di Francisco Soriano
Il 13 marzo del 2013 fu proclamato, come successore di Josef Ratzinger, l’argentino Jorge Mario Bergoglio. Tutte le comunità “progressiste” dell’emisfero ne furono entusiaste. Oggi, dopo tanti anni del suo pontificato, molti sostenitori si dicono delusi dall’opera del pontefice assiso sullo scranno di Pietro. Erano state usate parole impegnative e le aspettative aumentavano ogni qual volta, il buon Bergoglio, alternava frasi ad effetto e fantasmagoriche prese di posizione sui “temi sociali”. Le sue esternazioni, dunque, sembravano aver creato un entusiasmo oggi soffocato: le promesse hanno pian piano manifestato una certa inconsistenza perché sempre più distaccate da una tangibile attuabilità, dando al contrario la sensazione di aver tradito le aspettative di cambiamento.
La prima dichiarazione reboante fu pronunciata sul volo di ritorno dal viaggio trionfale a Rio de Janeiro, il 13 luglio del 2013: “Se una persona è gay e cerca il signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla”. A ben giudicare però, dai comportamenti successivi, Bergoglio ha dimostrato una buona dose di inadeguatezza nell’affrontare e dirimere questioni sui diritti degli omosessuali e delle comunità Lgbt. Il papa si è trincerato in un assoluto immobilismo o, addirittura, si è distinto per puntualizzazioni dichiaratamente omofobe e oscurantiste. Già quattro anni fa il teologo polacco Krzystof Charamsa (La Chiesa omofoba di papa Bergoglio – MicroMega 4/2018, pp. 70-80) affermava di come, il “papa rivoluzionario”, nei due sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015 non si sia mai pronunciato “sul riconoscimento della piena legittimità dei legami affettivi tra persone dello stesso sesso e al loro diritto di costituirsi in famiglia”. Nell’esortazione apostolica postsinodale, “Amoris Laetitia”, si è addirittura affermato che “non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia” (Relatio finalis, 2015).
Quanto la retorica populista abbia invaso ogni angolo delle nostre società è cosa abbastanza visibile. La Chiesa ufficiale cattolica non sembra essere esente da una certa propensione a forme di pubblicità ingannevole. Già il suo predecessore conservatore e paladino di una inesorabile regressione sul tema dei diritti delle persone, Benedetto XVI, aveva preso posizione in tema di omosessualità nella Chiesa. Senza nulla mutare, con la “Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis” dell’8 dicembre 2016, nel pieno del pontificato di Bergoglio, la “Congregazione per il clero” ha inesorabilmente stabilito il “divieto di ammissione all’ordinazione sacerdotale delle persone omosessuali”. Viene così esclusa dall’esercizio della fede una categoria di persone perché marchiate in base al loro orientamento sessuale. In questo modo il papa ha consentito e rafforzato l’indirizzo particolarmente omofobo, già sancito dal “Catechismo della Chiesa cattolica” del 1997, che definisce l’omosessualità come un “disordine morale contrario alla sapienza di Dio”. Papa Bergoglio, infine, ha seguito le direttive della “Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali”, già emanate da Josef Ratzinger nel 1986, in cui si asserisce che “l’omosessualità in nessun caso può essere approvata”.
Lo smascheramento del marketing di Bergoglio in senso “rivoluzionario” non ha resistito quando i nodi sono venuti al pettine, in più occasioni e su questioni che riguardano i diritti di intere categorie di persone. La nota sul Ddl Zan ha portato alla luce la vera natura del suo pontificato che, non solo non differisce di una virgola da quanto fatto dai suoi predecessori, per alcuni aspetti si è dimostrato ancora più conservatore. L’intervento della Segreteria di Stato, sezione per i rapporti con gli Stati al Ddl Zan, non si è fatto attendere per immediatezza nella dialettica che la legge aveva acceso. La citata istituzione vaticana rivolgendosi all’Ecc.ma Ambasciata d’Italia ha fatto riferimento al disegno di legge N. 2005 (recante “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”), così affermando: gli esperti prelati focalizzano il proprio disaccordo su alcuni contenuti dell’iniziativa legislativa nella parte in cui si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”. Le disposizioni, secondo la Chiesa, avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente “regime concordatario”. Pertanto, l’Italia verrebbe meno al patto sancito in un Concordato che, forse, come sostengono legittimamente i sostenitori di uno Stato finalmente laico, sarebbe anche il caso di ridiscutere. Per il pontefice e i responsabili della Chiesa ci sono “espressioni della Sacra Scrittura, delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile, perché derivata dalla stessa Rivelazione divina”. Infatti con la visione etica contenuta nel Ddl Zan si ritiene che, lo Stato italiano metta in crisi i valori fondanti della nostra società, specificamente all’articolo 2, comma 1 del Concordato, punto in cui si afferma che “la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale, nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. I prelati ricordano, inoltre, l’articolo 2, comma 3, in cui si dice che “è garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Pertanto la Segreteria di Stato non solo è intervenuta in disaccordo con il dispositivo Zan, ma si è anche augurata una “diversa modulazione del testo contenente la norma”.
