PERIFERIE PERICOLOSE
di Valerio Evangelisti
E’ regola di questa testata non trattare di opere dei suoi redattori, a meno che non nascano da fonti esterne (e anche in quel caso, con molta cautela) oppure che non riguardino un tema di portata generale (come per esempio il libro Il caso Battisti, firmato da Evangelisti, Genna e Wu Ming 1 ma curato dall’intera redazione).
La presente eccezione è dovuta per l’appunto alla quesione della portata generale: l’introduzione qui riprodotta tocca le motivazioni stesse dell’esistenza di Carmilla On Line. Del resto il volume (Sotto gli occhi di tutti. Ritorno ad Alphaville, ed. L’Ancora del Mediterraneo, pp. 218, € 12,50), che fa seguito al precedente Alla periferia di Alphaville. Interventi sulla paraletteratura, è per metà composto degli articoli scritti da Evangelisti contro la guerra in Iraq e pubblicati proprio da Carmilla On Line.
Quando, quattro anni fa, uscì presso questo stesso editore la mia raccolta di saggi intitolata Alla periferia di Alphaville, alcuni di coloro che la commentarono incorsero in un equivoco. Cedettero cioè che la mia difesa della letteratura di genere (ma io preferisco chiamarla paraletteratura, per sottolinearne la vita a sé e le caratteristiche peculiari) fosse volta a stabilire un primato della stessa su ogni altra forma letteraria. In realtà, si sfoglierà inutilmente quel libretto alla ricerca di una simile affermazione balorda, in cui non credo e non ho mai creduto. Mi limitavo, invece, a porre in rilievo come la paraletteratura fosse veicolo ideale e quasi naturale di tematiche “forti”, e come ciò finisse per attribuirle una funzione succedanea nei riguardi del ritrarsi da quelle tematiche (storiche, politiche, psicologiche, sociali) di tanta parte della narrativa corrente, non solo italiana.
Nel mio mirino inquadravo dunque il minimalismo dilagante, la debolezza scambiata per poesia, i colori a pastello creduti le tinte ideali per dipingere il mondo, la gratuità stilistica, il chiamarsi fuori dello scrittore dalla storia, la ripetitività di trame incentrate sulla solita, immarcescibile gamma di sentimenti e situazioni (i Turbamenti dell’Adolescente, l’Iniziazione alla Vita, l’Incomprensione tra Padri e Figli, l’Antagonismo tra Uomo e Donna, la Frattura tra Amore e Sesso, la Malinconia della Vecchiaia, la Gioventù Ribelle e Incerta, la Crisi Generazionale, il Tradimento Coniugale e i suoi Esiti Infelici, l’Anticonformismo Punito, la Città Alienante e la Nostalgia di una Vita Genuina, ecc.). Tutti temi frequenti quanto la parola “amore” nelle canzonette. Si dirà: perché sono eterni. Rispondo: sì, ma non è eterna la pazienza di chi legge, e che tende di conseguenza a riversarsi su narrazioni magari grossolane, magari ripetitive anch’esse (la letteratura di genere è ovviamente il regno stesso della serialità), però capaci di sollecitazioni emotive non convenzionali e di fughe in paesaggi umani e sociali inediti. Con esiti che tante volte sono irrilevanti sotto ogni profilo, ma altrettante volte trascinano ai limiti estremi della scrittura, dove lo stile si intorbida e la trama si fa delirio, oppure dove il sogno viene invaso da concretezze storiche descritte con l’allucinata precisione dell’iperrealismo.
Questo terreno non è occupato solo da Jim Thompson o da Jean-Patrick Manchette, da Philip K. Dick o da H.P. Lovecraft; non è presidiato solo dalla paraletteratura. Ne fanno ugualmente parte scrittori non etichettabili come “di genere”, capaci di osare il salto oltre la barriera del minimale. All’estero sono innumerevoli, in Italia sono minoranza ridottissima (e magari, come Antonio Moresco, devono attendere un decennio prima di trovare un editore; oppure, come i Luther Blissett / Wu Ming, stentano a trovare un riconoscimento critico unanime). Trattare temi d’ampia portata, dialogare con la storia, tentare interrogativi cosmici, sporcarsi con la politica e con la società, da noi sembra vietato. Eppure era questa la sostanza della letteratura che poteva pretendersi davvero “alta”: quella di Dostoevskij e di Manzoni, di Faulkner e di Hugo, di Melville e di Céline, di Tolstoij e di Conrad. Prevale piuttosto in Italia una narrativa “media”, esangue, che si concentra sullo stile per narrare storie esilissime, oppure, quando affronta soggetti “forti”, li concentra in qualche pagina (talora brillantissima), salvo ritrarsi subito sul terreno più sicuro del rapporto nonna-nipotina, figlio ingenuo e padre infame, moglie ambiziosa e marito cornuto, giovane indisciplinato e società di merda. Il tutto accuratamente depurato di riferimenti storici o sociologici, salvo pochi accenni sparsi qui e là (comunemente si tratta dell’epoca fascista).
