di Giorgio Bona
Per gli Stati Uniti la battaglia di Alamo, avvenuta nel 1836 tra i messicani e duecento coloni texani per l’indipendenza del Texas, costituisce uno dei miti fondanti del paese.
Alamo era una missione coloniale spagnola sorta per opera dei francescani che si avvalsero della mano d’opera degli indios per costruirla a poche centinaia di metri dai primi insediamenti da San Antonio. Diventò poi Fort Alamo soltanto in seguito agli scontri tra messicani e statunitensi.
Fu un elemento chiave della rivoluzione per l’indipendenza del Texas e racconta di un assedio di ben 13 giorni cui le truppe messicane guidate dal Presidente e Generale Antonio Lopez De Santa Ana sottoposero la missione.
La storiografia americana riporta nella sua epopea leggendaria la crudeltà di Santa Ana, fonte ispiratrice dei coloni texani e avventurieri che partirono per unirsi ai volontari in difesa della missione.
Qui si fonda uno dei grandi miti americani, un grande vessillo sventolato in onore della libertà che vuol nascondere la politica imperialista già in atto da lungo tempo e che aveva bisogno di creare quei falsi miti per innalzare la sua bandiera. È nei morti di quella battaglia, morti considerati eroi, che gli Stati Uniti individuano l’essenza della nazione.
Ma cosa è successo veramente ad Alamo da giustificare quelle morti?
La storia va avanti a raccontare che senza il sacrificio di Alamo non ci sarebbe stata la battaglia di San Jacinto che segnò la vittoria contro i messicani e senza quella vittoria il Texas non avrebbe raggiunto l’indipendenza, conquistato la sua libertà e addirittura non sarebbe mai esistito.
Considerando che nella battaglia nessuno sembra sopravvissuto, per cui non esistono testimonianze dirette che potessero essere tramandate, si è potuto facilmente uscire da quella che poteva essere la storia reale e assoggettarla alle esigenze che il potere chiedeva. Certo non mancarono voci discordanti e proprio all’interno del bel paese, da far passare la vicenda di Alamo non come un sacrificio eroico e un’impresa di straordinaria grandezza.
Servì a questo scopo per giustificare il sentimento di odio e il razzismo nei confronti del popolo messicano e per giustificare il genocidio nei confronti di quella popolazione, tanto che, come riporta Pino Cacucci nel suo Quelli del San Patricio, il presidentissimo Abramo Lincoln tenne un durissimo discorso al Congresso affermando che gli Stati Uniti avevano condotto una guerra innecessaria e incostituzionale, contraria ai principi fondatori della nazione.
Ma ecco come si mutò tutto per creare quei falsi ideali dentro un mito che innesca la morale di quei grandi valori sociali partendo dal un fatto reale e poi demistificandolo.
Una battaglia che si è conclusa con una sconfitta che ha esaltato il sentimento patriottico e il valore della libertà, e dove sono stati scritti migliaia di libri e la filmografia di Hollywood non si è certo tirata indietro a ricostruire secondo la sua visione quella vicenda che per la storiografia messicana fu soltanto un episodio, una vittoria senza seguito.
Sulla battaglia di Alamo, Hollywood ha fatto una produzione molto ampia. Si cominciò con The immortal Alamo di William F. Haddok, un film prodotto in Texas da Georges Melies ed era un cortometraggio muto del 1911 conosciuto anche con il titolo Fall of the Alamo.
Seguì esattamente quattro anni dopo, nel 1915, Sotto l’unghia dei tiranni diretto da Christy Cabanne, film muto di 71 minuti che raccontò la disperata resistenza di 183 volontari contro un esercito formato da 6500 messicani guidati dallo spietato dittatore Santa Ana.
L’ultimo risale al 2004 con Alamo – gli ultimi eroi e prova a descrivere in modo dettagliato la guerra fino alla resa di Santa Ana. Ma anche in questa versione le ragioni della ribellione texana non vengono spiegate e non sono molto chiare.
