di Giovanni Iozzoli
Sarà curioso leggere un po’ più approfonditamente le carte della Procura piacentina e del Gip Caravelli, relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di sei sindacalisti, oltre che ad allungare a dismisura il già ricco carnet di perquisizioni, provvedimenti amministrativi e denunce che la magistratura di quel territorio ha collezionato negli anni, ai danni del movimento operaio della logistica. Perché se è vero che di solito durante le conferenze stampa si danno in pasto al pubblico le anticipazioni più succose, quello che è venuto fuori dalle dichiarazioni dei magistrati è davvero disarmante. Viene da chiedersi se certe figure siano davvero consapevoli della gravità del loro agire – una retata di sindacalisti nel 2022! -, se siano in grado di valutare la sproporzione tra i loro provvedimenti e gli “episodi contestati”; se si rendano conto che una iniziativa come quella del 19 luglio va ad interferire pesantemente con l’interpretazione e l’applicazione di alcuni fondamentali diritti costituzionali.
La lettura politica di queste inchiesta, apre il giudizio a diverse opzioni: la piccola Procura di Piacenza si è ritrovata dentro una specie di delirio di onnipotenza, convincendosi di essere un organo di garanzia del buon ordine sociale; e quindi, come candidamente ammesso in alcuni stralci dell’ordinanza, ritiene suo preciso dovere “tutelare aziende e multinazionali (sic) che sono una ricchezza del territorio”? In questo caso la Procura, nel vuoto della politica, assumerebbe un ruolo di riequilibrio del rapporto di forze, in un comparto che nell’ultimo decennio ha visto l’insediamento di un sindacalismo, forse a volte caotico e litigioso, ma comunque conflittuale e classista. Oppure stanno arrivando ai magistrati input e segnali dall’alto, circa la necessità di irrigidire le maglie del controllo e della sanzione, in vista di un autunno che si presenta come uno dei più drammatici della storia italiana?
Difficile sbrigliare il nodo dei moventi che possono reggere un’inchiesta così strampalata, indubitabilmente destinata a morire prematura. Come si fa a contestare un’associazione a delinquere sulla base di episodi come la tinteggiatura dell’appartamento di un dirigente del Si Cobas da parte di un iscritto (traffico di influenze)? O il “differenziale” di buonuscita per un delegato licenziato (sì, lo confermiamo ai magistrati: liberarsi di un delegato rompicoglioni costa di più alle aziende, per una elementare legge di mercato). Oppure l’uso dei soldi delle tessere e delle percentuali sulle conciliazioni per gestire i quadri e le strutture sindacali (i Pm di cosa pensano campino gli altri sindacati? Magari hanno i bilanci certificati, ma la sostanza è quella).
La Gip nella sua ordinanza pare ossessionata dall’idea della lobby tentacolare costituita da questi sindacalisti rampanti ai danni delle aziende; ed è surreale pensare che nel paese delle lobbies – spesso occulte e criminali –, i magistrati vadano a caccia di “lobby operaie” dentro i magazzini della logistica. Del resto, la vittimizzazione dell’impresa è uno degli elementi che ricorre più spesso nell’impianto accusatorio: nel mondo alla rovescia dei magistrati, non è il sistema dei sub appalti ad avvelenare le relazioni industriali e la concorrenza; sono piuttosto i lavoratori a vessare i grandi gruppi della logistica con richieste incongrue. Ed è anche comprensibile, tale visione, perché i magistrati sono sottoposti come tutti noi alle medesime narrazioni tossiche: l’imprenditore “chiagn’ e fotte” è ormai una figura onnipervadente del nostro immaginario.
Pm e Gip hanno più volte negato, con scrupolo peloso, che la loro possa essere interpretata come un’inchiesta contro il sindacalismo di base (no: e quando mai?). Si tratterebbe piuttosto di un’azione contro “due specifiche associazioni a delinquere costituitesi all’interno delle sigle sindacali in questione”. Tra l’altro il Gip si occupa, incredibilmente, anche di valutare e censurare le politiche sindacali delle due organizzazioni – Si Cobas e USB – che competerebbero sfacciatamente tra loro per mere ragioni di potere, invece di pensare all’interesse generale dei lavoratori. Magistrati decisamente a tutto campo.
Insomma, se quello che si è letto in questi giorni, è il “meglio” che il menu della casa può servire, l’inchiesta è destinata agli archivi meno nobili della triste storia giudiziaria italiana. Per quanto giuridicamente effimera, l’azione della magistratura piacentina produce però altra repressione, altra sofferenza, mandando segnali intimidatori a tutto un mondo conflittuale e ribadendo esplicitamente che le eccessive richieste economiche contro “le multinazionali” sono un’estorsione e che la contrattazione può diventare un reato.