Nessuno riuscirà mai a persuadermi che tutto ciò sia “letteratura alta”.
La malattia italiana della mediocrità e dell’assenza di coraggio contagia del resto ogni campo espressivo. Alcuni mesi fa, in un sito web letterario tra i migliori (www.nazioneindiana.com), un giovane e valido regista lamentava che il cinema italiano pretende esclusivamente film “di genere”, ed emargina tutto ciò che non rientra nella categoria. Ho avuto l’impressione che l’autore della protesta non andasse al cinema da decenni. Lasciati da parte Dario Argento e un paio d’altri, dove sarebbero i film “di genere” italiani che invadono gli schermi? Salvo il genere comico in tutte le variazioni, o il genere rosa, io non noto in giro molti emuli di Sergio Leone, Tonino Valerii, Mario Bava, Sergio Corbucci e via elencando. E’ dalla fine degli anni ’70 che non ce ne sono più. Noto invece l’emergere di quello che definirei il “genere carino”: si tratti di commedie sentimentali o di film pretesi di denuncia, suscitano il sorriso ma non la risata, lo scandalo ma non la collera, l’inquietudine blanda ma non il malessere. Un po’ come il bitter igienista non colorato di rosso: roba amarognola e spumeggiante, ma di cui non ci si ricorda, visto che era il colore che faceva la differenza col ginger.
Tornando alla letteratura, se quella presunta “alta” piange, quella “bassa” non ride. Da noi il genere che ha conosciuto la maggiore fioritura è stato il noir, affidato alla bravura di alcuni autori di enorme talento: Loriano Macchiavelli (il capostipite), Carlo Lucarelli (il più abile e professionale), Marcello Fois (lo stilista), Massimo Carlotto (il più polemico), Eraldo Baldini (il più nero) e tanti altri. Non si può tuttavia dire che il noir italiano abbia svolto una funzione di presidio degli spazi che la restante narrativa aveva disertato (come è accaduto soprattutto in Francia). Perennemente vittima della tentazione di trasformarsi in semplice “giallo”, con un Maigret di turno (dalle connotazioni dialettali e regionali) alle prese con l’ennesimo enigma da risolvere, raramente ha individuato nemici che non fossero gli stessi delle istituzioni: mafia, serial killers, schegge corrotte del potere. Rarissimamente, poi, ha identificato nel potere stesso l’agente del male, salvo occasionali mugugni non più persuasivi di quelli che costellano le infinite Piovre televisive. Quasi mai, infine, ha inquadrato morte e corruzione in un contesto sociale che le rendessero necessarie. Tutto ciò (fatte le debite eccezioni: Macchiavelli, Carlotto, Dazieri, alcuni dei nomi che ho citato e altri che non ho citato) ha fatto del noir italiano un genere che definirei — mi si passi la semplificazione – di “centrosinistra”. Col risultato che è estremamente difficile prendere da esso le mosse per ricostruire un quadro sociale e un tempo storico.
Se mi sono soffermato sul noir è perché, nel magma della paraletteratura, si tratta del genere giunto a maggiore maturità e autoconsapevolezza, in Italia e nel mondo. Critiche molto più violente potrei rivolgere alla fantascienza (che da noi è tornata a essere, dopo una breve stagione di fioritura, una povera cosa) e all’horror (vittima in Italia non tanto di colpe sue, quanto del rifiuto assoluto di riconoscergli una qualche dignità letteraria o contenutistica, con ovvie conseguenze sulle scelte editoriali). E, chiaramente, non più di tanto ci si può attendere dalla narrativa rosa e avventurosa, dal thriller spionistico (con la sorprendente eccezione di Giuseppe Genna, che maschera sotto panni volgari ambizioni filosofiche da capogiro), dal romanzo storico (ma Valerio Massimo Manfredi ha, nella sua fluvialità dumasiana, un’innegabile carica vitale), dal giallo convenzionale. Solo il genere erotico pare porsi interrogativi di ampia portata, tuttavia le sue scosse investono al momento quasi unicamente il campo femminile, sia riguardo alle autrici che al bacino di fruizione, composto al 90% di lettrici.
