di Gioacchino Toni

Guido Colletti, La lama nel corpo. Immagini femminili nell’horror italiano, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 208, € 18,00

Nel cinema italiano sembra esistere uno stretto legame tra l’horror e la figura femminile nella sua tendenza ad assumere un ruolo sacrificale nell’immolarsi, come richiede il genere, per spaventare lo spettatore, ma, non di rado, anche per solleticarne il desiderio erotico.

Nei gender studies statunitensi degli anni Ottanta e Novanta, studiose come Linda Williams, Barbara Creed, Judith Halberstam e Isabel Cristina Pinedo hanno prodotto importanti analisi circa il ruolo della donna, sia come attrice che come spettatrice, nel genere horror.

In ambito italiano Roberto Curti, Stefano Della Casa e Deborah Toschi hanno mostrato come nel cinema gotico nazionale degli anni Sessanta la figura femminile sia costruita in modo tale da esercitare un ruolo perturbante sull’universo maschile attraverso una carica sessuale decisamente maggiore rispetto alle analoghe produzioni anglosassoni, utile a soggiogare gli antagonisti maschili rendendoli, in diversi casi, “strumenti malvagi per procura” del maligno che coincide, in ultima istanza, con la donna1.

Riprendendo tali studi il libro di Guido Colletti estende l’indagine ad un campione di film che arriva alla fine degli anni Ottanta ricercandovi «forme di ricorsività di “tipi” femminili invariati, che assumono via via “travestimenti” e caratterizzazioni diverse, nel corso dei vari decenni».

Convinto che il corpo e gli stereotipi femminili riassumano parte importante delle contraddizioni sociali italiane, basate su potere, conservatorismo e progresso, Colletti ricostruisce l’evoluzione storica del cinema horror italiano a partire dal ruolo che in esso ha il corpo femminile nella sua funzione di attrazione perturbante, nell’ambito dei rapporti tra generi, sia dal punto di vista spettatoriale che della narrazione diegetica e nel sistema dei personaggi.

Nell’ambito di una storicizzazione del “cinema di genere”, il “genere” […], è assunto come processo dinamico dipendente dalle fluttuazioni del mercato, dalla storia e dai gusti dello spettatore, anziché un’ entità strutturale fissa; può essere letto, perciò, da due prospettive differenti, talvolta non escludentesi tra loro.
Nella “funzione rituale”, il genere è creato dal pubblico, investito di significato, gli schemi narrativi dei testi si basano su pratiche sociali esistenti, superando eventuali contraddizioni delle pratiche stesse e offrendo soluzioni immaginative attraverso l’uso della metafora e la possibilità di nuove interpretazioni; nell’approccio ideologico, invece, il genere è un mezzo del potere per ipocritamente ingannare il pubblico con il mezzo d’intrattenimento e dare dei messaggi che rispondono agli interessi governativi.
È, tuttavia, l’approccio rituale quello che, nella trattazione di un genere, sembra essere più confacente allo spirito e agli obiettivi teorici di questo studio.
L’accostarsi alla funzione rituale permette quindi di non relegare la schematizzazione narrativa di genere soltanto a puro e semplice fenomeno commerciale di massa (core society), ma di renderla avvicinabile anche a un discorso d’autore. Questo secondo aspetto è decisamente importante per il cinema italiano, ove la permeabilità tra cinema d’autore e cinema di genere si fa più evidente a partire dagli anni Settanta, nel tentativo di occultare il dispositivo dell’enunciazione (p. 9).

Rispetto a studi esistenti incentrati sul gotico italiano, oltre ad ampliare, il periodo temporale esaminato, Colletti allarga, come detto, la sua analisi al thriller e allo splatter. L’aver assegnato centralità alla figura femminile nella sua disamina aggiunge alla ricostruzione storica dei film di genere aperture attinenti al ruolo della donna nel cinema del terrore. «La questione del corpo femminile è, quindi, in primis il traitd’union che lega segno filmico e teorie di gender, anche a livello comunicazionale: attività semantico-rappresentativa e cognitivo-ricettiva».

Il ricorso a una metodologia di analisi di tipo comparativo, inoltre, consente di evidenziare i legami tra narrazione cinematografica e aspetti culturali e semiotici. «L’enunciazione del dispositivo cinematografico consente di leggere, quindi, sì la corporeità come simulacro del desiderio, ma anche di problematizzarla in chiave socio-antropologica, con particolare riferimento all’uso mediatico della donna».

Degli oltre trecento film italiani censiti tra il 1957 e il 1989 è stata verificata la presenza femminile nelle singole opere ed è stata posta «l’attenzione sulla donna come corpo-attore, ovvero personaggio con più peso narrativo, ma anche persona qualitativamente delineata e definita secondo un caleidoscopico campionario di ricorrenti tratti somatici, modi di atteggiarsi, caratteri e principali stereotipi».

Nella sezione del volume dedicata ai corpi femminili sulla carta stampata – “Adult comics e cartellonistica” – , lo studioso allarga ulteriormente l’analisi toccando il «discorso sui film, le interrogazioni e le risposte della critica e dell’opinione pubblica sulla violenza e sull’erotismo al cinema».

Mentre nel film al corpo della donna è almeno concesso di essere “corpo di personaggio” senziente e parlante e, in taluni casi, complesso, a tutto tondo, la carta stampata ne propone una versione piatta, muta e, soprattutto, priva di sviluppo.

La donna diventa un passivo oggetto sul quale si condensa lo sguardo, trasformandolo in “spettacolo” epifanico; in opposizione alla dimensione teticolineare della narrazione, che si fa attiva e progredisce, sulla donna si blocca lo sguardo: la trama di un film non c’è più, c’è soltanto il suo simulacro al femminile, che, però, funge, al tempo stesso, anche da ostacolo al racconto.
Da questo punto di vista, la cartellonistica (flani, manifesti, locandine) e i suoi codici grafici e figurativi sono il medium privilegiato per questo tipo di immagine femminile, la quale segue consuetudini, regole e dettami della persuasione pubblicitaria. In altre parole la corporeità femminile, seguendo una longeva tradizione, anche nel caso del cinema, si offre a essere un tramite tra lo spettacolo e le sue aspettative.
Quindi anche supporti di carta stampata, come i manifesti sono il punto di incontro tra strategie persuasive di marketing e descrizione diegetica; la donna è il richiamo da fuori e insieme la sintesi del plot, testimonial del film (p. 143).

Alla luce della complessità insita nell’horror stesso, del suo oscillare tra infrazione al conformismo e facile ricorso a stereotipi maschilisti, tra pretese autoriali e mero intrattenimento, della questione dei pubblici a cui si rivolge e da cui è fruito, delle dinamiche tra personaggi nella loro caratterizzazione di genere, lo studio di Colletti contribuisce ad evidenziare la funzione e il ruolo sociale che viene a ricoprire il corpo femminile all’interno della cinematografia italiana – e di ciò che vi gravita attorno – nei tre decenni esaminati.


  1. Cfr.: R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e TV, Lindau, Torino, 2001; S. Della Casa, L’horror, in G. De Vincenti, L. Micciché (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. X (1960-1964), Marsilio-Edizioni Bianco & Nero, Roma-Venezia, 2001; D. Toschi, Vittima o carnefice? La rappresentazione della donna nel gotico italiano, in L. Cardone, M. Fanchi, Genere e generi, figure femminili nell’immaginario cinematografico italiano, “Comunicazioni Sociali”, 2, maggio-agosto 2007. ↩