di Francisco Soriano
La retorica neoconservatrice all’amatriciana del nuovo esecutivo insediatosi a colpi di annunci roboanti, si è presto dissolta in una legge di bilancio piuttosto scolorita al cospetto delle condizioni pietose delle finanze italiche. L’attenzione si è rivolta, ça va sans dire, alla conservazione e al consolidamento degli antichi privilegi, riservati a coloro i quali detengono da soli la metà del patrimonio finanziario e immobiliare del Paese, corrispondente a circa diecimila miliardi di euro.
Gigantesche dinamiche di diseguaglianza si rafforzano con il consenso di disperati, sottoproletari, proletari, operai e persone con gravi disagi economici ai limiti della più accettabile vivibilità. Sembrerebbe assolutamente inspiegabile questa dinamica se non si fosse già copiosamente manifestata in epoche storiche le cui derive sono state presto taciute e, con minor sforzo, dimenticate. Viene alla mente quel brocardo turco, molto pregnante di significato e sbandierato sui social subito dopo l’elezione di Giorgia Meloni alla carica di Presidente del Consiglio: “E gli alberi votarono ancora per l’ascia. Perchè l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro, perchè aveva il manico di legno”.
La realtà rivolge il suo volto autentico, incontrovertibile, adeguato ai tempi di cui è l’emblema: le politiche liberiste di formazioni politiche, all’apparenza distinte, hanno perpetrato un percorso di omologazione culturale ed economica consistente nell’individuare e condividere valori politici che si basano sulla diseguaglianza e lo sfruttamento del prossimo. La retorica è uno spazio invincibile di mistificazione, quel luogo dove, attraverso le parole, ben orientate e in armonia con le voluttà umane, si costruiscono le condizioni e le fondamenta dei cambiamenti sistemici. Questa volta, però, il cambiamento era semplicemente uno specchietto per le allodole perché, è da un tempo davvero profondo, che questo Paese ha abiurato al ragionamento, certo doloroso, della realtà che si evidenzia con tutte le sue oscenità.
Un vento di deliberato sovranismo, orgoglio e “provvidenziale messa a punto di quattro regole chiarificatrici” per questo Paese che si vuol far credere come invaso, deteriorato dai dissidenti sabotatori, dagli extracomunitari e abbrutito da poveri, brutti, sporchi e cattivi. In un mondo meraviglioso dove manager di imprese, di pubbliche eccellenze, di fondi di investimento (con buste paga che farebbero vergognare anche il più convinto profeta del liberismo), ci vorrebbero spiegare che cosa e come avvengono le crisi finanziarie, i disagi di chi non supera la seconda settimana del mese, delle dinamiche dei conti che non tornano. Il tutto risulta essere una sorta di messinscena di un film dell’assurdo. Gli amministratori delegati delle grandi imprese e i finanzieri dei fondi di investimento, in particolare, hanno una certa familiarità con i numeri laddove le persone non esistono e le equazioni dei loro disonorevoli guadagni lievitano senza soluzione di continuità. Alle loro retoriche e dialettiche infarcite di sana simpatia per le forme autocratiche di governo, seguono le delocalizzazioni, i licenziamenti indiscriminati, le connivenze con un mondo che non riconosce negli altri esseri umani alcun diritto di residenza se non quando è necessario sfruttarli. Che cosa abbia fatto questa destra conservatrice dal punto di vista del progetto economico, con solide radici nel populismo vetero-fascista è visibile e solare, anche quando ipocritamente si criticavano banche e interessi finanziari delle multinazionali che tanto depauperavano il “popolo sovrano”. La frase perfetta, invece, in un’antiretorica, sarebbe stata: meno dividendi e più salario. La condivisione dei profitti seppur auspicabile, almeno per decenza nei confronti di sacche di povertà insopportabili, non è certo nell’agenda del nostro Primo ministro Giorgia Meloni. Un amministratore delegato percepisce trecento volte di più di un salario di un operaio. Ci verrebbe da chiedere se tale forbice discriminante e disumana non risieda in un’altra parola magica, che viene usata per sostenere l’architrave su cui si basa lo sfruttamento legalizzato: il merito.
