di Emilio Quadrelli
Infine si arriva all’Ucraina. USA ed Europa, come è ampiamente documentato, hanno foraggiato il fascismo ucraino, politicamente, economicamente e militarmente, al fine di rovesciare il Governo filo russo e portare l’Ucraina all’interno dell’orbita Occidentale. Da qui la “secessione” della Crimea, l’occupazione da parte dell’esercito russo delle basi militari e navali ucraine presenti in Crimea ma non solo. Se la Crimea è stata l’epicentro dell’intervento russo, altre zone dell’Ucraina, giorno dopo giorno, sono finite tra le mani di milizie popolari armate, ampiamente foraggiate da Mosca, che hanno dato vita e forma a nuovi ordinamenti statuali. Ciò le rende, a tutti gli effetti, ben distanti dall’essere ascritti all’ambito dell’impolitico ma, pur a denti stretti, viene riconosciuto loro lo status di hostis. Nei loro confronti non esiste altra relazione se non quella propria della politica.
In poche parole, anche in questo caso, al di là dei balbettii di maniera, i potentati imperialisti Occidentali non sembrano in grado di reggere il colpo. Ma perché? Cosa comporterebbe, nel contesto, l’intervento militare? “Semplicemente” il riaffiorare di un conflitto bellico dove, tra i contendenti, la relazione non può che porsi sul piano della più completa simmetria. Un intervento militare contro la Russia o la Cina, o contro entrambe, non potrebbe essere ricondotto a quella sorta di videogame a cui, andando al sodo, si sono risolti i vari interventi bellici imperialisti compresi tra la Prima Guerra del Golfo e la disarticolazione della Libia. La guerra in Ucraina non potrebbe che assumere forme e tratti di un conflitto “classico” dove, per forza di cose, a essere coinvolti non sono semplicemente gli specialisti bensì le popolazioni. Esattamente dentro la “crisi ucraina” riaffiora prepotentemente il volto interstatuale della guerra. Un volto che, per molti versi, sembrava definitivamente essersi eclissato. Non si tratta di rimettere al centro il carattere simmetrico della guerra bensì di tenere a mente come, nel contesto attuale, simmetria e asimmetria rimandino ai contorni che la forma guerra ha assunto nella fase imperialista globale. Le due forme non si escludono e non è escluso che finiscano con il compenetrarsi. In Ucraina ciò si è già prefigurato.
In questo senso appaiono per lo meno dubbie tutta quella serie di argomentazioni, provenienti per lo più dai vertici militari Occidentali, che considerano del tutto superato e inattuale l’ipotesi della guerra interstatuale e, in conseguenza di ciò, la possibilità del ripetersi di un conflitto avente come protagonisti raggruppamenti politicamente organizzati. A nostro avviso, in tale argomentazione, vi è un errore di fondo poiché si finisce con il ribaltare alla radice la relazione mezzi – fini finendo con lo spostare l’attenzione sulla tecnica e ponendo la dimensione del “politico” fuori dalla scena. In tale ottica, il militare e tutto ciò che lo comprende, avrebbe esautorato il ruolo egemone del “politico” diventando forza autonoma e indipendente e non più “semplice” appendice del “politico”. Paradossalmente, le trasformazioni tecniche, avrebbero finito con il ribaltare la relazione classica tra politica e militare. Non sarebbe più il militare a essere compreso nella politica bensì il contrario. Che cosa avrebbe fatto saltare il paradigma della guerra tra blocchi statuali? La risposta è sin troppo semplice: la presenza dell’arma atomica prima e nucleare poi renderebbe obiettivamente obsoleto il combattimento di tipo tradizionale ma non solo. La presenza di questo armamentario renderebbe, di per sé, impensabile una reiterazione del conflitto nella sua forma “classica”.
Certo, se nella politica prendesse il sopravvento un tratto decisamente irrazionale, il potenziale distruttivo a disposizione delle più diversificate forze militari è tale che, a noi, non resterebbe altro da fare che scrivere un Urania con al centro le vicende dei pochi umani, per di più sotto le sembianze di mutanti, sopravvissuti al post bomba. Scenario possibile, come ipotesi di scuola, ma altamente improbabile e, questo il punto, neppure troppo nuovo. Nel corso della Seconda guerra mondiale le armi di distruzione di massa “non convenzionali” erano equamente suddivise tra tutti i contendenti. A nessuno, neppure ai nazisti, venne minimamente in mente di farvi ricorso. Certamente non per bontà d’animo ma per il semplice motivo che, la reazione, sarebbe stata di pari portata. Hitler avrebbe potuto intossicare Londra ottenendo il solo risultato di vedersi Berlino asfissiata tanto quanto.
