di Paolo Lago
Georgios Katsantonis, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs Pasolini filosofo, Metauro, Pesaro, 2021, pp. 298, euro 22,00.
La dimensione del corpo è indubbiamente fondamentale nell’intera opera di Pasolini: nella poesia, in cui spesso ad essere rappresentato è lo stesso corpo del poeta, rivestito della sua dimensione fisica più autentica, senza filtri estetici; nella narrativa, da Ragazzi di vita, in cui la stessa città di Roma sembra trasformarsi in corpo che cresce e soffre insieme ai corpi dei ragazzi sottoproletari, fino a Petrolio, in cui il corpo emerge nei suoi aspetti più strettamente legati ad un eros annientatore; nel cinema, in cui ad essere rappresentati sono i corpi di sottoproletari votati al sacrificio, come Accattone, Ettore o Mamma Roma, o quelli di personaggi inseriti in un «carnevale di stili e di sessi», come ha scritto Barthelemy Amengual a proposito di Medea. Sicuramente, anche nel teatro pasoliniano il corpo riveste un ruolo di primo piano, basti ricordare questi versi di Calderón: «Tu sei qui perché hai un corpo. / Senza corpo non ci sarebbe vergogna, sofferenza e morte, / e quindi non ci sarebbe espiazione». Adesso, ad analizzare la ‘funzione-corpo’ nel teatro di Pasolini, interviene un ricco e ben documentato saggio di Georgios Katsantonis, oggetto del quale non è tanto «definire la centralità del corpo» nel teatro dell’autore, quanto invece «capire come essa si esprima e quali segni emetta».
Il saggio si concentra su tre tragedie di Pasolini: Orgia, Porcile e Calderón. Come specifica l’autore, «l’analisi condotta indaga i seguenti snodi tematico-testuali: 1) il corpo in preda al desiderio sadomasochistico (Orgia), 2) il corpo con la sua viscerale motivazione erotica che sconfina nella zooerastia (Porcile), 3) il corpo imprigionato tra scissione e visionarietà (Calderón)». Le tre opere selezionate «illustrano un tentativo di lettura del potere nelle sue varie declinazioni simboliche», con lo scopo «di far risaltare la concezione filosofica e l’impegno politico che si nascondono dietro le drammaturgie pasoliniane». Viene quindi attuata una vera e propria «anatomia del potere» nelle tre opere teatrali di Pasolini dimostrando come, in esse, sia lo stesso potere a manovrare i corpi degli individui: un potere, come quello della società dei consumi del neocapitalismo, che assume connotazioni simboliche che lo avvicinano a quello attuato da dittature sanguinarie come il fascismo e il nazismo.
L’analisi di Katsantonis parte da Orgia, un’opera teatrale composta (come le altre) nel 1966, l’unica allestita da Pasolini stesso. I due protagonisti, l’Uomo e la Donna, marito e moglie, sono chiusi nella loro camera borghese e praticano esperienze sadomasochiste «per scoprire una nuova libertà all’interno della prigionia sociale». Entrambi sono desiderosi della morte e si uccidono, «trascinati nella confusione tra vittima e carnefice dalle loro pulsioni oscure e violente». L’autore prende in esame Orgia mediante un’ottica comparata, a partire da una lettura della Philosophie dans le boudoir di Sade. Questo rapporto erotico basato sul sadomasochismo, sullo scambio di ruoli fra vittima e carnefice, assume le connotazioni metaforiche di una riflessione critica sulla società e sul potere. Il corpo appare schiavo delle dinamiche imposte da quest’ultimo, all’interno di un feticismo che diviene anche e soprattutto feticismo delle merci. Gli oggetti dell’adorazione feticistica – che rappresentano le merci nella società consumistica – sono diventati le catene che schiavizzano i corpi dei personaggi, nello stesso modo in cui l’adorazione della merce schiavizza i corpi degli individui all’interno della società neocapitalistica. Se l’Uomo appare totalmente schiavizzato nel corpo da