardingo e poi sempre più profondo tra un uomo e una donna. Lui conosce gli spiazzamenti e le crisi dell’uomo pragmatico davanti a novità trascinanti – sentimenti compresi – che non capisce appieno; lei è segnata nel suo passato da un’avventura strana in un mondo primitivo (la sua casa presenterà però aspetti ipertecnologici), che le ha cambiato il metabolismo e l’ha resa sciamanicamente più prossima all’orizzonte di insetti e pesci. E gli scarabei tatuati sulla sua schiena paiono svelare caratteristiche stranianti.
Difficile – ma non così importante – etichettare un’opera del genere, un oggetto narrativo non identificato (diviso in 51 “fasi”, una Postfazione e un’Appendice) per cui la cifra del romanzo sembra inadatta, e che nel grande fascino visionario, nella messe lussureggiante di spunti e insieme in quell’attardarsi – come nei sogni – su singole immagini ed emozioni traghettate coinvolge non solo i cinque sensi del titolo ma, si direbbe, anche altri dal profondo, dalla memoria, dalla malinconia.