Ciò che è valso per i gas e i batteri può valere, nel presente, per i dispositivi bellici nucleari. Nel momento in cui, tra i contendenti, il potenziale strategico tende a equivalersi il conflitto non può che ripiegare sulle sue forme maggiormente tradizionali a dimostrazione di come, per quanto strano possa apparire, a governare la politica sia sempre un principio di razionalità che lascia sostanzialmente immuni dal catastrofismo di maniera. La guerra, questo il vero nocciolo della questione, è fatta non per distruggere in senso generico ma per eliminare un determinato surplus di capitale costante e capitale variabile in modo da rendere possibile un nuovo e prospero ciclo di accumulazione capitalista. Questo, andando al sodo, l’arcano della guerra. Del resto, guerre stellari a parte, gli eserciti continuano a fare incetta di armi convenzionali il che vorrà ben significare qualcosa. Tutto questo per dire che le tensioni che attraversano il modo di produzione capitalista dentro la crisi spingono, indipendentemente dalle volontà dei singoli, verso non improbabili scenari di guerra e che, a conti fatti, oggi un arciduca è possibile trovarlo dietro a ogni angolo di strada. A scanso di equivoci, quindi, l’aver posto fortemente l’attenzione sul tratto interno e asimmetrico della guerra non ci ha portato a dimenticare e a tenere fortemente presente i volti tradizionali di Marte e tutto ciò che questo comporta.
Proprio la compenetrazione di questi due volti della guerra rappresenta il senso di novità e di contraddizioni proprie della fase imperialista contemporanea. Il precipitare della crisi in conflitto armato interimperialistico è una possibilità alla quale, la natura stessa della crisi imperialista, difficilmente potrà sottrarsi. Così come il modo di produzione capitalista non può esimersi dal produrre crisi, allo stesso modo il sistema imperialista, non può, per sopravvivere e riprodursi, evitare la guerra. Non bisogna infatti dimenticare che, come l’intera storia della fase imperialista è lì a ricordare, la guerra finisce sempre con il marciare con gambe proprie poiché nasce da contraddizioni oggettive e non dalla cattiva coscienza di qualche individualità particolarmente in vena di protagonismo. Così come, per scatenare l’inferno, non è necessario che, sul proscenio storico, accada qualcosa di tale gravità da non essere più riconducibile nell’ambito della mediazione diplomatica.
Se ripensiamo agli eventi che hanno scatenato i precedenti conflitti mondiali possiamo osservare facilmente che, tanto lo “incidente di Sarajevo” quanto il “corridoio di Danzica”, di per sé, non avevano nulla di particolare rispetto a una miriade di eventi non troppo dissimili da questi. Agli inizi del Novecento la morte di un diplomatico o di un nobile attraverso un attentato non era certo cosa da stupire il mondo, così come, il “corridoio di Danzica”, non era una questione poi così diversa dall’intervento nazista in Spagna, in Austria o in Cecoslovacchia. Non esiste una spiegazione e una ragione logica sul perché proprio quegli eventi finirono con il mettere in moto l’intera macchina bellica internazionale. Molto più banalmente, quei fatti, rivelarono semplicemente che oggettivamente si era giunti al punto di non ritorno; che la materialità delle cose e non le coscienze individuali spingevano in tale direzione.
È dentro questo scenario oggettivo che la tendenza alla guerra prende forma. Se le ultime tensioni tra Russia e USA siano l’ennesima partita a scacchi tra le due potenze o se, al contrario, la “crisi”potrebbe declinare verso la guerra è cosa difficilmente prevedibile. Sulla base dell’esperienza storica possiamo solo ricordare che l’ultimatum alla Serbia faceva presagire tutto tranne quattro anni di conflitto internazionale così come il “corridoio di Danzica” non aveva nelle sue corde ciò che la seguito. La guerra è sempre il frutto di fattori oggettivi quali la crisi del modo di produzione capitalista e non la follia di qualche leader politico con smanie da primadonna, la guerra deflagra sempre per contraddizioni oggettive e non per vago volontarismo soggettivo, in ogni caso è sempre bene tenere a mente: per quanto noi possiamo ignorare la guerra, la guerra non ignorerà noi.
