di Emilio Quadrelli
Dal quartiere operaio al ghetto
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti delle classi sociali subalterne, nel nostro Paese, abbiamo assistito a qualcosa che, pur con tutte le tare del caso, mostra non poche affinità con il dibattito politico e culturale sedimentatosi intorno alla “questione immigrazione”. Proprio a quel periodo storico risale il dibattito intorno alle “subculture metropolitane” come punk, ultras ecc. che ha tenuto banco per buona parte degli anni Ottanta e Novanta. Anche in quel caso, come verso la “questione immigrazione”, abbiamo assistito al sedimentarsi di un discorso di “destra” e uno di “sinistra”. La “destra”, nei confronti di queste culture, mostrava un’avversione pressoché totale ascrivendole senza mezzi termini all’ambito della devianza se non addirittura della criminalità tout court. La “sinistra”, al contrario, pur relegandole ai piani infimi dei mondi culturali ne riconosceva non solo la legittimità ma le innalzava a espressioni compiute ed esaustive dei mondi subalterni. Riconoscendo, in sostanza, il loro essere innocuo, poiché culture decisamente impolitiche (punk e ultras ben difficilmente possono divenire “una dottrina per l’azione” politica), ne faceva l’orizzonte unico e possibile dei settori sociali proletari e subalterni. Da queste nessun assalto al cielo avrebbe potuto realisticamente prendere forma ma, tutto al più, la massificazione di queste pratiche e coevi “stili di vita” avrebbe messo in forma la proliferazione di “riserve indiane” entro le quali, dentro confini ben delimitati, potevano essere circoscritte tutte o gran parte delle tensioni politiche e sociali.
Sotto l’attento e vigile controllo del potere statuale non solo non dovevano essere stigmatizzati ma favoriti, incentivati e promossi quell’insieme di spazi geografici e sociali all’interno dei quali, i subalterni, potevano dare vita a forme di autoreclusione ancorché contrabbandati come “spazi liberati”. Spazi autoreferenziali, contraddistinti da una logica “separatista” e autoescludente che è stato il leit motiv in gran parte prevalente dell’esperienza di quell’aggregazione sociale e culturale maggiormente nota come pratica dei Centri sociali. Si tratta di qualcosa che non nasce per caso ma affonda le sue radici nella sconfitta operaia e proletaria consumatasi, dopo un ventennio di offensiva, nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Un passaggio che interrompe bruscamente tutta la continuità della storia operaia e proletaria e, con essa, la possibilità concreta, da parte di queste, di portare l’assalto al cielo e farsi classe dominante. Sullo sfondo di ciò, ovviamente, non vi era alcuna subcultura metropolitana bensì una teoria politica, il marxismo, il cui tratto universale non ha certo bisogno di essere argomentato. Questa l’arma dei subalterni. La nascita prima e la legittimazione poi delle “subculture metropolitane” assolve a un’esigenza strategica da parte delle classi dominanti: trasformare le gerarchie sociali, che possono essere in qualunque momento ribaltate, in gerarchie culturali le quali, proprio perché frutto di universalismo quella borghese e di particolarismo e localismo quella dei subalterni, non possono diventare oggetto di alcuna negoziazione.
Perché una classe possa aspirare ad assumere una dimensione storica occorre che la sua filosofia della storia sia in grado di competere e superare, in primis sul piano teoretico, il punto più alto raggiunto dal nemico di classe. Occorre, cioè, che la sua praxis sia armata e diretta da una teoria politica in grado di leggere e anticipare i processi storici. Nessuna classe può aspirare a farsi classe dominante senza una scienza teorico/politica in grado di superare i limiti storici (politici e concettuali) delle vecchie classi dominanti. Questo era ed è il marxismo. Ma se questa scienza di classe viene rimossa dagli orizzonti delle classi sociali subalterne e sostituita con innocue “culture metropolitane” molte cose ne conseguono. Se il proletariato è teoricamente confinato entro i perimetri delle “subculture metropolitane” ogni rapporto e relazione conflittuale tra l’esercizio del potere politico e i subalterni viene a decadere. Difficile pensare che una classe forgiatasi su creste variopinte, colla da sniffare, concerti più o meno assordanti o, per altro verso, prigioniera di rituali e simbolismi calcistici possa ipotizzare di spezzare la macchina statuale del potere imperialista e sostituirla con una macchina politica e militare poggiante sulla dittatura rivoluzionaria degli operai e dei subalterni. Mentre, nel marxismo, questi “immaginari” e questi problemi occupavano la centralità del dibattito teorico, politico e culturale all’interno dei mondi delle “subculture metropolitane” tutto ciò, nella migliore delle ipotesi, è semplice fantascienza. Il corollario di tutto ciò è persino ovvio: ai padroni l’esercizio del potere politico, economico e militare e tutta la Cultura che a tale scopo necessita, ai subalterni il balocco degli “stili di vita” e poco più. Le gerarchie culturali non fanno altro che rendere eterni i rapporti sociali esistenti poiché, attraverso le “subculture metropolitane”, il proletariato non sarà mai in grado di impossessarsi degli strumenti “culturali” necessari agli esercizi del potere. Vi potranno essere rivolte, riot, come in effetti accade ma non rivoluzioni. In questo modo alla fatidica domanda: è una rivolta? Nessuno avrà più l’incubo di sentirsi rispondere: no sire, è una rivoluzione!
