di Sandro Moiso
Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro
Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)
I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, troppo spesso, fine a se stessi (o quasi.) Basta leggere, infatti, le pagine di romanzi quali La talpa, La spia venuta dal freddo, Tutti gli uomini di Smiley o La tamburina per entrare in un mondo di servizi segreti occidentali (MI6, CIA o Mossad) in cui a dominare sono l’astuzia, la spietatezza, il calcolo (spesso personale) e la disillusione,
Il romanzo di Jorge Semprún (1923- 2011), appena pubblicato in Italia da Settecolori, nonostante la sua edizione originale risalga al 1969, ci introduce nello stesso mondo, però visto dal “fronte orientale”, speculare avversario dei protagonisti dei romanzi di le Carré. Qui gli agenti operano per il KGB (siamo ancora in piena guerra fredda, e gli avversari (?) sono quelli della CIA. Il tutto complicato da un elemento che per i difensori dell’ordine liberale non esisteva: il sentirsi, o meno, rappresentanti di una Rivoluzione che avrebbe dovuto rovesciare il mondo, ma che invece non lo ha fatto.
Oltre a ciò, nel romanzo si affaccia in continuazione la storia collettiva e personale della Guerra Civile spagnola. Anch’essa caratterizzata da tradimenti, violenze, soprusi che non hanno lasciato certo immacolata la sua immagine. Anche sul fronte repubblicano.
E vi è molto di autobiografico nel romanzo, visto che l’autore, spagnolo di origine e francese per vocazione letteraria, aveva dovuto abbandonare la Spagna appena tredicenne, al seguito della famiglia di un diplomatico della Repubblica, riparata in Francia agli inizi della guerra nel 1936.
Non solo, l’autore, pur appartenente ad una famiglia borghese di rango, democratica e cattolica, aveva in seguito aderito al Partito comunista spagnolo di Santiago Carrillo ed era diventato agente dei servizi segreti dello stesso e dei paesi dell’Est. Un percorso non dissimile, anche se con motivazioni estremamente diverse, a quello di le Carré che, prima di diventare scrittore, era stato agente dei servizi inglesi del MI6.
Ancor prima, però, il futuro scrittore spagnolo era entrato nella resistenza francese contro i tedeschi ed era finito prigioniero a Buchenwald. Così, come racconta nella bella postfazione al testo Romain Cortés:
Nell’aprile del 1945, tre ufficiali con la divisa britannica, ma in forza all’esercito del generale americano Patton, fissarono con uno sguardo spaventato il ventenne che li osservava all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald, da poco liberato. Capelli rasati a zero, una magrezza estrema, il ragazzo indossava degli stivali di cuoio dell’esercito russo, aveva a tracolla una mitraglietta tedesca sotto cui, a strati, l’uniforme del carcerato si mischiava con ritocchi civili e militari. Jorge Semprún era il nome di quell’apparizione. […] A Buchenwald Semprún era arrivato un anno prima, dopo che la Gestapo lo aveva arrestato in un rastrellamento di provincia, sorpreso nel sonno in uno dei tanti rifugi clandestini della Resistenza. Il risultato di quell’anno, in quello che non era un campo di sterminio, ma i cui forni crematori tramutavano in fumo i corpi di chi vi moriva per fame, stenti, fatica, spandendo nell’aria l’odore dolciastro della carne umana bruciata, era ciò che si stagliava davanti agli occhi come pietrificati dei tre ufficiali. Un fantasma, più che un sopravvissuto, si sorprese a pensare il diretto interessato. «I fantasmi fanno sempre paura. Io non ero veramente sopravvissuto alla morte, non l’avevo evitata. Non le ero sfuggito. Piuttosto, l’avevo percorsa da un capo all’altro. Ne avevo percorso i sentieri, mi ero perduto e ritrovato, immenso territorio dove scorre l’assenza. Un fantasma, appunto». Dietro questa constatazione, Semprún sentiva però premere qualcos’altro, sempre più forte nei diciotto giorni che passarono dalla liberazione di Buchenwald al suo ritorno a Parigi, in un convoglio di rimpatriati organizzato da una associazione religiosa. «Ero convinto di essere immortale. Fuori pericolo, in ogni caso. Mi era successo tutto, niente poteva più accadermi. Nient’altro che la vita, da mordere con denti voraci. È con questa sicurezza che ho attraversato, più tardi, dieci anni di clandestinità in Spagna» 1.
Clandestinità e azione politica durante le quali si rese progressivamente conto di quante menzogne occorresse sostenere oppure contribuire a diffondere, anche nei confronti di amici e compagni “innocenti”, purché la grande macchina partitica ed organizzativa, oltre che propagandistica, di una rivoluzione da tempo spentasi potesse continuare a rappresentarsi come l’erede delle tradizione rivoluzionaria e proletaria.