Prima di concludere pare il caso di evidenziare le non secondarie contraddizioni che l’intero mondo Occidentale sta mostrando. In altre parole dobbiamo chiederci se è realistico e possibile condurre in contemporanea una guerra simmetrica all’esterno e una asimmetrica all’interno ma non solo l’altra grande domanda, che è esattamente il corollario della prima, consiste nel chiedersi se sia realisticamente possibile sostenere una guerra simmetrica, la cui durata e costi è difficilmente ipotizzabile, con eserciti numericamente ridotti e potendo fare a meno di quella “mobilitazione totale” che ha fatto da sfondo alle guerre del passato. È possibile, in sostanza, affrontare una guerra simmetrica senza il coinvolgimento diretto della popolazione? A ciò si è pervenuto gradatamente nel corso della Prima guerra mondiale la quale tra le ricadute immediate ha quella “Costituzione di Weimar” che ratifica esattamente l’inclusione politica delle masse subalterne all’interno dei perimetri statuali mentre, nella Seconda, sono le politiche keynesiane a governare la linea di condotta degli stati. Ciò mirava, in prima battuta, a coinvolgere le masse nel conflitto rendendo così il più possibile certe e sicure le retrovie.
Gli stessi stati che, in virtù dei loro orientamenti liberali si erano tenuti fuori dalle logiche keynesiane, dovettero repentinamente ricredersi. L’Inghilterra deve sicuramente molto ai piloti della RAF ma non meno deve alla sua classe operaia e alla svolta apertamente keynesiana propria del “rapporto Beveridge” così come non poco deve alla classe operaia americana la quale, con la sua produzione, permise il costante invio di immensi aiuti ma non solo. Se pensiamo alle fase iniziali della “battaglia dell’Atlantico”, quando i convogli venivano affondati con la stessa facilità con cui vengono bucati i palloncini nei tiri a segno del Luna Park, è difficile non vedere quanta importanza ebbe la capacità produttiva della classe operaia. Per ogni nave affondata due ne uscivano dai cantieri e il flusso di merci continuò ad avere cadenze pressoché costanti. Dietro a tutto ciò vi era un modello statuale governato dai principi keynesiani.
Sappiamo che proprio contro questi principi si sono orientati tutti gli stati occidentali e che, in virtù di questi, le masse sono costantemente oggetto di marginalizzazione politica e sociale così come, proprio contro quote di queste, è condotta la guerra interna. Coerentemente con ciò gli eserciti di leva sono stati aboliti per far posto a ristrette truppe di elite. Il tutto all’insegna di un esponenziale innalzamento del tasso tecnologico. In pratica, sul piano militare, è accaduto ciò che da tempo avviene nell’ambito della produzione: un sempre maggior impiego di capitale costante a fronte di una drastica riduzione del capitale variabile. Scelta solo in apparenza geniale poiché non dal capitale costante bensì da quello variabile si ricava il plusvalore tanto che, lo spettro della crisi, è ben lungi dall’essere stato scongiurato ma semplicemente posticipato grazie all’utilizzo di una serie di momentanei artifici.
Sul piano militare questo passaggio si mostra funzionale, almeno sino a un certo punto, sino a quando la dimensione del conflitto rimane sul piano asimmetrico, ben diverso lo scenario quando si precipita nella guerra simmetrica. In una ipotetica guerra in cui le tecnologie si annullano non si può che tornare a combattere in forma grosso modo convenzionale e lì, per forza di cose, la quantità torna a trasformarsi in qualità. In Ucraina, dove al momento si sta consumando una guerra di posizione che rimanda alla mente scenari da Prima guerra mondiale, nel caso del deflagrare del conflitto né la tecnologia USA/Nato né quella della Russia sono in grado di avere la meglio sull’altra. Sul piano tecnologico, così come su quello dei corpi di elite, il risultato sembra inchiodato sullo zero a zero. A quel punto o si cessa di combattere, oppure non si inizia neppure, o si è costretti a tornare a combattere una guerra per così dire tradizionale. Ciò ha conseguenze non secondarie.