questo rapporto feticistico dominato dal potere, la Donna assume diverse connotazioni di resistenza a quello stesso potere. Infatti, come nota lo studioso, spesso, «le donne nell’opera di Pasolini rappresentano l’elemento di rottura e di resistenza alla corruzione e all’ideologia dominante della società. Hanno un ruolo socio-politico eversivo che definisce una figura frequente nel cinema e nel teatro pasoliniano: quello della vittima del Potere, in cui si crea anche una sorta di parallelismo tra il “diverso” e la donna». Possiamo ricordare Anna Magnani-Mamma Roma, figura materna e prostituta (le prostitute, infatti, secondo Sade – e non da ultimo anche secondo Pasolini – come scrive l’autore, «sono le uniche donne degne di rispetto e le più sagge»), oppure Medea, interpretata da Maria Callas, vera e propria rappresentante del sacro nella società desacralizzata della Grecia in cui regna Creonte e nella quale viene condotta da Giasone, una società che rappresenta la razionalità della moderna borghesia; oppure, ancora, Silvana Mangano-Lucia in Teorema (1968) o, nello stesso film, Emilia, interpretata da Laura Betti, l’unica che, toccata dalla sacralità dell’Ospite, si distacca da una società borghese per fare ritorno agli spazi di un’Italia paleoindustriale e contadina che sta scomparendo. Se il sesso, in Orgia come in Teorema, è un sostituto del sacro, una espressione vitale e innocente (come nella Trilogia della vita), l’eros imposto dal potere, come in Salò, è invece una violenza effettuata sui corpi degli individui, come l’obbligo del godimento all’interno della società dei consumi.
Il secondo capitolo prende in esame Porcile, un’altra pièce teatrale pasoliniana abbozzata nel 1966 e riscritta tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968, attraverso un’analisi comparata che include anche il film omonimo del 1969. Julian, il giovane figlio di un ricco industriale della Germania del 1967, non è né ubbidiente né disubbidiente nei confronti dell’autorità paterna e perciò, secondo lo studioso, presenta un carattere spiccato di alterità. Quest’ultima si configura come un’assenza di identità sociale: Julian rifiuta qualsiasi aspetto della sua vita borghese, incluso l’amore della giovane Ida, per ritirarsi a compiere infinitamente il suo unico atto d’amore, l’accoppiamento con i maiali. Se in tale atto è da intravedere appunto una marginalità sociale del personaggio all’interno della quale appare evidente la sua omosessualità, esso presuppone comunque anche una qualche forma di protesta, che emerge soprattutto durante il dialogo con Spinoza nel porcile (scena che sarà poi eliminata nella versione cinematografica). Secondo il filosofo, Julian una decisione, invece, la ha già presa da tempo, cioè quella di sparire, di rifiutare di sottoporsi al rutilante gioco spettacolare del potere che celebra i suoi fasti in una vera e propria catena di montaggio linguistica, in cui le battute si susseguono le une alle altre intervallate da espressioni come «urrà» o «trallallà», scegliendo la dimensione dell’afasia, definita dallo studioso come un vero e proprio spazio eterotopico. Nel frattempo, il Potere si ricicla, rinasce dalle sue ceneri: gli industriali della Germania del 1967 non sono altro che ex criminali nazisti votati alla civiltà dei nuovi consumi «nell’inferno del totalitarismo tecnocratico in cui si neutralizzano le diversità, falsamente accettate dal Potere mediante un’accorta politica di tolleranza fittizia». Julian, come il giovane cannibale che, nella versione cinematografica, viene condannato a essere sbranato dai cani, subisce un vero e proprio sparagmos, uno smembramento, «requisito necessario per la costruzione di una nuova immagine che sfugge ad ogni tentativo di contenimento entro sistemi organici».