A conti fatti le retoriche multiculturali e quelle inerenti alle “subculture metropolitane” assolvono a un unico obiettivo: relegare nell’ambito dell’impolitico proletari e subalterni. A quel punto la loro esistenza non può che assolutizzarsi all’interno della dimensione propria del privato ma, se quella diventa l’alfa e l’omega dei subalterni, nei loro confronti e della loro riottosità vanno agite non operazioni militari bensì poliziesche. Molti conti, allora, cominciano a tornare. L’apparente ossimoro che la dicitura operazione di polizia in sostituzione di operazione militare assume contorni ben più decifrabili. Detto ciò occorre svelare il senso “concreto” e materiale che è all’origine di questo passaggio.
Tutto questo, infatti, è ben distante dall’appartenere al “cielo della geopolitica” come se, in fondo, le ricadute della messa in forma della guerra fossero qualcosa che poco o nulla hanno a che vedere con quanto accade all’interno della sfera economica e sociale. In realtà il nesso tra forma guerra e formazione economica e sociale è qualcosa di inscindibile poiché, il “politico”, del quale la forma guerra ne rappresenta la sintesi più cristallina, determina ogni ambito e aspetto della vita economica e sociale. Facciamo un passo indietro. Torniamo a Marx e alla sua nota asserzione: A parità di diritti, vince la forza. Marx si riferisce al conflitto tra proletariato e borghesia il quale, sotto il profilo giuridico/formale, è posto su un piano di assoluta eguaglianza governata dalle leggi della domanda e dell’offerta. Certo, in tale asserzione, vi è una sottile ironia poiché, l’eguaglianza tra proletariato e borghesia, è puramente formale e ben poco sostanziale. Gli apparati che la borghesia è in grado di mobilitare contro il proletariato riducono a un involucro pressoché vuoto la tanto decantata eguaglianza giuridico/formale borghese. Tutto ciò è indubbio ma, ed è quanto ci preme evidenziare, formalmente la borghesia riconosce il proletariato come classe legittima. Il proletariato può essere deriso, ingannato e turlupinato attraverso la farsa giuridica ma non è svalutato. C’è un qualche rapporto tra la relazione in cui si dà il rapporto tra proletariato e borghesia e l’ordine discorsivo in cui è posta, in quel contesto, la forma guerra? Evidentemente sì. La cornice teorico/politica in cui la guerra è posta, nel momento in cui Marx scrive Il capitale, è esattamente quella che presuppone l’esistenza di entità statuali legittime che si affrontano militarmente come grandezze assolutamente commensurabili.
La guerra, e la sua messa in forma, presuppone un antagonista il quale, è tale, in virtù dell’essere eguale a noi. La guerra, allora, è possibile solo su un piano di completa e totale reciprocità. In tale ottica, allora, il nemico è assolutamente uccidibile ma mai svalutabile. Tra lui e noi non esiste alcun scarto antropologico. La sua esistenza può essere, attraverso l’esercizio della guerra, posta seriamente in discussione ma mai essere oggetto di delegittimazione. Tutto ciò, ovviamente, per quanto concerne la forma guerra all’interno del cosiddetto mondo civile. Le guerre contro popoli e realtà territoriali estranee alla forma statuale europea non soggiacciono a tali retoriche. Le guerre coloniali, proprio in virtù del rapporto asimmetrico tra “civiltà statuale”, nel senso assunta da questa nel mondo europeo, e “mondi pre – statuali” presuppongono una forma guerra ascritta a tutt’altro tipo di cornice. Ma è solo la forma guerra a cambiare oppure, più realisticamente, il modo in cui si combatte non è altro che lo specchio di un modello di governo della popolazione e della forza lavoro? Esattamente qua sembra porsi il nocciolo della questione.