Sono le stesse domande che sembra porsi il protagonista del romanzo. Un agente trentatreenne che, durante una missione ad Amsterdam, nel 1966, si rende conto di essere stato tradito e venduto agli agenti della CIA.
Qual era l’uomo incaricato di seguirlo? Uno qualunque. Quelli della CIA, aveva pensato, stanno diventando irriconoscibili, ultimamente: assomigliano a degli universitari, a dei ricercatori della Rand Corporation, oppure a dei seduttori con le tempie brizzolate. A chiunque. Alcuni non sembrano nemmeno americani, hanno una faccia umana. È lo stile Kennedy, forse2.
Ma il vero problema si nasconde tra le file del KGB, forse ai livelli più alti. Forse proprio tra quei vecchi agenti e compagni che per il Partito avevano già sopportato tutto. Anche il Gulag, prima di essere riabilitati ed inseriti nuovamente nelle fila e ai vertici dei servizi operativi.
«Che cosa siamo noi, esattamente? Può dirmelo, Georgij Nikolaevič?». […]
A Zurigo, due anni prima, in Froschaugasse, aveva fatto una domanda a Georgij Nikolaevič Užakov, e questi aveva riso, con gli occhi celesti che gli brillavano.
«La storia si ripete come una farsa, vero?» aveva detto Užakov. «Siamo la ripetizione farsesca e beffarda di una storia del passato».
«Quale storia?».
«Ma quella della rivoluzione, ovviamente» diceva Georgij Nikolaevič.
«Una storia mancata» diceva lui.
«Ma via! Se non fosse mancata, non si ripeterebbe come una farsa. Anzi, non si ripeterebbe in alcun modo».
Lui, però, insisteva. «E il nostro ruolo qual è, in questa farsa?».
Užakov lo stava fissando. Non sembrava vederlo. Lo stava fissando, senza vederlo. Stava fissando altrove, nel proprio passato.
«Un ruolo tragico» diceva alla fine. «Tragico e beffardo. Siamo solo la caricatura dei funzionari della rivoluzione. Non ci sono più professionisti della rivoluzione mondiale, ci sono solo agenti infiltrati, funzionari dei servizi speciali»3.
Ecco, il rivoluzionario o preteso tale. si era trasformato, o era stato trasformato, in un funzionario, in un burocrate, un grigio esecutore di ordini. Magari dell’assassinio e del tradimento. Come in ogni dittatura che si rispetti, come per un altro fronte aveva già spiegato già Hannah Arendt nel suo La banalità del male (1963).
Non a caso il protagonista porta lo stesso, pesantissimo nome di un personaggio simbolicamente importante del tortuoso percorso della rivoluzione dall’Ottobre allo stalinismo e al Gulag: Ramón Mercader, l’assassino di Leone Trotzkij in Messico, nel 1940.
Figura tragica e dannata, degna forse di figurare nel romanzo Il demone meschino di Fëdor Sologub, scritto tra il 1892 e il 1902 e apparso a puntate nel 1905. Condannato a vent’anni di carcere in Messico come esecutore dell’assassinio, Mercader scontò tutto il periodo della condanna, senza mai parlare o confessare, in attesa di tornare in Russia a ritirare la medaglia d’oro che Stalin gli aveva assegnato per il compito svolto e gli onori che avrebbero dovuto essergli tributati. Ma Stalin era morto nel 1953 e quando Mercader era ritornato in URSS erano già passati quattro anni da quel congresso, voluto da Nikita Kruscev (segretario generale del Partito dal 1954 al 1964), che ne aveva rivelato i crimini. E per questo motivo, ignorato ed evitato da tutti, aveva dovuto accontentarsi di una dacia e di una pensione assegnategli dallo Stato, come unica ricompensa dei suoi “servizi”. Dopo aver vissuto nelle vicinanze di Mosca per un decennio si sarebbe trasferito a Cuba nel 1970, dove morì nel 1978 a 65 anni. Ecco il destino dell’”eroe” socialista.
Walter Wetter alzava il suo boccale di birra, quasi vuoto.
«Sai?» diceva. «Adesso brindiamo alla salute di Ramón Mercader».
Wettlich lo guardava. «Perché? È in pericolo?».
Walter Wetter sorrideva malignamente. «Ma no, non quello. Alla salute dell’altro, il vero Ramón Mercader».
Herbert Wettlich, visibilmente, non apprezzava lo scherzo. «E perché, se posso?» chiedeva, con una voce che voleva essere di biasimo.
«Ma perché è un militante esemplare, via!».
