Un’immane taciturna figura incombe sulla metropoli
di Graziella Pulce
Alias/il manifesto – 3 aprile 2004
Uno spropositato maiale si erge sulle sopraelevate della capitale, una sorta di King Kong incombente dal cielo, quasi luminoso nel suo rosa carne, mentre l’ambiente cittadino sottostante risulta in piena ombra nonostante il celeste innaturale del cielo. Questa la copertina. L’immagine è collegata con uno dei venti pezzi (graphic novel di Riccardo Falcinelli e Marta Poggi) che compongono La qualità dell’aria – Storie di questo tempo (a cura di Nicola Lagioia e Christian Raimo, minimum fax, pp.366, 13 euro), ed è da questo che può partire un discorso su un volume che nasce, spiegano i curatori-ideatori, dalla necessità di raccontare questi tempi e di farlo all’insegna dello stile.
Il primo connotato con cui il libro viene incontro è dunque quello di una sproporzione. Le dimensioni del suino superano ampiamente l’altezza dei palazzi, addirittura la raddoppiano. Quello che più o meno dal neolitico in poi è stato un animale allevato, ingrassato e curato quale preziosa riserva di cibo, è diventato dal Novecento l’emblema della più ottusa bestialità, cieca e ripugnante, che possa albergare sotto la cute umana. C’è da dire che questo maiale in copertina ha anche qualcosa di infantile e prepotente, e non parrebbe del tutto impossibile che sia stato tutto il ferrame della città (fatta di sopraelevate, automobili, lampioni, pali telegrafici) a essudare il mostruoso essere onirico. La città, del resto, sembra indefinitamente sospesa, come quando la porta si spalanca e viene intimato il classico “Freeze! Police!” e il personaggio ha una sola lunga frazione di secondo per decidere se squagliarsela facendosi ingoiare dalla terra o mettere le mani sulla testa e disporsi al combattimento.
Prendiamo questa raccolta di racconti come uno di quei documenti umani con cui naturalisti e veristi trafiggevano l’identikit di una intera classe sociale. I curatori riferiscono di aver sentito l’urgenza di raccontare cosa vuol dire essere capitati nell’occhio di quel ciclone che è lo “spirito sfranto” dei tempi e di avere quindi convocato una squadra per condividere il lavoro e l’impegno. Compito non da poco, quello di raccintare proprio il proprio tempo e che deva aver posto non poche difficoltà anche di ordine pratico a uno scrittore intenzionato a essere anche scrupoloso. Come che sia gli altri hanno accettato. Qualcuno di loro, chissà, stava lavorando intorno all’amore impossibile tra un triceratopo e uno pterodattilo o a una ricostruzione attendibile degli incontri tra Carlo Magno e il fantasma di Ermengarda. Niente da fare per ora. E invece tutti si sono messi a guardarsi intorno per prendere le misure di quello che è “la situazione” (per usare un termine che Ernesto Aloia ha utilizzato nel suo racconto, e non come un grimaldello, ma come una convincente mazza ferrata) del nostro tempo. Espliciti i tributi resi da Lagioia, Raimo e sodali ai numi tutelari dell’operazione: in primo luogo Arbasino, Bianciardi, Fenoglio, Pasolini, DeLillo, Sebald, Houellebecq, Marìas, Foster Wallace, Capote. In caso di burrasca, la consegna implicita è puntare su Bernhard o su Bukowski.
L’oggetto privilegiato, quello che sta in primo piano, è rappresentato da alcuni temi cruciali se non fatali che hanno toccato e toccano da vicino l’assetto delle civiltà occidentali: il rapporto tra lo Stato e i cittadini, le lotte sindacali, gli anni di piombo, la corruzione di pubblici funzionari, le battaglie di una donna in carriera, l’impero delle pubblicità. Eppure questi racconti dicono molto di più di quello che non appaia dal discorso strettamente e coerentemente organizzato per trattare il tema. Dicono, ad esempio, che questa è una società piena di televisioni, di call center e di internet cafè, di viaggi in macchina estenuanti e di altrettanto estenuanti ricerche di parcheggio, di donne ricche (da sposare) e di donne povere (da lasciare), di sistemi di controllo che si fanno sempre più invasivi, di lavoro precario e di situazioni sociali e personali conseguentemente ingarbugliate. Per questi scrittori – la maggior parte di loro non ha ancora compiuto i quarant’anni – gli anni settanta sono quasi archeologia e il problema del momento risulta piuttosto quello di come districarsi dalla melassa del già detto e già visto, bucare la pellicola, emergere in modo convincente (con i rischi di autolesionismo individuati da Serafino Murri).
Peraltro, gli insight di Laura Pugno, gli astratti furori di Antonio Pascale, la mistica del disadattamento di Tommaso Pincio, gli sgomenti scettici, esilaranti e tragici, di cui si sostanzia il romanzo di Leonardo Pica Ciamarra, alludono a un confronto con la realtà risolto con un decollo, dal piano del tema posto come obiettivo all’obliquo di una scrittura che comincia a seguire una strada tutta sua e se ne corre appresso alle parole e ai loro implacabili “nomoi”.
Viene da osservare che in questi pezzi (dove talvolta un’ansia didascalica rischia di schiacciare la scrittura) è imminente una figura antagonista e che questa figura, di proporzioni immani e indefinite, è fondamentalmente taciturna. Chiuso il libro, resta nell’aria un suono molteplice e indistinto, senz’altro poco rassicurante. Emanuele Trevi non esita e invocare Pasolini e la sua diagnosi di genocidio antropologico (e qui la “situazione” è diventata inequivoca “patologia sociale”). Non è un caso che molti di questi scritti mettano in scena l’impossibilità di un incontro, giacché l’altro si sottrae al riconoscimento o al confronto. Al centro dell’operazione c’è dunque il desiderio, il bisogno di una forma, e “forma” è una delle parole che più ricorrono, usata sempre a marcare un’esigenza (etica) sostanzialmente inappagata. Le narrazioni si dispongono intorno a un’assenza, una forma vuota, e quella che Gabriele Pedullà vede a Mosca non è altro che il doppelganger del cratere di Ground Zero, motivo su cui si innesta il pezzo di Andrea Piva.
Questi giovani narratori non hanno vissuto in prima persona nessun 25 aprile e nessun 8 settembre, ma hanno visto il crollo delle Torri, e prima di quello altri crolli e altri azzeramenti. Ed è di queste aree smarginate e cave che le loro pagine, e la loro grinta, continuano a parlare.