Per prima cosa non può che diventare una guerra di massa con pesanti ricadute sulla popolazione degli stati belligeranti e qua la prima sostanziale differenza con le guerre modello video–game alle quali siamo stati abituati. Qualcuno si è accorto delle guerre che abbiamo combattuto negli ultimi trenta anni? Palesemente no. La stessa guerra contro la Jugoslavia, combattuta da noi sul portone di casa, ha potuto essere bellamente ignorata. Non semplicemente perché nessun allarme aereo è risuonato sopra le nostre teste ma perché nessuno ha dovuto modificare la propria attività in funzione della guerra. Questa è stata compito esclusivo degli specialisti e da quel perimetro non si è discostata. Non solo non abbiamo assistito a una “chiamata alle armi” ma neppure la produzione si è dovuta in qualche modo piegare alle esigenze della guerra nessun: Tutto per la guerra, è risuonato per l’aria.
In contemporanea la guerra a bassa intensità all’interno dei perimetri statuali non è certo venuta meno. Una guerra combattuta in maniera convenzionale comporterebbe scenari del tutto diversi poiché il coinvolgimento della popolazione non potrebbe che assumere contorni del tutto diversi a partire dal numero di persone direttamente coinvolte nel conflitto poiché, in qualche modo, occorrerebbe tornare a una dimensione di massa delle forze combattenti il che, vero e proprio nocciolo della questione, a un numero di perdite alle quali non siamo più abituati. Tutto questo all’interno di uno scenario in cui, da tempo, le masse subalterne sono state cacciate dai perimetri della legittimità politica e dell’inclusione sociale. Banalmente non si può fare la guerra alle masse e poi chiamarle a combattere. Questo appare un problema difficilmente risolvibile per gli attuali assetti politici anche perché alcun cambio di passo sembra profilarsi all’orizzonte anzi, a ben vedere, la guerra interna diventa sempre più moneta corrente nei nostri mondi.
Queste note sono sicuramente molto parziali e non immaginano minimamente di essere vagamente esaustive ma, più modestamente, provano a immettere sul piano del dibattito politico alcuni temi che sembrano mostrarsi centrali. La “crisi Ucraina” è lì a ricordarci come, oggi, l’opzione guerra abbia ben poco di accademico ma sia una opzione quanto mai realistica. Abbiamo parlato dell’Ucraina ma, in contemporanea, potremmo aprire uno o più capitoli in merito a ciò che sta accadendo in Africa senza dimenticare il contesto siriano, il Kurdistan, l’Iraq la stessa Libia e via dicendo.
Il ritorno della guerra simmetrica non è sicuramente una certezza, ma neppure qualcosa che possiamo considerare unicamente materia per i libri di storia. Per altro verso la guerra asimmetrica non demorde, anzi sembra farsi sempre più agguerrita nonostante gli scenari di una reiterazione della guerra simmetrica siano sotto gli occhi di tutti. La china intrapresa dall’imperialismo globale non pare mostrare ripensamenti la guerra alle popolazioni era e resta la sua linea di condotta dimostrando con ciò la sostanziale incapacità di pervenire a un progetto strategico sui tempi medio – lunghi. Guerra interna, guerra esterna, guerra asimmetrica, guerra simmetrica sono assunte in maniera tanto fondamentaliste quanto indistinte mostrando così l’assenza di un “cervello” capace di ipotizzare e pianificare degli assetti politici e strategici in grado di alzare lo sguardo dall’oggi, con ciò torniamo all’esergo posto a incipit del testo. Per molti versi in questa miopia, che rasenta la cecità, la borghesia appare sempre più simile a quel mugiko incapace e anche impossibilitato a alzare lo sguardo oltre l’orizzonte ristretto del proprio campo. Forse,con ciò, la borghesia sembrerebbe pervenuta al massimo grado di putrefazione ma,se questo è vero, la transizione al comunismo diventa qualcosa di non più rimandabile perché l’alternativa socialismo o barbarie potrebbe essere dietro l’angolo e nella storia non poche volte a prevalere è stata proprio la seconda.
(Fine)