In questi giorni abbiamo sentito dire che “nella crescita della personalità un fattore fondamentale risiederebbe nell’umiliazione”. Bravura a scuola e merito, dunque, verrebbero acquisiti con un semplice ragionamento ai limiti della crudeltà: cioè dal senso di vergogna e umiliazione che uno studente dovrebbe aver nutrito nella sua vita scolastica per riuscire “a farcela”. Sono le deduzioni che provengono da una retorica banale e pericolosa, articolata dal Ministro della Pubblica istruzione preoccupato di conferire, ai giovani d’oggi, un indirizzo morale, pedagogico e didattico. Alcuni analisti politici, con statistiche abbastanza infallibili sui “numeri”, ci assicurano che le mense per i poveri sono in un costante incremento. Sono in aumento anche il fenomeno del dumpster diving, il rovistare nei cassonetti, il ricorrere a forme di usura, la richiesta di elemosina. Milioni di persone che, nonostante la vergogna e l’umiliazione provata, probabilmente nel loro passato scolastico, non ce l’hanno fatta.
Viene da immaginare che i nostri amministratori ben si ispirino a comportamenti e dialettiche d’oltreoceano, dove il capitalismo si forma, impera e indirizza, smentendo tuttavia proprio quei riferimenti che dovrebbero fornire ricette sanificatrici per l’economia e la felicità dei cittadini. Infatti, basterebbe mettere il naso in un supermercato per rendersi conto che cosa significhi “inflazione”, pur senza conoscere un solo grafico di economia. Senza parlare degli aumenti sulle rate dei mutui delle case e degli affitti e, senza considerare, per non finire suicidi, alle bollette di gas ed elettricità. È il Paese che per decenni ha manifestato un’altra parola d’ordine, quella di “favorire la classe media”, vero motore trainante di un’economia che riconosce soltanto un capitalismo fondato sulle relazioni, le conoscenze, le raccomandazioni e le famiglie dei soliti noti. Altro che capitalismo e liberismo sociale, che già non significherebbe molto: il nostro sembra essere piuttosto un becero coacervo di vampiri in giacca e cravatta.
Nella dialettica che imperversa sui nostri media (questi ultimi fra carta stampata e telegiornali nazionali, fra le ultime posizioni in relazione alla libertà di espressione e informazione), è fondamentale la citazione ossessiva e compulsiva di nuove frontiere da varcare e conquistare: pace fiscale, rientro dei capitali dall’estero, sanatorie. La sensazione che i cittadini avvertono, dopo la visione di un telegiornale, è che si subisca una sorta di aggressione da una forza invisibile, impossibile da stanare soprattutto sulla questione del pagamento delle tasse. Dunque, è necessaria una pace fiscale, si ripete, in linea con la propaganda di regime. Con chi? Basterebbe che in base ai propri guadagni percepiti (e sinceramente dichiarati) tutti pagassero le tasse. Nulla di arcano, misterico o inspiegabile. Forse semplicemente la necessaria ubbidienza al dettato costituzionale. Ancora una volta, inoltre, un’altra equazione si impone incontrovertibile: redistribuzione di ricchezza dal basso verso l’alto, un fenomeno altrettanto inspiegabile come i misteri eleusini. Le sacche di ricchezza incommensurabili sono al sicuro e in crescita. Il lavoro dipendente è di trenta punti percentuale più alto negli altri Paesi europei in confronto all’Italia. Gli insegnanti e pubblici dipendenti sono ormai proletarizzati e stentano a mantenere una vita dignitosa senza avere la forza di invertire la rotta.