Il film sicuramente più celebre fu La battaglia di Alamo diretto e prodotto dall’eroe della filmografia americana John Wayne, che interpretò la parte dell’eroe più conosciuto di quella battaglia, Davy Crockett. Qui il più sfacciato rappresentante del grande mito americano, quello della conquista e dell’espansione nell’ovest selvaggio a portare la civiltà, con il lungo e costosissimo film propagandò in modo spettacolare i valori eroici che avevano portato alla costruzione del grande paese. Un’altra incredibile versione dove in primo piano si rispecchiavano le grandi tradizioni della storia americana che raccontava la volontà dei texani di liberarsi dalla dittatura di Santa Ana.
E come è possibile raccontare o demistificare la realtà storica quando la storia diventa lo strumento con cui le classi dominanti tengono il potere senza rappresentarla attraverso eroi o miti le cui figure reali sono raccontate all’opposto di quello che furono nella realtà? La storia americana ne è piena.
John Wayne nel suo film scelse la figura di Davy Crockett, sicuramente il personaggio più famoso, già protagonista di film e di libri che ne decantavano gesta straordinarie. Credo sia stata una scelta fortemente voluta perché Davy Crockett, rispetto agli altri due eroi protagonisti, Jim Bowie e William Travis, esalta maggiormente il prototipo dell’eroe americano, generoso, temerario, senza macchia e senza paura con un senso della giustizia e del valore della libertà moralista fino all’estremo.
John Wayne rappresentò un uomo perfettamente allineato e si prestò in soccorso del mito appoggiato da alcuni padroni texani che contribuirono a finanziare il film, a patto che fosse girato nel Texas, terra di forte immigrazione dove i messicani che attraversano il Rio Grande in cerca di miglior vita nel Bel Paese non sono certamente trattati meglio dei loro predecessori di quasi duecento anni fa.
Che dire degli eroi conclamati di questo fatto storico così importante? Davy Crockett fu certamente il più famoso: la leggenda narra che all’età di tre anni avrebbe ucciso un orso, che all’età di nove anni scappò di casa vagabondando di villaggio in villaggio. Di lui è sicuro che a 27 si arruolò nella frontiera per combattere gli indiani creek. Ecco un eroe della frontiera con la sua carabina che si chiamava “Betsy”, fedelissima compagna, in testa il cappello in pelle di procione con coda penzolante, alla guida dei “Volontari a cavallo del Tennessee” calato già nei panni del personaggio famoso a combattere per l’indipendenza del Texas.
Meno celebre ma in egual misura vittima del suo mito fu Jim Bowe, la cui famiglia, originaria del Kentucky, era nota per il maggior numero di schiavi posseduti. Ma cosa si dice di questo eroe per farlo entrare nel mito? Qualcuno racconta che il giovane Jim, quando la famiglia si trasferì in Louisiana, prendeva al lazo i coccodrilli, domava cavalli selvaggi e cacciava orsi. La sua fama crebbe mostrando una straordinaria abilità nell’usare il coltello, un coltellaccio da macellaio, un mezzo machete, una lama affilata e seghettata lunga circa con cui sfidava banditi armati fino ai denti.
E non poteva mancare la figura di un aristocratico come William Barret Travis, nato in Carolina del Sud e con la famiglia emigrato in Alabama. La sua famiglia si dedicava alle piantagioni di cotone che coltivavano gli schiavi presi a noleggio o in prestito. Cominciò a gestire pratiche improvvisandosi come avvocato e si occupava di un giornale che editava lui stesso. Collezionò fallimenti su fallimenti finchè abbandonò la moglie incinta di cinque mesi per trasferirsi in Texas.
Invece la storiografia messicana fu ridotta ai minimi termini, mentre sarebbe stato interessante raccogliere le testimonianze dei contadini messicani rimasti nel Texas dopo l’indipendenza, e sentire una loro versione probabilmente differente.
Nel suo libro El Alamo, costato sei anni di meticolose ricerche d’archivio, lo scrittore Paco Ignacio Taibo II riporta la frase di una canzone del film di John Wayne: “lottarono per darci la libertà e questo è tutto quello che abbiamo bisogno di sapere”.
Niente di più lontano dalla verità, e dalla realtà. Molto di più.