La lente dello studioso, analizzando Porcile, si focalizza anche sulla presenza degli animali, nella fattispecie dei maiali. Questi ultimi assumono una doppia valenza: animali veri, come quelli che sono nel porcile, ma anche animali metaforici, «i padri capitalisti e borghesi, nel metaforico porcile della Germania neocapitalista». Se gli animali veri si situano al di là del male e del bene, su quelli metaforici ricadono invece gravi colpe. Inoltre, «l’animale in Porcile è il luogo in cui svelare i meccanismi su cui poggia la società capitalistica»: da questa stessa società, gli animali sono stati appiattiti nella funzione di materia prima dell’industria di macellazione di massa. In un mondo in cui il Potere si riveste cupamente di connotazioni totalitarie, in una orrenda continuità fra industrializzazione degli anni Sessanta e crimini nazisti, gli animali appaiono come le vittime innocenti imprigionate per essere spedite ai macelli, veri e propri nuovi lager contemporanei. L’autore ricorda in modo appropriato una lettera che Pasolini scrisse ad Anna Magnani, pubblicata su «Tempo» nel 1969, in cui il poeta paragona i vagoni fermi ai confini, pieni di animali destinati al macello, a quelli che trasportavano gli esseri umani verso i lager nazisti. Se nelle parole di Pasolini non emerge una vera e propria etica animalista, si può pensare a una volontà dello scrittore di «fare un ritratto dei totalitarismi soprattutto sulla base dell’equazione uomini-animali al macello». Del resto, si potrebbe ricordare anche un altro esempio, non riportato dallo studioso, in cui Pasolini riflette, mosso da una vera e propria pietas, sul destino degli animali destinati al macello. In Storia burina (1956-1965), un racconto che l’autore rielabora utilizzando la tecnica del non finito, poi incluso in Alì dagli occhi azzurri, spicca la descrizione delle vacche destinate al macello: «Venerdì, fiesta dell’Ammazzatore. Passano, passano, vacche magre, trasparenti, passano vacche secche come alici, passano in fila, trasparenti come l’osso, buone buone, con la morte negli occhi, come ubriachi che tornano la mattina accecati dal sole, bianche come uccelli della neve, e con le croste dello sterco sulle ossa che bucano la pelle tirata come la seta, passano masticando, masticando come per fare le indifferenti, ma sapendo bene quello che le aspetta, passano, passano come ombre cinesi bianche, come grandi pipistrelli bianchi che hanno preso la strada dell’inferno, mentre il sole non passa mai, nero come un toro sopra il monte di Testaccio».
Il saggio di Katsantonis, per mezzo delle sue originali e innovative intuizioni, fa venire delle idee: sicuramente un solido punto di forza per un lavoro critico. Allora, dalle suggestioni legate al confronto fra porcile e campi di concentramento, fra industria della carne e crimini nazisti, potrebbe venire in mente un paragone fra Porcile e Okja (2017), del regista sudcoreano Bong Joon-ho. In quest’ultimo film, i luoghi in cui viene imprigionato Okja, il «supermaiale» sottratto alla sua padroncina negli spazi incontaminati della Corea del Sud e condotto negli Stati Uniti, sono rappresentati come veri e propri nuovi campi di concentramento, circondati da filo spinato, in cui migliaia di «supermaiali» vengono portati alla morte. Anche Bong Joon-ho attua una riflessione sulle dinamiche di potere nella società tecnocratica: quello che decide di uccidere Okja è infatti il Potere delle multinazionali contemporanee, che agiscono nei tessuti più profondi della società per mezzo della digitalizzazione diffusa, capillarmente inserita nelle vite degli individui per mezzo di PC portatili, smartphone e tablet (oggetti assai presenti nelle immagini del film).