Guardando sempre alla pressione fiscale in altri Paesi europei si comprende, ad esempio, che in Stati come la Francia, la Germania, l’Olanda, lo stato sociale contribuisce nel quotidiano dei cittadini a creare maggiore armonia e solidarietà; inoltre è strutturato in relazione ai redditi in modo più conforme a quello che la realtà, in termini di “numeri”, esige. In un Paese come il nostro l’indebitamento cresce a dismisura grazie alle ricette neoliberiste, non per le elucubrazioni superate di quattro marxisti ortodossi con il colbacco sovietico. Il margine di indebitamento è al suo ultimo limite di invalicabilità, anche perché il partente Draghi con il suo fascino vampiresco, non garantirebbe il silenzio dei mostruosi protestanti e burocrati del nord che non vedono l’ora di sbeffeggiare i furbastri meridionali. Ebbene sì, esiste un sud anche per loro. In questa deriva frutto dei conservatori italici non si è ancora considerata un’altra originale variabile che consiste nella corruzione, nella densità mafiosa, nella sottrazione di vaste aree del Paese alla legalità. Fenomeni devianti e distruttivi che in Italia mostrano sedimentazione strutturale nelle società di riferimento, soprattutto, del meno sviluppato Meridione. Non vi è traccia nella visione del nostro Primo ministro di una volontà di lottare strategicamente con queste forme di deterioramento, sociale, umano e politico.
La politica monetaria della BCE intanto, è intenzionata a rialzare il tasso di interesse sui titoli di Stato ponendo, in modo elementare, uno sbarramento all’acquisto degli stessi. Dove sono finite le dichiarazioni sovraniste contro le lobby europee del nostro Primo ministro? La recessione incombe concretizzando ulteriori progressi delle classi più agiate ad accumulare ricchezza, come da copione e senza scomodare Marx o teorie affini. Sempre in relazione alla volontà di estromettere polverose e ormai asimmetriche ideologie socialiste al fine di fronteggiare lo scandalo dei patrimoni senza alcuna regolamentazione seria in termini di tassazione, attestiamo che non ci sono voci che riguardino la riforma del catasto, l’imposta patrimoniale (in Italia “inspiegabilmente”) osteggiata da ogni singolo cittadino anche della più “profonda e povera” periferia italiana, la tassazione della rendita immobiliare.
Dal progetto economico del governo di Giorgia Maloni le scelte appaiono in assoluta continuità con l’apparato draghiano di gestione delle risorse e di protezione delle ricchezze dei soliti noti. La retorica ha assolutamente assolto ai suoi doveri di convincimento e consolidamento delle posizioni già assestate sul piano dei privilegi. Ma non è tutto, anzi. Sul piano economico nulla si è mosso ma, su quello dei valori, incombe un pauroso presagio di maggiore preoccupazione e, soprattutto, di regressione.
Ci vorrebbero molte altre pagine e parole, per raccontare altre retoriche e, ancora, parole, vive, importanti, determinanti. Si è cominciato a parlare “retoricamente” di questioni che riguardano la sfera privata ed etica dei cittadini: fra devianze e prospettive lombrosiane di efficienza fisica, fino alla limitazione delle libertà dei cittadini al fine di fronteggiare il “pericoloso” fenomeno dei cosiddetti rave party, dove sarebbe bastato far valere alcune normative già esistenti a livello penale e civile. Dalle questioni sulla maternità alle pressioni antiabortive su strutture sanitarie e regioni, questo esecutivo ha evidentemente cominciato a sondare la reattività delle persone per consolidare una visione patriarcale sui diritti umani e delle donne. La lettera del Ministro dell’Istruzione alle scuole, nel senso di considerare il comunismo come un male ineludibile del secolo, con il suo carico di “morti e povertà”, senza neppure nominare quanto perpetrato da fascisti e nazisti, è sembrata una mistificazione della Storia senza precedenti. Sono solo alcune delle retoriche, delle mistificazioni, delle regressioni anche sul linguaggio e, soprattutto, del linguaggio.
La preferenza del nostro Primo Ministro alle declinazioni in forma maschile sembra addirittura incomprensibile visto che, anche per qualche nostro antico e conservatore cultore dell’idioma italico, il femminile esiste “nonostante tutto” per definire cariche istituzionali e di governo qualora venissero occupate da donne. È evidente che, per Giorgia Meloni, il potere è esclusivamente una prerogativa maschile, sconfiggendo ogni dilemma grammaticale. Così sia.