di Alexik
Sandra Berardi, Carcere e covid. Dalle fake news alle leggi emergenziali, Stampalternativa, Collana Strade Bianche, 2021, pp. 207.
Febbraio/marzo 2020, SARS CoV 2 comincia a correre nel nord Italia.
Un coro di padroni e di politici bipartisan intona “Milano non si ferma“, “Bergamo is running“, poco prima che il propagarsi esponenziale dei contagi determini un repentino cambio di direzione.
Il disastro si espande agevolato da decenni di disinvestimenti e blocchi delle assunzioni nella sanità pubblica, dal caos gestionale degli ospedali trasformati in centri di contagio, dall’indisponibilità a fermare da subito la produzione, dalle delibere che indirizzano pazienti covid nelle case di riposo per anziani.
Il Belpaese scopre con stupore di aver da tempo delocalizzato in Asia tutta la filiera dei dispositivi di protezione respiratoria. Apprende sbalordito che dopo otto anni di martellanti retoriche emergenziali su inesistenti epidemie di morbillo, i tre ministri della salute che si sono succeduti non sono stati in grado di far redigere un piano pandemico.
Una cacofonia mediatica di voci di esperti o presunti tali, capaci di affermare in poco tempo tutto e il contrario di tutto, genera un inevitabile e crescente impatto ansiogeno, mentre inizia una fitta decretazione d’urgenza che dispone zone rosse ma non dispone mezzi adeguati per il soccorso.
Velocemente si assiste all’estensione del coprifuoco ed alla militarizzazione progressiva di ogni angolo della società .
L’economia si ferma tentando di tutelare il grande capitale – dalle catene dei supermercati, all’industria pesante, alla costruzione di gasdotti – sacrificando preferibilmente le attività della piccola borghesia, di cui già dalla crisi del 2008 si è accelerato il processo di proletarizzazione.
I lavoratori vengono divisi fra chi – chiuso in casa – è privato del reddito e chi è costretto a rischiare la pelle nelle attività definite come essenziali.
Nel frattempo si susseguono disposizioni sanitarie tanto tassative quanto poco praticabili, dall’obbligo di mascherine che non si trovano, se non a prezzi altissimi, al divieto di assembramento che non può funzionare nelle fabbriche ancora attive, sui mezzi di trasporto per arrivarci, e soprattutto nelle galere.
Con la gestione emergenziale della pandemia, società e galera tendono ad avvicinarsi.
Dice Sandra Berardi, nel suo “Carcere e covid. Dalle fake news alle leggi emergenziali“:
“Assistiamo ad una trasposizione del linguaggio penitenziario, e delle relative modalità esecutive, alla società tutta, quella sorta di quarantena sociale che Michel Foucault individua come modalità disciplinante che il potere usa per permeare qualsiasi apparato sociale.
I dispositivi emergenziali che il Governo sta emanando preannunciano una compressione dei diritti che non è esagerato paragonare a quanto avviene con l’esecuzione della condanna penale, o con la sottoposizione a sorveglianza speciale” (p. 63).
Ma è nelle galere che la dimensione della catastrofe che attraversa la società si presenta in maniera più grave e amplificata.
Al 29 febbraio i penitenziari italiani contengono “61.230 detenuti totali a fronte di una capienza regolamentare di 50.931“. Di questi oltre un terzo sono in attesa della fine del primo grado di giudizio, mentre almeno la metà attende sentenza definitiva.
Ci sono “circa 10.000 persone in più rispetto ai posti letto disponibili “ufficiali” con un tasso di sovraffollamento medio pari al 120%”.
“A quanti non sono mai entrati in un carcere tocca fare uno sforzo di immaginazione per riuscire ad avere contezza di cosa possa significare vivere forzatamente in 10-12 persone nello stesso ambiente. Li chiamano “i cameroni”, celle di pochi metri quadri pensate per 4/6 persone al massimo con le finestre bloccate dai letti a castello a 3 o 4 piani; un unico bagno da condividere per i bisogni e la cucina di tutti“. (pp. 20/22)
Impossibile, in queste condizioni, applicare il distanziamento.
Con la pandemia in corso, le misure igieniche predisposte per questi spazi angusti, ammuffiti, fatiscenti e stipati di essere umani, sono quelle descritte da una lettera dalle Vallette di Nicoletta Dosio: “un bicchierino di sapone liquido ed una mezza bottiglietta di disinfettante per ogni cella (ci sono vietati i disinfettanti quali candeggina, alcool, ammoniaca). Quanto alle cosiddette mascherine, sono obbligatorie per gli avvocati, ma ne sono totalmente sprovvisti gli agenti (che pure vanno e vengono dall’esterno)“. (p.48)
Drammatiche le condizioni della sanità penitenziaria, anche nelle carceri dotate di SAI (Servizio Assistenza Intensiva), come quelli di Parma e Bari. A Parma il reparto clinico del 41bis, sbandierato come “eccellenza della sanità penitenziaria” consiste solo nelle bocchette per l’ossigeno nelle celle. A Bari visite ed esami diagnostici hanno tempi lunghissimi, il personale è carente, le patologie degenerano con gravi conseguenze.