E Walter Wetter rideva sinceramente, una grande risata cupa, e a Herbert Wettlich quello scherzo piaceva sempre meno, ed ecco il nostro eroe positivo, pensava Walter Wetter, con una risata sempre più violenta, c’è da chiedersi perché i critici e i teorici della letteratura socialista si siano scervellati così a lungo, eccolo l’eroe positivo, Ramón Mercader del Río, ammesso che sia il suo vero nome, il militante che ha sacrificato tutto alla Causa, e quando dico tutto è tutto, non è una metafora, tutto, sé stesso, e la Causa stessa, tutto sacrificato nel silenzio e nel pubblico ludibrio, e non vale la pena di cercare altrove, signore e signori, eccolo l’eroe positivo, non vale la pena tentare di spingere in primo piano sulla scena letteraria – fedele riflesso socialista di una realtà radiosa – spingere avanti tutti quei trattoristi, quelle esemplari mungitrici di mucche da latte, quei tecnici che nella gioia del pensiero corretto inventano il metodo migliore per fondere i pezzi di una nuova macchina, non vale davvero la pena, parlateci piuttosto di Ramón Mercader del Río, il nostro eroe positivo4.
Per i suoi dubbi e le sue critiche Semprún era stato espulso dal partito spagnolo nel 1965 e, pur continuando a dichiararsi comunista per anni, aveva deciso di non più tacere e trasformare in letteratura ciò che apparentemente avrebbe dovuto appartenere soltanto alla Storia con la s maiuscola. Ricevendo, inevitabilmente, l’ostracismo dall’«Humanité», il quotidiano del Partito comunista francese, al momento dell’uscita di La seconda morte di Ramón Mercader in Francia.
Nel 1979, su insistenza di Leonardo Sciascia, altra splendida figura di intellettuale eretico, sarebbe stata pubblicata in Italia, da Sellerio, l’opera autobiografica che ripercorreva il cammino dell’autore tra le rovine e le menzogne del socialismo reale (e di Santiago Carrillo, storico segretario rigidamente allineato all’URSS del Partito comunista spagnolo): Autobiografia di Federico Sánchez, uscita l’anno prima per le Editions du Seuil, in Francia.
E proprio nelle pagine della Postfazione, Romain Cortés ci aiuta a disvelare il “segreto” della mancata pubblicazione fino ad ora del romanzo di cui si è fin qui parlato, anche se di Semprún in Italia erano già state pubblicate, da Einaudi, altre opere.
In Francia, l’unica critica astiosa al libro venne dal quotidiano «L’Humanité», organo del PCF, il Partito comunista francese […] Si tratta di una posizione minoritaria, come del resto è sempre più calante, come appeal e come voti, il peso culturale e politico di quel partito, sorpreso dal «maggio francese» come dall’invasione della Cecoslovacchia, ancora egemone nella classe operaia, ma non più in quella borghese e intellettuale, costretto di lì a non molto a ritrovarsi come competitor quel François Mitterrand che di fatto rifonda il Partito socialista e lo mette alla guida della sinistra…
Ma in Italia? In Italia il ruolo e il peso del Pci sono ben diversi e la situazione sociale, economica e politica molto più turbolenta di quella francese, dove la contestazione dura appena un mese e per un de Gaulle che se ne va c’è un Pompidou che arriva… Dopo aver espulso, proprio in quel 1969, per «frazionismo» il gruppo del Manifesto, nel 1973 Berlinguer proporrà il «compromesso storico», l’anno prima è saltato per aria l’editore Feltrinelli, c’è già stata piazza Fontana, hanno già fatto la loro comparsa le Brigate rosse, fra «strategia della tensione» e «autunno caldo», hanno insomma preso il via gli «anni di piombo». Il decennio dei Settanta è dunque il meno ideale per un libro che al fondo sostiene che tutto il comunismo non è stato altro che un gigantesco, sanguinoso inganno, che il Partito, con la p maiuscola, è la Burocrazia, non la Rivoluzione, che l’abitudine al bis-pensiero e alla neolingua di orwelliana memoria (anche di questo, criticamente, si parla nel romanzo), è una camicia di Nesso destinata bruciare chi la indossa… E che a dirlo sia uno che continua a definirsi comunista non migliora le cose, ma le peggiora5.
Agli estimatori della buona letteratura, lontana dal mainstream modaiolo e poco interessata alle verità preconfezionate, non resta allora che ringraziare l’editore milanese che, seppur ideologicamente distante dalle posizioni espresse da chi scrive e da Carmilla più in generale, sta però conducendo un ottimo lavoro di riscoperta, traduzione e pubblicazione di testi fino ad ora sconosciuti, o quasi, ai lettori italiani.