Bisogna schierarsi esplicitamente dalla parte del sindacalismo di base (come correttamente hanno fatto anche le minoranze in CGIL e tutta la sinistra di classe) e alzare la soglia della mobilitazione tutte le volte che la violenza di Stato si scaglia sulle organizzazioni popolari. Inutili i distinguo e gli attendismi: queste iniziative repressive meritano una lettura e una risposta politica complessiva. E la società e l’opinione pubblica, vanno assolutamente coinvolte: non si può assistere all’indignazione a reti unificate dei nostri TG mentre arrestano gli oppositori a Mosca, e permettere loro di girare la testa dall’altra parte a Piacenza.
Quanto alle Procure, anche senza grandi dibattiti sulla divisione delle carriere, se si stabilisse una norma per cui i Pm sono economicamente responsabili delle spese di certe inchieste farlocche – ingentissime, immaginiamo: 5 anni di indagini, centinaia di ore di intercettazioni, schedature di massa, forze di polizia, interpreti e consulenti all’opera – , certi magistrati, dicevo, smetterebbero di occuparsi della tinteggiatura di interni e comincerebbero a pensare di più alle infiltrazioni mafiose – quelle reali – dentro al “tessuto economico” che vorrebbero preservare dalle orde sindacalizzate.
Il vecchio vizio di certi segmenti di magistratura è sempre lo stesso: pesca a strascico dentro un ambiente o un contesto, protratta per anni, con ogni mezzo di indagine possibile; e poi, su questa mole caotica di carte, l’edificazione di un teorema, solitamente debole o fantasioso. Perché il paradosso italiano, negli inferni della logistica, è sempre lo stesso: sono i rivoluzionari “associati a delinquere”, quelli che, in ultima analisi, difendono la legalità e aiutano lo Stato a recuperare enormi introiti facendo emergere il nero e il grigio delle elusioni fiscali e contributive; mentre la buona borghesia della provincia padana ha assistito in compiaciuto silenzio per un quarto di secolo al proliferare di ogni abuso, truffa e illegalità.
L’inchiesta indugia morbosamente sulle faccende di soldi e contabilità, insinuando il sospetto che tutte le lotte non siano altro che il paravento dei modestissimi introiti di cui vivono i sindacalisti (attività defatigante, in certi ambienti anche pericolosa). Nell’ottica del perbenismo piccolo borghese parlare di soldi è peccaminoso o improprio e suscita immediata diffidenza. In tal modo i magistrati, lisciano il pelo al comune sentire “anti-politico”, al qualunquismo passivizzante: sembrano dire all’opinione pubblica: non vi fidate, sono tutti ladri, non seguite certe bandiere, state a casa che è meglio. Quello che vi serve vi arriverà dall’alto, senza bisogno di agitarvi troppo. I lavoratori – quelli che in questi giorni stanno scioperando e manifestando contro gli arresti – sono raffigurati come bambini ingenui, raggirati da dirigenti marpioni che hanno usurpato la loro fiducia.
Ovviamente non è la vil moneta, al centro dell’attenzione dei magistrati: lo scandalo vero sono i picchetti, le agitazioni senza preavviso, il blocco delle merci, le vertenze aziendali per rinforzare una contrattazione nazionale esangue. La Procura ventila il reato di “sabotaggio” (tipico di un contesto di guerra), e in effetti queste migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno rappresentato in questi anni un’efficace avanguardia di sabotatori: hanno sabotato il modello emiliano fondato sulle finte cooperative e il semischiavismo, hanno sabotato le complicità sindacali e il comparaggio politico, hanno sabotato il conformismo omertoso che aveva regnato in certi territori della ricca Padania peggio che in Aspromonte. Altro che i quattro soldi delle conciliazioni: al centro dell’azione della Procura c’è lo scandalo di proletari che si organizzano, che rovesciano le filiere etniche dello sfruttamento in forza operaia, che mettono i piedi nel piatto dell’organizzazione del lavoro, della prestazione, degli orari, della dignità. I “delinquenti associati” di Piacenza sono quelli che in questi anni, dentro ai cancelli degli stabilimenti, hanno paradossalmente soltanto difeso la Costituzione repubblicana – uno dei lavori che gli italiani non vogliono fare più.
Aldo Milani e Arafat sono già al secondo arresto. Abdel Salam Al Nanf, ammazzato a Piacenza nel 2016 nel corso di un picchetto “criminale”, aspetta ancora giustizia. La modifica dell’art. 1677 del codice civile per eliminare la responsabilità in solido del committente negli appalti, è l’ultimo regalo di Draghi ad Assologistica e Confindustria, un attimo prima di cadere. Il Pm Pradella ha subito dichiarato che le manifestazioni non autorizzate di questi giorni saranno oggetto di provvedimenti specifici. Cartoline italiane da Piacenza.