di Emilio Quadrelli
Veniamo così alla prima vera e propria giornata del Contro Vertice, il 20 luglio. La dinamica reale dei fatti, nonostante la morte di Carlo Giuliani, non sembra raccontare l’esistenza, da parte delle forze dell’ordine, di una strategia pianificata anche perché in virtù della dislocazione logistica delle manifestazioni non si mostrava realistica una pianificazione dell’attacco a tutto tondo. Troppe le manifestazioni e gli appuntamenti in giro per la città per poter pensare di trattarli come poi è avvenuto il 21. Diciamo che il 20 può essere considerato un prologo di quanto accaduto il giorno dopo ma un prologo che sicuramente ha avuto esiti contraddittori. Va rilevato infatti che, contrariamente a quanto per lo più raccontato dalla pubblicistica inerente ai fatti genovesi tutta incentrata sulla vittimizzazione del movimento, nel corso del 20 in non pochi casi non secondari spezzoni del movimento sono stati in grado di ribaltare i pronostici ovvero respingere gli attacchi delle forze dell’ordine, contrattaccare e colpire gli obiettivi che si erano prefissati. Il bilancio del 20, pertanto, non è così lineare e mostra come, a conti fatti, lo spazio metropolitano più che delle forze dell’ordine sia amico degli insorti. Ciò che sembra importante rilevare è come la giornata del 20, parafrasando Engels, abbia posto all’ordine del giorno una “nuova scienza delle barricate”1 in grado di scompaginare gli assetti militari delle forze dell’ordine. Volendo studiare, sul piano del “pensiero strategico”, quanto andato in scena il 20 luglio si potrebbe asserire che la tattica messa in campo da una parte neppure minimale dei manifestanti è stata una sorta di rivisitazione in chiave metropolitana della teoria militare di Mao e Sun Tsu2.
Quattro aspetti, in particolare, sembrano legarsi a ciò. Il primo, che assume una valenza strategica, consiste nel rovesciare completamente il frame in cui il nemico vorrebbe ascriverti ovvero prendere l’iniziativa anziché subirla quindi attaccare invece che difendersi. In questo modo, da un lato si assesta un colpo mortale di tipo cognitivo ancora prima che militare al nemico, il quale scende in campo per aggredire e non prende minimamente in considerazione l’ipotesi di essere esso stesso quello attaccato, dall’altro lo si obbliga a rincorrere in continuazione l’azione dell’avversario obbligandolo a improvvisare e impedendogli di ragionare strategicamente. Non è un caso che coloro i quali si sono mossi in una logica difensiva, anche provando a combattere, il 20 luglio siano stati massacrati. In seconda battuta l’utilizzo del territorio come risorsa. Palesemente gran parte dei gruppi che si sono battuti si sono “armati” utilizzando le cospicue risorse che la metropoli è per forza di cose costretta a fornire. Ciò ha finito con il ridicolizzare, più che le forze dell’ordine in quanto tali, l’organizzazione ipertecnologica della quale queste si fanno vanto poiché una strumentazione minima ha messo in crisi autentici Robocop e tutti i gadget a questi annessi. Il terzo elemento è stato dato dall’apparire dove le forze di polizia non se lo aspettavano, quindi agire velocemente evitando o limitando al massimo lo scontro diretto. Questa è una tattica classica del maoismo che si porta appresso un duplice effetto: colpire in piena sicurezza l’obiettivo ma, soprattutto, demoralizzare e frustare l’umore del nemico che si ritrova, di fatto, continuamente sotto scacco. Anche il quarto aspetto deve molto al maoismo. Chiunque presente nella giornata del 20 ha potuto facilmente constatare come i gruppi offensivi agissero più come plotoni che come armata ovvero marciavano divisi per colpire uniti. Il 20 il grosso dei feriti e dei prigionieri c’è stato proprio tra coloro che marciavano nei panni dell’armata la quale, in caso di attacco, avrebbe costituito la massa d’urto contro la quale le forze nemiche si sarebbero infrante. Gli esiti arcinoti degli eventi hanno dimostrato quanto irrealistica si mostrasse detta scelta strategica. A fronte dello strapotere tecnologico delle forze dell’ordine ogni anche coraggioso tentativo di difesa si è velocemente trasformato in una rotta senza capo né coda. Tutto ciò ha fatto sì che, nonostante la brutalità messa in campo e la pratica della tortura già in atto nei confronti dei prigionieri, la giornata del 20 possa essere archiviata come una giornata nella quale, per il comando internazionale del capitale molti conti sembravano non tornare. Significativo il fatto che di ciò praticamente non si parli, mentre centrale diventa il sottolineare il tratto repressivo della giornata e questo non tanto per colpevolizzare le forze dell’ordine bensì per cancellare dalla memoria l’idea stessa che lottare e vincere è possibile. Non per caso coloro i quali si sono battuti con successo sono stati bollati come provocatori, infiltrati, fascisti e via dicendo del resto è almeno da Piazza Statuto3 che questo ritornello, più ossessivo di un tormentone estivo, viene ripetuto.