In generale i detenuti sanno che in caso di contagio da covid 19 non potranno essere curati, così come non vengono curati normalmente.
La situazione richiederebbe misure reali di deflazione carceraria. Le associazioni garantiste le invocano urgentemente.
Ma la risposta del ministero della giustizia, guidato al tempo da Alfonso Bonafede, va in direzione esattamente contraria, in piena coerenza col furore giustizialista sul quale i pentastellati hanno fondato gran parte delle loro fortune politiche.
Scavalcato a sinistra in tema di garantismo persino dagli ayatollah iraniani (che nel marzo 2020 sospendono la pena a 85.000 prigionieri), Bonafede decreta la sospensione dei colloqui in presenza fra i detenuti e i loro familiari, sospende tutte le attività trattamentali, impedendo l’ingresso in carcere di educatori e volontari, e introduce la possibilità di sospendere i permessi premio e la semilibertà (che significa la perdita, per il semilibero, del lavoro esterno).
La decretazione di Bonafede ha l’effetto di una miccia accesa in una polveriera.
I primi a ribellarsi (il 7 marzo) sono i detenuti del carcere di Salerno. Per un eccesso di zelo, infatti, la direzione blocca i colloqui il giorno prima dell’entrata in vigore del decreto, mentre i familiari sono in fila davanti al carcere, molti dopo lunghe e faticose trasferte.
Dal giorno dopo rivolte e proteste attraversano da nord a sud 27 carceri italiane, lasciando sul terreno 13 prigionieri morti, 9 del Sant’Anna di Modena, con le modalità che su queste pagine abbiamo già avuto modo di descrivere1.
Sandra Berardi si concentra su ciò che accade dopo, e in particolare su uno stupefacente fenomeno di metamorfosi delle emergenze.
Se nella società fuori dalle mura l’emergenza sanitaria è stata ben presto trasformata in emergenza di ordine pubblico, la mutazione che interessa lo specifico delle carceri punta alla riedizione dell’emergenza mafia.
All’indomani delle rivolte prende infatti forma sulla stampa mainstream una narrazione delirante che legge l’esplosione di rabbia dei detenuti come frutto di una regia occulta, prima scomodando gli anarchici, per poi puntare con più decisione alle organizzazioni criminali.
Scompare, a fronte di tale narrazione, la ricerca delle cause delle rivolte nell’insostenibilità della condizione carceraria, nella paura per i primi casi di contagio dietro le sbarre e nelle disposizioni ulteriomente afflittive contenute nel decreto del governo, in assenza di qualsiasi reale misura di prevenzione.
I talk show cominciano a popolarsi di “imprenditori morali”, campioni di giustizialismo, professionisti dell’antimafia addestrati alla logica del nemico.
“Esperti” che interpretano la contemporaneità delle rivolte come prova indiscutibile di una direzione mafiosa, e non come reazione spontanea al decreto Bonafede, detonatore unificante del conflitto.
Si inventano che i detenuti di carceri lontane, sotto il comando dei boss, si sono certamente coordinati fra di loro grazie a telefoni cellulari clandestini, facendo finta di non sapere che le immagini delle rivolte hanno viaggiato per tutta Italia attraverso i TG, e che le carceri sono zeppe di televisori.
Il complottismo trova ampio spazio sulle pagine dell’Espresso e del Fatto Quotidiano, e nella trasmissione di La 7 “Non è l’Arena” – condotta da Massimo Giletti.
Aumenta la sua aggressività per fare da contraltare alle voci che da più parti richiedono l’attuazione di soluzioni alternative al carcere per anziani e malati, richiamando al rispetto del dettato costituzionale che afferma la preminenza del diritto alla salute sulla potestà punitiva.
Esplode letteralmente quando il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) emana, in una nota, l’elenco delle patologie/condizioni che rappresentano un rischio elevato per i detenuti in tempo di pandemia, al fine di permettere di valutare l’eventuale sostituzione della detenzione in carcere con quella domiciliare, in ospedale o comunità.
In seguito al passaggio ai domiciliari di un detenuto gravemente malato e prossimo al fine pena, gli “imprenditori morali” scateneranno una vera e propria campagna di “moral panic”, paventando la fake della liberazione di centinaia di boss mafiosi, sulla base di un teorema che riesce a riesumare finanche la trattativa stato/mafia:
“Lo Stato sembra essersi piegato al ricatto” – “Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte“, dice al fattoquotidiano.it il magistrato Nino Di Matteo. “E sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della Trattativa stato-mafia“(p. 142).
La canea giustizialista l’avrà vinta, in spregio alla Costituzione e all’autonomia della magistratura di sorveglianza.
Sotto le pressioni della campagna mediatica Basentini, il direttore del DAP, rassegnerà le dimissioni. Bonafede ordinerà l’ispezione negli uffici dei tribunali di sorveglianza responsabili delle poche scarcerazioni effettuate ed emanerà un decreto per annullarle.
Fra queste quella di Carmelo Terranova, dipendente da 10 anni da un respiratore, che il decreto riporterà in carcere a morire.
Il libro di Sandra Berardi è liberamente scaricabile qui.