di Alberto Giovanni Biuso
Tomás Ibáñez, L’anarchia del mondo contemporaneo, Trad. di Giuliana Zeppegno e Valeria Giacomoni, elèuthera, Milano, 2022, pp. 270, € 16,00
L’anarchia va sempre declinata al plurale. A esistere, sia nel passato sia nel presente, sono infatti una molteplicità di anarchismi che sono per definizione e natura liberi da dogmi ideologici, linee di comando, ortodossie di qualunque natura, modelli organizzativi stabili. Movimenti, filosofie, individui che si definiscono anarchici hanno avuto e hanno solo un elemento veramente in comune: «l’insolita attitudine di non volere né obbedire né comandare» (p. 237). Per il resto l’anarchismo è differenza, è molteplicità, è rifiuto del dominio, è divenire, è incessante mutamento. La rivoluzione che esso attua non sta alla fine di un qualche percorso, non è una meta alla quale sacrificare il presente, ma è qui e ora «in ogni atto di insubordinazione che realizziamo» (p. 268). L’anarchismo si dà anche oltre e al di là dei movimenti anarchici, delle sigle, delle strutture nelle quali si è organizzato e si organizza.
La libertà, cuore e senso di qualunque prospettiva anarchica, è un processo, non una sostanza. La libertà non è, la libertà accade. La libertà sono le tante e differenti pratiche di libertà che individui e gruppi riescono a realizzare, a vivere, a essere, contro il dominio che è altrettanto polimorfo e molteplice.
Il dominio non è sinonimo di potere, lo Stato non coincide con il dominio. Potentia è la capacità implicita di condizionare l’ambiente in cui si vive con la sola nostra presenza; potestas è un condizionamento esplicito – nei suoi diversi gradi – esercitato sull’esistenza di altri umani, che dunque devono sempre mantenere un margine di autonomia affinché il potere possa in esso agire; dominio è il dissolvimento di tale margine nell’assenza della libertà. Si può esercitare potere soltanto su persone ancora libere, si pratica il dominio dove ogni libertà è scomparsa. Ecco perché il potente nel senso di Elias Canetti è in realtà un dominatore, perché il suo sogno è dominare su un corpo sociale ridotto a cadavere. Lo Stato è una delle possibili strutture del potere ma «a cosa ci servirebbe una società senza Stato se al suo interno continuassero a esistere rapporti di dominio? E in fondo che importanza avrebbe per noi la scomparsa dello Stato se il dominio persistesse?» (p. 142).
Il dominio è autonomo dall’esistenza di uno Stato. Nel XXI secolo esso si esercita soprattutto negli ambiti dell’economia/mercato e della scienza/medicina. «Oggi un complesso dispositivo che combina nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive (NBIC) offre una doppia linea di applicazione che la potentissima industria medica ha già iniziato a sfruttare» (p. 212), come implementazione tecnico/finanziaria delle possibilità di controllo create, realizzate e rese pervasive dai saperi scientifici e dalle pratiche tecnologiche.
Tra tutte le retoriche autoritarie, quella «sviluppata dalla scienza ha raggiunto una posizione egemonica, trasformandosi nella più potente di tutte le retoriche della verità presenti nelle società moderne, e i suoi effetti di potere sono evidentemente all’altezza di tale potenza» (p. 191), tanto da rendere necessario per gli anarchici e per ogni persona che voglia mantenere un barlume di libertà «combattere in modo risoluto le pretese della ragione scientifica e contro gli inganni di cui essa si avvale per farci credere che non abbiamo altra scelta che sottostare al suo dominio» (p. 200).
E questo vuol dire, in ambito filosofico, che ogni pretesa di verità deve essere ricondotta nei suoi limiti, alla sua intrinseca relatività. Il relativismo etico e politico è inseparabile da una prospettiva veramente anarchica, poiché il relativismo «sostiene che nessun valore è incondizionato, ovvero valido in sé e per sé, che tutti i valori sono generati dalle nostre pratiche e che tutti sono perfettamente equivalenti dal punto di vista della loro comune mancanza di fondamenti ultimi» (p. 27); lo conferma il dato storico per il quale le vicende umane più distruttive sono state rese possibili là dove si è creduto a una verità assoluta, fuori dal tempo, salvatrice della storia. «Di certo i maggiori pericoli non provengono dagli attacchi alla verità ma dalla fede nella verità, che la sua origine sia la religione, la scienza o qualunque altra istanza» (p. 192).