Sto in ogni caso parlando di forme letterarie vive e vegete, quali che siano i loro limiti. Se non altro, si tratta di libri che vengono comperati per essere letti un istante dopo da cima a fondo, non di materiali decorativi fatti per aggiornare la biblioteca di casa e destinati a essere leggiucchiati per un terzo, magari d’estate sotto l’ombrellone. Ho idea che se indagassimo sui libri di successo presenti nelle case degli italiani, li troveremmo con il segnalibro a pagina 25 e pieni di granelli di sabbia. Altra sabbia ci sarebbe in un giallo o in un romanzo di fantascienza, però il segnalibro sarebbe alla fine. Stupidità delle masse, o c’è dell’altro?
C’è dell’altro, ma pochi sembrano accorgersene. L’ottimo annuario Tirature, a cura di Vittorio Spinazzola, nell’edizione 2003 colloca gran parte della paraletteratura sotto la categoria “intrattenimento piacevole”. Da un lato il gesto è animato da buone intenzioni. Si tratta di riportare sotto gli occhi della critica ciò che un tempo ne era escluso, grazie a un’etichetta che, nel prendere le distanze dalla materia, la recuperi all’interesse quanto meno sociologico. D’altro lato di buone intenzioni, si sa, è lastricato l’inferno. O, quanto meno, è lastricata l’accademia.
Personalmente non posso lamentarmi. Secondo Tirature 2003, nel campo dell’ “intrattenimento piacevole” italiano occupo a quanto sembra una posizione centrale, per non dire il trono. Mi va benissimo: meglio regnare all’inferno che servire in paradiso. Ma prendiamo il mio collega Massimo Carlotto. Ha scritto romanzi che trattano di temi perturbanti, tipo i desaparecidos in Argentina, gli anni di piombo, le mille trame oscure della storia italiana recente. Lo ha fatto nelle forme del noir, d’accordo, ma è sufficiente questo per definire “piacevole” l’intrattenimento che fornisce al lettore? E quando Giancarlo De Cataldo analizza in maniera scabra, quasi sociologica, la Banda della Magliana (nello splendido Romanzo criminale), a chi diavolo sta procurando svago e piacere? E’ forse inferiore, per profondità delle riflessioni che suscita, ad Alain Elkann o ad Andrea De Carlo?
Dubito che Vittorio Spinazzola, che ha una formazione di critico cinematografico, definirebbe “intrattenimento piacevole” il cinema di John Ford, di Alfred Hitchcock o di Tod Browning, malgrado la pesante connotazione “di genere”. Allora, per favore, piantiamola con le etichettature nel campo del narrare, da cui fare discendere i giudizi critici. Altrimenti ci troveremo a dire che Pissarro, Monet e Sisley erano “intrattenitori piacevoli” rispetto a Cézanne, e che i fumetti di Joe Sacco e di Art Spiegelmann sono tipiche letture da spiaggia, in quanto fumetti. Suvvia, siamo seri.
A proposito di spiaggia, mi trovo a scrivere questa introduzione al termine di un’estate caldissima, per non dire rovente. E’ il periodo in cui, a quanto pare, gli scrittori si scatenano. Leggo sui giornali di un plotone intero di artisti della penna che, su un barcone, è approdato a Cervia per presentare i propri libri a una folla di bagnanti. Altri scrittori fanno da testimonial a qualche sagra paesana, presiedono a gare sportive, siedono nella giuria del concorso Miss Tettedasballo, si ritirano nelle cantine di un castello a scrivere un raccontino in una notte (poi pubblicato a cura della Pro Loco, ma recuperabile in una futura antologia).
Ora, io capisco che chi opera in un campo quasi privo di marketing come quello letterario abbia fame di pubblicità, e conti il numero di copie vendute a ogni apparizione pubblica. Però ritengo che il metro di giudizio, per decidere se partecipare o meno a eventi spettacolari, sia il tasso di idee che si conta di comunicare. Ricordo Loriano Macchiavelli, in una puntata del Maurizio Costanzo Show, reclamare quasi a forza che gli si desse la parola. Altrimenti il conduttore (e forse il pubblico) si sarebbero accontentati della sua presenza su una poltrona, accanto a ufologi, attricette, cantanti da balera, profeti, suonatori di ascelle, petomani, pornostar, ex ministri socialisti e altri scoppiati.
