di Daniela Bandini
Jonathan Carroll, Il paese delle pazze risate, Strade blu Mondadori, gennaio 2004, pp.263, €15,00.
In un’epoca in cui la massima efficienza fisica viene associata al brivido narcisistico dell’apparire, in cui la giovinezza è per forza di cose arrogante perché dopo sembra esserci il nulla, ecco una solida opera di profonda maturità intellettuale, che svela l’incanto dell’autunno più morbido e solare. L’autunno dei grappoli pieni, per intenderci: immaginateli compatti, succosi e incantevoli, già trasformati in intensi aromi custoditi nelle bottiglie più importanti, da sorseggiare preferibilmente in solitudine. La solarità dell’estate che regala freschezza all’autunno. Ecco ciò che mi fa venire in mente questo libro: un intenso sorso di buon vino rosso, e il piacere intellettuale della ricerca intima di un senso.
Difficile descrivere le armonie del romanzo di Carroll: le ambientazioni grottesche, fiabeggianti e cinematografiche degli scenari, e il desiderio quasi fisicodi vivere i dettagli di un’esistenza finalmente piena, finemente dettagliata e consolatoria.
Comincia con una ricerca, per questo scrittore. Ricercare i luoghi e le persone che hanno circondato e condizionato l’idolo della sua vita, un autore di libri per bambini. Scriverne la biografia, conoscere i luoghi che hanno decretato la parola inizio e fine a quei racconti suggestivi e carichi di vitalità, di relazionali interpersonali monotone ma assolutamente particolareggiate. Parola “fine” che in questo particolare caso non ha nessuna voglia di essere scritta.
Suggestioni del sud: una figlia bella e aggressiva, abitanti ritratti come il cast di una recita infinita. Surreale eppure fortissima la tentazione di credere che ciò che si vive leggendo sia vero e possibile. Fermare il tempo. Come quei lunghissimi, interminabili pomeriggi estivi nei quali l’infanzia sembra cadere per non rialzarsi più: rimane lì, per tutta la vita. Accarezzati dal vento dell’estate, addossati a un muro di un cortile o a gambe incrociate sul prato, per sempre. Viverci dentro, a quell’infanzia ininterrotta, può essere un’ottima alternativa al massacro delle nostre speranze.
Ma c’è una nota stonata in tutto questo candore un po’ appiciccaticcio: la morbosa attenzione al procedere della biografia dello scrittore tanto amato. La cura dei dettagli che non è più scrupolo ma diventa maniacale, l’esaltazione che segue lo smarrimento di fronte a troppe coincidenze che si avverano o che, peggio ancora, non si verificano.
Succede che la creatura delle nostre fantasie si sia svegliata: esige una continuità. Esige di rientrare nella farsa, di immortalarsi nella cadenza mistica del bianco dei fogli. Pena la morte, fisica, di noi, del villaggio e della creatura complessa partorita dalla fantasia e dalla necessità di uno scrittore di perpetuare il suo mondo. E’ il sogno e la condanna narcisistico-masochistica del mestiere di scrittore: creare personaggi che sono creature che gli appartengono finché il loro potere ipnotico si incide nella psiche del lettore, che si compiace di averli nell’immaginario: quindi con un potere enorme di vita o di morte.
In balia di incubi o sogni, di frettolose apparizioni o di amplessi adulterini, il lettore diviene incapace di liberarsi di queste creature, che spesso diventano i suoi migliori confidenti e i suoi spietati consiglieri. Come dare voce, sguardo, corpo all’amico invisibile, compagno di tante infanzie tra cui la nostra? Eppure, invisibile e doppio della nostra personalità, era persino capace di tradirci, di deluderci e di farci dispetti. Quei difetti inevitabilmente umani che altrimenti avremmo ricercato nella figura dell’angelo custode: etereo, spirituale, incorporeo anch’egli, ma sceso dal cielo con regole sue, per poi tornarvi. Il personaggio pretende invece di continuare a recitare la sua parte, e reclama un luogo fisico in cui interpretarla.
Qui l’abilità descrittiva del narratore gioca un ruolo primario: se sbaglia un particolare esso diventerà una coincidenza, che sfocerà in un evento diverso. Non a caso tutti i nomi citati dal grande romanziere sono nomi reali, di luoghi reali, di abitudini reali. Sì, quel ragazzino è morto mentre tamburellava la ringhiera con una mano e con l’altra sorreggeva un gelato. Lo sapevamo. Ma non che l’investitore fosse quel tizio, quell’uomo che non c’entra niente, che non avrebbe dovuto essere lì. Perché lì non era previsto, e ciò che non è previsto trascina verso l’angoscia del finale senza certezze, verso l’immane tragedia.
“Che giorno è oggi? E’ quello giusto, Carolyn? Non ricordo!”… “E’ quello giusto… è il 24 ottobre!” “Chi è stato, Carolyn?” “Sam Dorris! Proprio come doveva essere!” “Grazie a Dio” “Sì. E poi Timmy Benjamin si è rotto un dito giocando a football con i suoi fratelli!” “Il mignolo? Si è rotto il mignolo?” “Il mignolo della mano sinistra”.
Da ogni paradiso c’è una fuga, è un insegnamento fondamentale. Non altrettanto dall’inferno. E la tentazione di Eva di avvalersi della sua libertà per oltraggiare la volontà di Dio all’interno di un’esistenza perfetta è la regola da seguire. Non è possibile assaporare i frutti della terra tralasciando quello proibito, ignorare la libertà dell’individuo di scavalcare persino il dono dell’immortalità. Meglio vivere e morire con la sensazione sublime di aver tentato un gesto di assoluta e incondizionata, quanto miserevole, verità. La propria. Unica e ineguagliabile.
Il paese delle pazze risate è un libro da conservare e rileggere. Nell’immagine di copertina si staglia, netto, come a uscire dal libro per aggirarsi incuriosito, un cane. Di una razza particolare e di un particolare colore: è tutto bianco. Ne troverete parecchi, in giro. Interessati alle vicende umane, partecipi del dolore e della gioia, con simpatie e amori precisi. Sono coloro che ci guardano, sono coloro che ci stanno accanto con umiltà e fedeltà. A volte, raramente, chiedono quel grado di autonomia indispensabile per vivere la loro vita da cani. Manca loro solo la parola, chissà quante volte l’abbiamo sentito dire.