Passiamo così alla fatidica data del 21 luglio. Questa è la giornata chiave del G8 genovese. Gli eventi sono di una linearità e semplicità sconcertante. Il calendario del Contro Vertice prevedeva un solo e unico appuntamento, un corteo che doveva partire dalla zona Foce4 e quindi attraversare un certo numero di vie cittadine. Nonostante quanto accaduto il giorno, non solo e soltanto in relazione alla morte di Carlo Giuliani, ma per il modo decisamente belligerante mostrato dalle forze dell’ordine, gli organizzatori ufficiali della manifestazione (ovvero il Genoa Social Forum) non adottarono nessun accorgimento di autodifesa anzi si adoperarono non poco per far sì che il corteo fosse del tutto “disarmato”. Se, per quanto in maniera grottesca, organizzarono una qualche forma di Servizio d’Ordine questo aveva il compito di isolare i “cattivi” e i “provocatori” dalla parte sana dei manifestanti. Un comportamento non così incomprensibile visto che la sera prima, di fronte al cadavere ancora caldo di Carlo Giuliani, i vertici del Genoa Social Forum si affrettarono a bollare Carlo come un “punkabbestia tossico” che nulla aveva a che vedere con la gran parte dei manifestanti. Palesemente per la dirigenza del Genoa Social Forum il problema non erano le forze dell’ordine, anche se sarebbe più sensato dire che il loro problema non era il comando internazionale del capitale poiché, in fondo, le forze dell’ordine non erano altro che il braccio militare di un cervello politico, bensì tutta quella componente dei manifestanti che il giorno prima aveva dimostrato di saper mettere i bastoni tra le ruote ai disegni del potere politico.
Il Genoa Social Forum si poneva dunque l’obiettivo di pacificare il corteo e, all’occorrenza, reprimere ogni pratica di attacco. Questo lo scenario nel quale precipitano circa 350.000 persone (questa la stima approssimativa dei partecipanti al corteo del 21) che intorno alle 15 iniziano a muoversi da Corso Italia verso Piazza Rossetti. Nelle prime 10/15 fila è concentrato il gotha del Genoa Social Forum distanziato di una ventina di metri dal resto dei manifestanti, metri che, col senno di poi, mostreranno di avere più che una ragione. Dal canto loro le forze dell’ordine, oltre a quelle tenute in riserva nelle immediate vicinanze del corteo, sono massicciamente dislocate di fronte al corteo formando un angolo retto tra Corso Italia e Piazza Rossetti dove, cioè, secondo il percorso concordato doveva svoltare e dirigersi il corteo. Altre forze visibili non sembrano essercene a parte alcuni elicotteri che svolazzano, però abbastanza alti, sul corteo. Repentinamente la testa del corteo, pressoché in solitudine, parte e, pochi metri dopo, svolta verso Piazza Rossetti mettendosi, apparentemente, in salvo. A quel punto, senza alcun motivo, tutte le forze dell’ordine schierate iniziano a sparare lacrimogeni, gli elicotteri si abbassano e anche da questi iniziano a essere sparati i candelotti mentre, come per magia, dai tetti delle case circostanti si materializzano non pochi tiratori che iniziano a fare il tiro al bersaglio contro il corteo. Questo, del tutto impreparato, sbanda paurosamente e fugge assumendo, per forza di cose, una forma goffa e scomposta. A quel punto il lancio di lacrimogeni si affievolisce e partono le cariche. Una quota di manifestanti cerca rifugio buttandosi sulle spiagge sottostanti e, a conti fatti, risulterà una delle peggiori soluzioni. Nessuno aveva fatto sicuramente caso ai gommoni che stazionavano sul mare o, se li avevano notati, pensavano che fossero i soliti gommoni che in estate pullulano nel mare cittadino. Su questi, però, non c’erano bagnanti ma forze dell’ordine le quali, appena iniziate le cariche, avevano fatto prua verso le spiagge pronte allo sbarco. Così, chi pensò di salvarsi sulle spiagge, si trovò chiuso a monte dalle cariche e a mare dalle truppe appena sbarcate. Questi saranno i primi a essere massacrati, catturati e torturati.
Il resto della giornata è un continuum di quanto appena raccontato. La Diaz5 sarà la classica ciliegina sulla torta che ben si coniuga con il prelievo e arresto dei feriti dentro gli ospedali, i lacrimogeni sparati contro le ambulanze e il sistematico pestaggio e arresto di chiunque non fosse in grado di correre abbastanza veloce. Anche se qualche forma di resistenza è stata tentata questa non ha avuto, e neppure poteva avere, alcuna incidenza sull’andamento della battaglia. Questa non poteva che essere persa in partenza poiché il modo stesso in cui la manifestazione era stata pensata e organizzata consegnava i manifestanti al nemico. Si potrebbe andare avanti ore a raccontare episodi della giornata il che, però, non modificherebbe di una virgola quanto sinteticamente descritto. La giornata del 21 vede il trionfo del Vertice nei confronti del Contro Vertice e questo è quanto.