Sulla spettacolarità, e su elementi che nulla hanno a che vedere con lo scrivere, sembra invece basarsi (in Italia ma non solo) lo scenario della letteratura “d’autore”. Il suo cerimoniale, oltre che dalle apparizioni televisive, è scandito da qualche festival importante e da una mezza dozzina di premi “che contano”. E’ forse in queste ricorrenze, tristi quanto il ballo dei non-morti nel Vampyr di Dreyer, che la miseria di un ambito letterario drogato viene a galla in tutto il suo squallore.
L’anno 2003 ce ne ha offerto una sorprendente visione dall’interno con un articolo, di inconcepibile e in fondo encomiabile sincerità, apparso su La Repubblica del 5 luglio, e intitolato Come ho perso lo Strega. Nelle intenzioni dell’autore doveva probabilmente trattarsi di una denuncia. L’esito è invece una sorta di suicidio in pubblico, non si sa se più esilarante o più penoso.
Chi scrive il pezzo (ne tacerò il nome per rispetto nei confronti dei suoi familiari) ha subito l’amara sorte di vedere il proprio romanzo, senza dubbio un capolavoro (confesso che non l’ho letto), piazzarsi secondo dopo Vita di Melania Mazzucco. Ci fa partecipare al suo dramma. Prima la scoperta che esiste una favorita, e quella, parallela, di avere troppo pochi amici nella giuria. Poi lo sgarbo involontario verso la lady di ferro che domina premio e giurati. Un ritardo, un tentativo maldestro di baciamano, e la signora che gelida dice: “Non ti appoggio più”. Dramma esistenziale del nostro: “Sono bastate queste paroline per fare di me uno scrittore finito e un uomo in profonda crisi depressiva”. Assicuro il lettore che la citazione è testuale. Il tizio è scrittore e uomo finito perché forse non vincerà lo Strega (anche se arriverà secondo).
Segue una corsa per rimediare alla tragedia incombente. L’articolista prima ha la tentazione, presto respinta, di “denunciare la falsità dei premi e le magagne che ci stanno dietro”; poi chiama al telefono tutti i giurati che conosce, lasciando, quando non li trova, messaggi accorati nelle segreterie. Purtroppo, la maggior parte di loro ha amici migliori dei suoi. Non resta, al nostro, che aggirarsi tristemente nel galà conclusivo: “Mi sento come una mucca alla fiera della mucca da latte: una solitudine bovina” (per quanto paia incredibile, anche questa citazione è testuale). Prigioniero della sua tragedia, l’autore vede da lontano Melania Mazzucco sorseggiare tranquilla cocktails in ottima compagnia. Ha un soprassalto di speranza quando a tavola, per contrappasso, la tristezza che lo rode lo rende spiritoso. La lady di ferro torna a mostrarsi accondiscendente nei suoi confronti.
Purtroppo, il destino del nostro è ormai segnato. Giunge inesorabilmente secondo. Al suo fianco, il pargolo che si è portato dietro accoglie con pernacchiette ogni voto a favore della Mazzucco. Magra rivincita, per un uomo e uno scrittore finito.
Tanta è la disperazione che, nel consegnare a un articolo le sue memorie d’oltretomba, nemmeno si accorge di avere descritto un episodio di malcostume che lo vede non vittima, ma protagonista.
Se Dio vuole, il tipico scrittore di genere vive le sue piccole miserie, ma è ben lungi da rituali tanto stomachevoli. Non perché sia incontaminato, ma perché la sua contaminazione è programmatica. Nel suo lavoro il rapporto col pubblico (la “commercializzazione”, se vogliamo chiamarla così) è necessariamente molto stretto. Non scrive solo per se stesso (nessuno lo fa in realtà, ma fingiamo che le eccezioni ci siano), bensì per comunicare ad altri i propri viaggi immaginari, le proprie fantasie, i propri sogni. Se è un autentico pennivendolo, tutto ciò diventa routine e produce formule più o meno riuscite. Se non lo è, o lo è poco, evita comunque le pose da profeta, gli estetismi fini a se stessi, le Grandi Verità rivelate. Non evita invece il presente, si tratti di cronaca o di storia. Per forza: assieme a lui, davanti al computer (sì, normalmente lo scrittore di genere usa il computer, e cerca di procurarsi il software più aggiornato), siede il lettore, suo complice, alleato, interlocutore e avvocato del diavolo. Per sedurlo, non gli conviene prescindere dalla realtà che vive il suo compagno di sgabello. Deve conoscerla, e magari suggerire al socio qualche soluzione, però a bassa voce, sussurrata all’orecchio.