Questa assenza di fondamenti assoluti fa sì che l’anarchismo non reputi di per sé buona o cattiva la natura umana ma propenda piuttosto per una naturacultura che non separi l’evidente necessità biologica alla quale è sottoposta anche la specie umana e la potenza delle strutture ambientali che rivolgono tale dimensione in una direzione piuttosto che in altre.
L’anarchismo cerca di indirizzare ‘natura’ e ‘cultura’ verso l’autonomia, l’autogoverno, la costruzione di ambienti interiori e collettivi sani, liberi dal dominio; cerca soprattutto di impedire l’instaurarsi della peggiore servitù, quella volontaria, che oggi ha assunto l’aspetto della governance. Parola e struttura, questa, ancora una volta ideologica, tesa a nascondere ciò che con grande chiarezza Ibáñez definisce una nuova forma di totalitarismo, la quale può essere descritta con maggiore esattezza come un biototalitarismo.
Esso è costruito su elementi quali «sorveglianza generalizzata, trasparenza totale, completa tracciabilità, accumulazione illimitata dei dati, incrocio costante dei dati raccolti, analisi del DNA, intrusione legale dello Stato nella nostra privacy, auto-esposizione volontaria delle nostre storie ecc.» (p. 65).
Il momento, l’occasione, l’evento che sta rendendo visibile e possibile l’utilizzo di tali strumenti per un controllo talmente pervasivo da non essere stato vissuto da nessuna società umana precedente la nostra è stato ed è l’epidemia Sars-Cov2, nella quale vengono sperimentate «in modo capillare le procedure con cui controllare la popolazione, attraverso la raccolta massiva di dati, l’elaborazione di conoscenze esperte sulle sue caratteristiche e dinamiche, nonché sul grado di sottomissione che è disposta ad accettare senza opporre troppa resistenza o addirittura offrendosi per essere guidata ancora più strettamente, sorvegliata ancora più attentamente e multata ancora più severamente (sempre per il suo bene, ovviamente…)» (p. 253).
Accade che «l’insicurezza propria della società del rischio stia spingendo la popolazione a tollerare, o addirittura a pretendere, una restrizione delle proprie libertà, a normalizzare lo stato d’eccezione permanente» (pp. 202-203). Di fronte a una tale potenza degna davvero del Leviatano, è necessario «che l’anarchismo debba urgentemente mettere in cima alla sua agenda la necessità di lottare con tutti i mezzi contro questo totalitarismo di nuovo tipo che minaccia l’umanità. […] Risulta fondamentale portare avanti un’ampia campagna di sensibilizzazione sulla reale minaccia che costituisce questo nuovo tipo di totalitarismo e smontare nell’immaginario collettivo la convinzione della sua legittimità a causa delle paure suscitate dal COVID-19 e da altre future pandemie» (p. 257).
È dentro l’epidemia, è nell’ambito del potere che cerca di penetrare letteralmente dentro i corpi dominati, che risulta più chiaro un altro elemento che ha sempre contraddistinto i movimenti e gli individui libertari: l’inseparabilità di pensiero e azione, la continuità tra elaborazione politica e pratiche politiche quotidiane. Ibáñez parla giustamente di «anarchismo esistenziale» (cap. XIV), della fusione «tra la sfera della vita e la sfera della politica, che smettono quindi di essere separate: il modo di essere e il modo di vivere si trasformano così entrambi in armi contro il sistema, in strumenti di lotta politica» (p. 267).
Come si vede, nelle elaborazioni attuali e più mature dell’anarchismo non si danno illusioni ma invece la consapevolezza di quanto massicce e pervasive siano le strutture di potere e però come costante debba essere l’impegno per ridurne il danno. «Si potrebbe dire che non è mai esistito uno stato di libertà in quanto non viene mai raggiunto, perché la libertà esiste soltanto nel percorso per raggiungerla e può essere sperimentata solo nell’opposizione al dominio» (p. 186).
La libertà è asintotica, mai compiuta, ma proprio per questo è sempre reale, è sempre possibile.