Siamo partiti dal Val Susa per evidenziare come, dentro la fase imperialista contemporanea, gran parte degli ordini discorsivi del passato siano stati bellamente accantonati. Abbiamo iniziato un viaggio dentro il mondo attuale evitando scientemente di cadere nella trappola propria delle retoriche repressive. Il capitalismo non è interessato, se non come extrema ratio, alla repressione bensì alla produzione. Ciò a cui mira il capitalismo è una forza lavoro completamente depotenziata come classe e posta nell’impossibilità di resistere. Perché ciò sia possibile non bastano le baionette le quali, spesso e volentieri, finiscono con l’ottenere dei risultati opposti a quelli desiderati, bensì un modello politico che emargini completamente il proletariato dalla scena pubblica. Ciò è esattamente quanto accaduto, attraverso un processo a cascata, con la fine del cosiddetto bipolarismo e l’imporsi della fase imperialista globale. Si è trattato di un passaggio che ha modificato non semplicemente gli assetti geopolitici e geostrategici, lasciando pressoché immutata la base strutturale su cui tali assetti poggiavano, ma ha ridefinito complessivamente il rapporto tra le classi dando vita a una formazione economica e sociale radicalmente diversa da quella conosciuta a partire dall’immediato secondo dopo guerra. L’aspetto centrale di tale passaggio è stata la messa in mora dell’esistenza del proletariato in quanto classe politicamente legittima, la sua marginalizzazione e conseguentemente la delegittimazione di ogni sua forma di rappresentanza politica.
Ma qual è il senso di questa trasformazione? A cosa rimanda un passaggio così radicale? Abbiamo visto come la forma guerra non sia altro che la sintesi di una determinata forma politica la quale, a sua volta, non fa altro che incarnare una particolare formazione economica e sociale. Non dobbiamo infatti considerare il modo di produzione capitalista nella sua genericità ma osservato nella sua dimensione “concreta”. Certo il plusvalore era e rimane l’arcano del modo di produzione capitalista ma, il modo in cui questo viene estratto, rimanda esattamente a quella specificità propria di una determinata formazione economica e sociale.
Nel corso del suo secolare dominio, il modo di produzione capitalista, ha assunto tratti e forme diverse. Dall’inferno di Manchester al Welfare State il modo in cui il plusvalore è stato estratto dal lavoro salariato non ha certo mostrato lo stesso volto. Volta per volta, questo volto, è stato determinato sia dai rapporti di forza tra le classi, sia dall’organizzazione internazionale della divisione del lavoro, sia dagli aspetti “concreti” e “particolari” assunti da una determinata fase del modo di produzione capitalista. Non esiste il “cielo”, ovvero l’astrazione del modo di produzione capitalista, bensì solo e unicamente la “terra” ossia la sua determinazione storica e concreta. Se, ed è sicuramente un fatto, la forma salario tende a universalizzarsi il modo in cui questa si articola concretamente nelle diverse aree economiche assume tratti che sono sempre il frutto di una particolarità politica. Le fasi imperialiste che ci hanno preceduti poggiavano per intero su una rigida divisione che presupponeva una divisione del mondo all’interno di confini certi e oggettivamente non valicabili.
Oggi, contrariamente a quanto accaduto per un’intera arcata storica, la condizione di marginale diventa tutta interna al lavoro salariato. Se, nel passato, la condizione di marginale era tipica di coloro i quali erano estranei al ciclo produttivo oggi l’essere marginali coincide esattamente con quella del lavoratore salariato. Ciò che sembra essere saltata è quella condizione di parità di diritti giuridico/formali che aveva tenuto a battesimo la nascita del capitalismo il quale, nel momento in cui si trova nella necessità di sciogliere i vincoli feudali e i legami comunitari ai quali questi rimandano, brandisce come un’arma la retorica dell’individualismo giuridico/formale. A venir meno è la lunga stagione della legittimità della rappresentanza politica delle masse salariate e subalterne. Una rappresentanza che, almeno sino al 1989, è stata la posta in palio per eccellenza delle stesse forze politiche borghesi mentre oggi, tra Stato e popolazione, sembra essersi prodotta una scissione che rompe per intero quel legame, pur segnato da una pesante conflittualità, che lo aveva caratterizzato per un intero ciclo storico. Se, in passato, per le classi dominanti il consenso dei subalterni diventava la posta in palio per eccellenza oggi assistiamo a qualcosa di esattamente rovesciato: lo Stato, giorno dopo giorno, estromette dal suo orizzonte la presenza delle masse. Tanto per un’intera arcata storica lo Stato si era “socializzato” quanto, nel presente, torna ad assumere i tratti puri dell’apparato politico emancipandosi da ogni funzione sociale. È all’interno di tale scenario che, allora, la condizione del proletariato immigrato funziona come cartina tornasole del mondo contemporaneo e diventa il paradigma intorno al quale, in tendenza, si rimodella per intero la condizione proletaria. La figura e la condizione del migrante, infatti, più che rimandare a una condizione particolare e in fondo transitoria dei nostri mondi ha assunto una valenza generale poiché si è estesa, e continua a estendersi, a tutti coloro che precipitano nella condizione poco appetibile della “massa senza volto”.
(fine quarta parte – continua)