di Sandro Moiso
Erik Kriek, L’esiliato, Eris edizioni, Torino 2022, pp. 192, euro 27,00
Una serie televisiva come Vikings e il film di Robert Eggers The Northman hanno certamente contribuito, con il loro successo, a diffondere tra il pubblico una maggior conoscenza delle saghe islandesi e norrene. Tali saghe (in norreno e islandese: Íslendingasögur), sono in prosa e narrano episodi avvenuti all’epoca delle colonizzazione dell’Islanda (circa 870-1030 d.C.). Trascritte da autori ignoti soltanto tra il XII e il XV secolo, sono state tramandate per via orale per centinaia d’anni e, ancora oggi, molte famiglie islandesi possono far risalire le loro origini fino al IX secolo grazie ai lunghi elenchi di nomi e patronimici contenuti nelle stesse.
Mettendo da parte le questioni genealogiche e anagrafiche, occorre, però, sottolineare come le stesse rappresentino un grandissimo patrimonio storico-artistico e costituiscano un corpus letterario, ampiamente scritto in lingua volgare, molto consistente che, messo a confronto con la produzione continentale, è sorprendentemente vasto in proporzione alle dimensioni dell’isola. Soltanto dopo il XV secolo, si assiste ad una graduale decadenza della produzione letteraria islandese, dovuta principalmente alla crescente influenza della Chiesa, attraverso cui si diffonderà la letteratura di argomento religioso destinata a rompere con la tradizione precedente.
Tali saghe finivano col mescolare la tradizione norreno-islandese con quella del ciclo degli eroi e degli dei germanici, nota anche come saga dei Nibelunghi, il cui nucleo mitologico originario si era formato intorno agli eventi del V-VI secolo, in particolare alla guerra tra i Burgundi e gli Unni. Le prime forme di narrazione scritta di tali vicende risalgono anch’esse al XIII secolo. Basti prendere come esempio la saga dell’eroe Sigurr e della sua stirpe, in cui figura Ragnarr Lobrók, reso celebre dalla serie tv Vikings. Narrata già nel X secolo, la Saga di Ragnarr, redatta nel XIII secolo e le cui avventure leggendarie avvengono nella Svezia del IX secolo, vede Aslaug – terza moglie di Ragnarr – nascere dall’uccisore dei draghi Sigurr e dall’eroina Brynhildr, o Brunilde.
Ma se le saghe e più ancora la loro trasposizione in età moderna, sia letteraria-fantastica, musicale (basti qui ricordare L’anello dei Nibelunghi di Wagner) o cinematografico-televisiva, hanno esaltato l’eroismo dei protagonisti e, in taluni casi, la ricerca di nuovi mondi e nuove conoscenze, il substrato reale delle stesse era legato ad una tradizione di violenza, conquiste, saccheggi e, sì, stupri che si condensa tutto proprio nel nome dato ai protagonisti di tali “avventure”, i Vichinghi.
“Vichinghi” costituisce infatti un termine generico che tra gli antichi nordici serviva a designare, più che una popolazione specifica, i marinai, i pirati e i predoni scandinavi del periodo compreso tra il 745 e il 1066 d.C., che oggi gli storici sono soliti chiamare Era Vichinga. L’espressione traducibile in italiano con “andiamo a fare i vichinghi” significava reclutare un gruppo di uomini per una spedizione di saccheggio i cui partecipanti erano chiamati vikingar. Termine che a sua volta deriva dall’antica parola nordica vik che significava “accesso” o “fiordo”, che è ancora possibile ritrovare come radice in alcuni nomi di luoghi come Narvik o Reykjavik.
La saga a fumetti proposto dalle edizioni Eris, però, lascia da parte l’eroismo e l’avventura, per concentrarsi sulle radici famigliari o tribali e claniche di una violenza che veniva esercitata non solo all’esterno ma anche all’interno di quelle società e, in particolare, in quella islandese che viene attentamente analizzata nelle vicende narrate nella storia ideata e designata da Erik Kriek. Narrazione che viene rinforzata da un ampio e utile glossario che aiuta il lettore a penetrare in un mondo scomparso ormai da un millennio.
Nato ad Amsterdam nel 1966, l’autore è conosciuto in Italia grazie ad altre due sue opere già pubblicate da Eris nel 2014 (H. P. Lovecraft – Da Altrove e altri racconti) e nel 2016 (In the Pines), già recensite su Carmilla (qui e qui), ma in questo caso ha raggiunto una maturità grafica e narrativa scarsamente riscontrabile in altri casi del mondo dei comics.
E’ la storia di un ritorno da un esilio durato sette anni quella raccontata nelle 190 pagine della graphic novel. Un esilio meritato, vissuto violentemente e destinato, come in tutte le società claniche, a concludersi soltanto quando le armi avranno ancora una volta reclamato il loro credito di sangue. Una storia in cui l’amore è un caso e deve comunque adeguarsi alle leggi sociali, motivo per cui la violenza sul corpo della donna può servire a soddisfare ciò che non si è ottenuto “legalmente”.
Una storia drammatica, poco natalizia, estremamente avvincente, ma soprattutto senza eroi. O, almeno, priva di caratteri individuali degni di questo nome. Soprattutto se maschi. Da leggere, ovunque voi siate.