di Mauro Baldrati
Questo film argentino del 2020 è ambientato in uno sperduto villaggio di pescatori baschi, all’inizio del 1600, il secolo più buio, folle, violento della nostra storia umana occidentale. La parte di mondo dominata dalla Chiesa attraverso l’Inquisizione – e quella spagnola era la più sanguinaria e stragista – sprofondava nella miseria, nella peste e nel terrore, a fronte di un signoraggio sempre più aggressivo e sfarzoso. E’ il secolo della guerra dei trent’anni, la più devastante della storia, che ha quasi portato all’estinzione la popolazione europea.
Nel film l’ossessione demoniaca scatenata dal Dicastero per la dottrina della fede raggiunge i suoi apici, con echi grotteschi e persino ridicoli.
Cinque ragazze e una bambina vengono accusate di stregoneria per una festa notturna in un bosco, con falò, balli e musica. Immediatamente le guardie dell’Inquisizione le arrestano e le gettano in una galera. Poi, iniziano gli interrogatori.
Devono confessare di essere delle streghe, impresa non facile: chi o cosa sono le streghe? Come confessare di essere ciò che non si conosce? Allora, come da prassi, si passa alla tortura.
Subito si scatenano l’ansia e la paura. Per tenersi su di morale intonano dei canti popolari in lingua basca – definita dall’inquisitore spagnolo “la lingua del peccato”, l’idioma blasfemo che le bestie basche usano per coprire i loro crimini – colorando l’oscura, trucida vicenda, con curiose sfumature musical. Finché arriva il turno di Ana, la più consapevole, la più preparata. Ha subito intuito ciò che sta accadendo, ovvero torture sempre più efferate con rogo finale. Negare è inutile, la sentenza è già decisa. Per cui decide di passare al contrattacco. Quando i soldati fanno l’ennesima irruzione nella cella lei confessa: “Sono io la strega.”
Così viene trascinata al cospetto della “corte”: l’inquisitore, un uomo sui cinquanta, ha una faccia da buono, uno che comprende, e sa perdonare. In realtà è un voyueur, travolto dal desiderio sessuale represso, paranoico come dovevano esserlo quei mostri che trascorrevano le giornate squartando, bruciando persone inermi e urlanti, sepolti in lugubri e puzzolenti camere di tortura, straziati dai loro demoni interiori. Gli altri componenti sono lo scrivano, con una faccia truce, ma che si rivela più realista e smaliziato dell’inquisitore, e un giovane monaco con gli occhi sbarrati, che alterna momenti di pietà ad attacchi di fanatismo.
Questa parte di film, gli interrogatori di Ana, rappresenta il primo punto forte dell’opera. Inizia una schermaglia tra lei e l’inquisitore, una sorta di rapporto sessuale senza corpo. Gli fornisce ciò che lui desidera ardentemente, immagini oscene del maligno che l’uomo “beve” con avidità, eccitandosi visibilmente. Narra di apparizioni del diavolo, un uomo “bellissimo”, con una grossa “coda anteriore”, di metamorfosi in maiali, in capre, di voli nella notte. Gli altri componenti della corte e le guardie assistono e ascoltano con facce turbate, specialmente lo scrivano, che sembra cogliere l’aspetto grottesco della “confessione”.
Ana si salva dalla “prova del bacio di Lucifero”, ovvero un sottile ago conficcato nella pupilla, gridando, quando la punta è a pochi millimetri dall’occhio, mentre l’inquisitore emozionato allunga il collo per vedere meglio: “Nel braccio!” E’ lì che l’avrebbe baciata il diavolo. Allora il carnefice pianta l’ago, lentamente, e Ana, per camuffare la smorfia di dolore, intona un canto basco, mandando in estasi l’Inquisitore, perché si tratta di una filastrocca di piacere, scambiata per un’invocazione a Lucifero.
Infine, col corpo ancora intatto, Ana deve firmare la confessione, che la porterà al rogo. La sua scelta di confessare può essere stata uno slancio di generosità per salvare le altre, ma non solo. Poiché nessuno ha mai assistito a un vero sabba delle streghe, perché non riprodurne uno, nel bosco durante una notte di luna piena? L’inquisitore coglie subito l’opportunità. Lui sarebbe il primo a svelare il mistero. Oro puro per la sua carriera di diavolo torturatore. Ma una delle guardie ricorda un dettaglio pericoloso: in passato una rivolta dei pescatori, conseguente a un altro caso di donne arrestate, ha portato all’accoltellamento di alcuni soldati. E i pescatori torneranno sulla terraferma presto, con le correnti della prossima luna piena. Dunque la ragazza sta cercando di prendere tempo. Il pericolo esiste, ma l’inquisitore, dopo avere sentenziato il rogo per tutte, compresa la bambina, non può resistere alla tentazione. Così viene organizzato in fretta un sabba.
E qui arriva la seconda, conclusiva sezione forte dell’opera: una straordinaria performance, in un crescendo di balli sensuali, urla selvagge e belvesche, che mandano letteralmente in delirio l’inquisitore; il quale, avendo pure mangiato il “fungo nero”, probabilmente allucinogeno, si unisce alle diavolesse, tra carezze, danze lubriche, sotto gli sguardi scandalizzati dello scrivano, del monaco e delle guardie. Finché, un attimo prima che il tutto termini in un’orgia, le guardie lo strappano dagli abbracci delle streghe e lo trascinano via di peso. Le ragazze colgono l’attimo e, benché incatenate, fuggono nel bosco, inseguite dai soldati.
Sappiamo che è un’opzione estrema, un tentativo di fuga senza possibilità. Dove potrebbero approdare legate insieme da una grossa catena? Infatti arrivano sul bordo di un’altissima scogliera, circondate dalle guardie e dall’inquisitore, che intanto si è ripreso. Non hanno scampo. E il finale, che per tutta l’opera non è stato per nulla scontato, si può riassumere in tre parole: Thelma e Louise.
Il sabba è un film ben girato, ottimamente interpretato, solidamente posizionato nel rapporto vittima/potere, dove la vittima tiene in scacco gli aguzzini fingendo con l’astuzia di concedere loro ciò che desiderano, in una forma di resistenza che punta alla salvezza. NetflixVoto 9.