Proprio il tono smorzato induce tanti critici a pensare che lo scrittore di genere sia di norma un qualunquista. Come se fossero stati qualunquisti il gauchiste Manchette o il radical Dick; e di converso fossero “impegnati” in qualcosa i vincitori dei premi alla moda, dimenticati due anni dopo il loro trionfo, o gli innumerevoli esteti che dietro un intrico di frasi eleganti nascondono il vuoto spinto.
Il guaio è che l’Italia è un paese che sembra avere fame di mediocrità, di tinte tenui, di variazioni del grigio. Quanto più si evitano i colori vividi (anche se di recente è stato riabilitato il nero orbace), tanto più si è vicini all’arte. E’ un male antico, come cerco di dire in uno degli articoli della presente antologia. Tuttavia si è fatto patologico da un ventennio in qua. Credo che abbia pesato lo shock di Brigate Rosse e gruppi affini: per impedire che risorgessero gli anni Settanta occorreva eliminare alle radici l’idea stessa di contrapposizione e di conflitto, smussare le asperità, bandire le fratture, ottundere gli alterchi. Solo una pappa morbida e compatta lo avrebbe consentito. E’ la ricetta praticata sia in politica (a parte la destra, cui è stato lasciato il monopolio dell’aggressività) che in campo culturale.
Ed ecco scritti alla melassa, richiami al buon senso comune, prese di posizione caute, sentimenti in penombra. Ecco una letteratura fondata su quella weltanschauung mediocre, in cui il protagonista è l’artista in crisi, la discotecara che passa da un maschio all’altro (ma senza estremizzazioni pornografiche, Dio ci guardi), il gruppo di punk carini e buonissimi, il commissario burbero e umano (come si vede, non risparmio nemmeno la letteratura di genere), il viaggiatore del passato, il contestatore incerto e poi mezzo pentito, le infinite variazioni di Madame Bovary, i drammi della provincia, la riscoperta delle radici. Tutto ciò cela, chissà come, dosi variabili di impegno. Mentre chi agita temi socialmente più perturbanti — guerra, malavita, condizionamento e manipolazione delle coscienze, strapotere economico, violenza poliziesca, psicosi sociale — entra automaticamente a far parte della categoria dell’ “intrattenimento piacevole”.
E allora intratteniamoci piacevolmente. Tanto per divertire blandamente il pubblico, e strappargli quattro risate, ho incluso nella mia antologia un numero esorbitante di interventi sull’attualità. Nella fattispecie, la guerra contro l’Iraq. E’ abbastanza scandaloso, a mio giudizio, che in presenza di un evento della portata di una guerra, così pochi scrittori abbiano preso una posizione netta (quale che essa fosse). Dove starebbe il loro primato morale e intellettuale, ammesso e non concesso che sia mai esistito? Su cosa si esercita? Io ho vissuto l’evento (e lo sto ancora vivendo, visto che non si è concluso) con i nervi a fior di pelle, e con la gola strozzata dalla voglia di urlare il mio dissenso. Pare che ciò non sia stato sentimento comune, nemmeno in ambito paraletterario. Mi consola il fatto che un sentire simile al mio sia stato condiviso da alcuni (pochi) colleghi che operano in campi contigui ma diversi (Stefano Benni, Wu Ming, ecc.). Ai miei occhi, salvano almeno in parte l’onore della categoria,
Precedono e seguono quelli sulla guerra articoli più o meno lunghi, in cui la paraletteratura è protagonista, nonché difese sporadiche di alcuni campi del comunicare o del raccontare fin qui sottoposti a ostracismo. In realtà, si noterà facilmente che il termine “difesa”, in riferimento ai miei scritti, è puro eufemismo. Non ve n’è uno che non nasconda in sé lo slogan brutale di un vecchio e mediocre filmetto, intitolato Classe 1984 e incentrato su un gruppo di feroci teppisti: “Noi siamo il futuro, e nessuno ci fermerà”.
Suppongo che ciò, riferito alla paraletteratura, possa far sorridere e suscitare raccapriccio. Poco importa. Salgari, alleato per l’occasione a Balzac e a Dickens, sorride a sua volta, assiso su un cumulo di libri dimenticati a meno di un decennio dall’uscita (chi diavolo ha vinto il Premio Strega nel 1995? E nel 1996?). Se la letteratura presunta “alta” imparerà la lezione (come l’hanno imparata altrove i De Lillo e gli Houellebecq), potrà condividere con la paraletteratura un destino di eternità. Altrimenti quest’ultima, come il Padrino, le rivolgerà “una proposta che non si può rifiutare”: togliersi di mezzo.
Eh, sì. La periferia di Alphaville è sempre più violenta. Che tempi, contessa!