Giunti a questo punto appare sensato provare a trarre qualche indicazione da quanto andato in scena. A molti, o almeno a quelli che per età anagrafica provenivano dagli anni Settanta, le prime cose che vennero in mente furono le immagini del golpe cileno. Una comparazione sulla quale si può ampiamente concordare poiché, nei nostri mondi, scenari simili non si erano mai visti e tanto meno dati neppure nel corso degli anni Settanta dove, per quanto di bassa intensità, l’Italia è stata attraversata dalla guerra civile. Il confronto con il Cile è quanto mai azzeccato ma non tanto per le forme di repressione riscontrate ma per ciò che queste ratificano nel rapporto tra classi dominanti e masse subalterne. A conti fatti, quanto osservato a Genova, in assoluto non è per nulla una novità, ma lo è se consideriamo il perimetro dell’Europa Occidentale e, più in generale, dell’Occidente nel suo insieme. Ciò che è andato in scena a Genova può essere considerato esattamente come la cifra della globalizzazione un’asserzione che, in prima battuta, può apparire come una boutade ma che, a uno sguardo minimamente attento, si mostra densa di non poco realismo. Ciò che è andato in scena nel corso delle giornate genovesi non testimonia niente altro che due cose: la fine della legittimità 6 storico–politica delle masse subalterne e, come diretta conseguenza di ciò, il venir meno di ogni forma di mediazione tra comando internazionale del capitale e quote sempre più alte di subalterni anche nei nostri mondi. In altre parole quel “patto socialdemocratico”7 che aveva caratterizzato il secondo dopo guerra dell’Europa Occidentale e, pur se con sfumature non secondarie, il mondo Occidentale è venuto meno. Nel momento in cui il mondo si è fatto uno a farsi egemone come modello di governo delle masse subalterne, attraverso un processo a cascata, non sono stati i diritti e le garanzie presenti in Occidente bensì le forme di dominio proprie di ciò che comunemente veniva definito Terzo mondo. A farsi egemone è stato un modello tipico del mondo coloniale dove, notoriamente, alle masse è riconosciuta voce ma non linguaggio8.
Con ciò viene meno il riconoscimento della dimensione politica dei subalterni la cui dimensione assume sempre più quella della “massa senza volto” e quindi deprivata di ogni spazio di mediazione politica e sociale9.
La topica colossale coltivata dalle organizzazioni del Genoa Social Forum è stata proprio quella di non aver letto l’oggettività di questo passaggio e aver tentato, su scala globale, la riattivazione di un “patto socialdemocratico” che il potere politico, però, non ha più nelle corde. Le giornate del G8 genovese hanno posto fine a un malinteso che il Genoa Social Forum ha coltivato, in maniera obiettivamente autistica, sino all’ultimo. Genova non ha significato la fine di tutto, la pietra tombale sul Movimento o il venir meno di ogni forma di resistenza e contrapposizione bensì l’inizio di una nuova fase del conflitto. Il G8 genovese ha sicuramente chiuso il capitolo del Novecento il che non vuol dire che abbia azzerato le contraddizioni del capitalismo e dell’imperialismo, semmai le ha amplificate. In questi venti anni abbiamo assistito a tutto tranne che a una qualche forma di pacificazione sia perché le tensioni interimperialiste hanno fatto precipitare il mondo in una guerra permanente dagli esiti incerti, sia perché movimenti di massa non secondari hanno e stanno scuotendo alla base gran parte delle certezze che l’era globale pensava di portarsi appresso. In tale ottica, allora, le ceneri del G8 sparse ai quattro venti non hanno nulla di funereo ma, con molto più realismo, appaiono come semi dell’Angelus Novus.
(Fine)
Cfr. F. Engels, La questione militare e la classe operaia, Edizioni del Maquis, Milano 1977. ↩
Mao Tse Tung, Problemi della guerra e della strategia, Casa editrice in lingue estere, Pechino 1968; Sun Tsu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano 2018. ↩
D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Torino, Luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979; C. Bolognini, I giorni della rivolta. Quelli di piazza Statuto, Agenzia X, Milano 2018. ↩
Zona immediatamente adiacente a Corso Italia situata in prossimità della zona Fiera e che può considerarsi come il luogo di balneazione del centro città. ↩
Su questi eventi si possono, tra i molti, vedere: S. Mammano, Assalto alla Diaz. Stampa Alternativa, Roma 2009; A. Mantovani, Diaz. Processo alla polizia, Edizioni Fandango, Roma 2011; L. Guadagnucci, Noi della Diaz, Editrice Berti, Milano 2003. ↩
Abbiamo provato a discutere e argomentate l’insieme di queste tematiche nei saggi raccolti in G. Bausano, E. Quadrelli, Classe, partito, guerra, Gwynplaine Edizioni, Camerano (AN) 2014. ↩
Cfr. Thomas H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, a cura di S. Mezzadra, Editore Laterza, Roma – Bari 2002. ↩
Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi 1995. ↩
Ho provato a descrivere e argomentare questa condizione all’interno delle metropoli europei attraverso alcuni lavori di inchiesta in seguito alle “rivolte della banlieue” si veda, in particolare, Militanti politici di base. Banlieuesards e politica, in M. Callari Galli, (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi, Rimini 2007. ↩