Nel capitolo finale del suo saggio, lo studioso affronta la tragedia pasoliniana Calderón ponendola a confronto non solo con La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, a cui lo stesso Pasolini si ispira, ma anche con Un sogno di Strindberg, un autore molto amato e frequentato dallo scrittore bolognese, fino al postumo Petrolio. Secondo Katsantonis, Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg, «si servono del sogno partendo da prospettive diverse e sono legati tra loro da un elemento strutturale: la simbologia carceraria del sogno». Nel dramma pasoliniano, ambientato nella Spagna franchista, Rosaura si risveglia dal metaforico sogno calderoniano aristocratica, sottoproletaria e piccolo-borghese. Se il sogno appare come una via di fuga dalle maglie del Potere, su di esso si esercita un controllo ‘carcerario’ attuato dallo stesso Potere: Rosaura si trasforma in un corpo marionetta di cui il Potere, rappresentato dalla figura di Basilio, il re padre padrone, regge i fili addirittura pilotandone i sogni. Il saggista si serve delle teorie di Goffman per analizzare le dinamiche messe in opera dalle stesse strutture di potere. Gli spazi in cui Rosaura si risveglia assomigliano alle istituzioni totali analizzate dallo studioso (i manicomi, le prigioni) e lo stesso personaggio assume le connotazioni di un internato. Come osserva Katsantonis, «in Calderón Pasolini mette in luce la sopravvivenza del sistema concentrazionario nelle società contemporanee; il grado zero della libertà individuale a causa dell’estensione del controllo capillare delle masse e della loro omologazione». D’altronde, il medesimo sistema concentrazionario si è messo in moto in occasione della recente pandemia da Covid 19, la quale ha messo in luce «il furore autodistruttivo del capitalismo, che non si ferma neppure di fronte alla prospettiva della vita abolita».
Un’immagine emblematica del potere che controlla gli individui, secondo lo studioso, è quella della marionetta. L’uomo è una marionetta (basti pensare a Che cosa sono le nuvole?), i cui fili sono tenuti da un Potere oscuro ed imperscrutabile che immerge gli individui negli inferni del cieco sviluppo, portato avanti ad ogni costo, deturpando la natura e gli scorci paesaggistici. All’interno di questo sistema di potere – osserva lo studioso – le stesse forze rivoluzionarie sono l’espressione di un illuminismo borghese che obbedisce agli schemi della dialettica servo-padrone. In questa dinamica rientrerebbe anche «l’avversione nutrita da Pasolini per il movimento studentesco» durante gli scontri del Sessantotto, tema, comunque, molto complesso, che meriterebbe ulteriori spunti di riflessioni. A mio avviso, infatti, Pasolini non aveva nessuna avversione per il movimento studentesco, anzi: l’intera poesia Il PCI ai giovani!!!, in cui il poeta prendeva posizione a favore dei poliziotti, andrebbe letta in una chiave ironica e autoironica, come scrisse lo stesso Pasolini. Si tratta di un pezzo di ars retorica, un testo provocatorio, che va letto al di là del suo significato letterale tanto che Pasolini, in una «Lettera al Presidente del Consiglio» uscita su «Tempo» nel settembre del 1968, definiva la Resistenza e il Movimento Studentesco come «le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano».
In definitiva, il saggio di Georgios Katsantonis risulta estremamente interessante perché srotola un tema, come quello delle dinamiche del potere nell’opera pasoliniana, anche oggi molto attuale, in un’epoca in cui lo stesso Potere cerca di controllare in tutti i modi la vita degli individui, anche in forma invisibile e spettrale per mezzo della diffusa digitalizzazione di massa. Ha inoltre il pregio di affrontare tre opere fondamentali del teatro pasoliniano in modo nuovo ed inedito, portando esempi, confronti, analisi comparate che mai erano state affrontate in precedenza e offrendo, come già notato, lo spunto per nuove analisi e riflessioni. Che non dovrebbero mai venire a mancare riguardo a una figura complessa e fondamentale come quella di Pasolini, a maggior ragione oggi che ricorrono i cento anni dalla nascita. Ricorrenza che però non dovrebbe soltanto comparire nelle sembianze di un salottiero ircocervo di accademiche celebrazioni fini a se stesse, ma dovrebbe rappresentare l’occasione per dare nuova vitalità a espressioni artistiche, teoriche e letterarie che provengano da una cultura dal basso e militante.