Il provvedimento annunciato ha prodotto varie critiche, anche nei confronti delle fattispecie comprese negli articoli 602 bis e ter del Codice penale, cioè nella previsione di quei reati “contro l’uguaglianza”, dove si sanzionano l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È effettivamente una dinamica molto importante all’interno del dispositivo. Infatti, secondo i giuristi del Vaticano, anche in questo caso il Ddl Zan integrerebbe queste previsioni con le discriminazioni fondate su “sesso, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità”. Su questo punto, ripeto, molto delicato, il testo legislativo italiano prevedeva un articolo definito “salva idee”: il 4. Infatti, in quest’ultimo articolo si stabiliva che: “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Non si può negare che il concetto “salva idee” sia effettivamente flessibile e potrebbe essere considerato “fragile”, proprio perché si potrebbe ritenere che l’idoneità a determinare il “concreto pericolo del compimento di atti discriminatori” da parte di un’idea espressa, rimane determinabile con una certa difficoltà e sicurezza: qualsiasi organo giudicante avrebbe la “discrezionalità” di giudicare. I prelati giuristi infatti facevano rilevare come, con questa idea, potrebbero finire nella previsione di illiceità anche le omelie dei sacerdoti, soprattutto (e questo il punto più dolente per la Chiesa), le attività culturali e sociali dell’associazionismo cattolico salvaguardato dal Concordato. Il punto è la libertà di espressione, ma anche il divieto di discriminare e offendere sensibilità e diritti altrui. Su questo si è impantano il tutto senza trovare un reale sbocco o punto di mediazione. I diritti delle persone che subiscono abusi, violenze e offese deve essere garantito e tutelato. La Chiesa però non accetta nello specifico, e in questo davvero si rileva una posizione oscurantista, che si metta in discussione il primato della famiglia naturale, inamovibile nei suoi principi e valori fondanti, inclusi quelli riguardanti la libertà degli omosessuali e la legittimità di essere tutelati.
Fra le questioni più spinose, dunque, non solo l’omosessualità, ma anche la pedofilia. Le parole pronunciate dai componenti della Congregazione per la Dottrina della Fede e quello che emerge dal docufilm “Francesco” di Evgeny Afineevsky, presentato al Festival del cinema di Roma (ottobre 2020), sono evidenti. Il gesuita Ladaria Ferrer, ad esempio, nega che la Chiesa possa “impartire la benedizione a unioni di persone dello stesso sesso” e, aggiunge, che Papa Francesco condivide “e ha dato il suo assenso” al “responsum” della Congregazione: “Poiché le benedizioni sono in relazione coi sacramenti”, le unioni gay sono illecite perché costituirebbero “un’imitazione o un rimando di analogia con la benedizione nuziale”. Tuttavia, la suddetta Congregazione per la Dottrina della Fede “accetta” che vengano impartite benedizioni alle persone con inclinazione omosessuale, “ma dichiara illecita ogni benedizione che tenda a riconoscere le loro unioni”. Con una buona dose di ipocrisia, allora, si cerca di accontentare tutti. Da scoprire la figura di Ladaria Ferrer: il citato prelato è un uomo di fiducia di Bergoglio e ben ne interpreta gli indirizzi teorici di chiara impostazione medievale. Fra gli incarichi del papa a Ladaria come fidato teorico e collaboratore della Chiesa si ricorda, nel 2016, la nomina a capo di una commissione incaricata di studiare la questione del diaconato femminile, un ordine assolutamente inferiore a quello di presbitero riservato ai maschi ma, un tempo, secondo interpretazioni recenti anche alle donne. Guarda caso la commissione si è espressa con un parere contrario all’accesso delle donne alla funzione presbiteriale: secondo gli studi di Ladaria, all’origine della chiesa, quella fra donne e uomini non era una reale parificazione fra diaconi maschi e femmine. Sull’Osservatore romano, inoltre, egli definiva questa teoria dell’uguaglianza “solo una confusione in testa ai fedeli”. Dichiarazioni pronunciate con il placet di Bergoglio. Inoltre, un fatto molto rilevante che colpisce il ministero di Ladaria avviene nel marzo del 2012. Egli firma insieme al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinal William Levada, un decreto di condanna allo stato laicale per un sacerdote, tal don Giovanni Trotta. Quest’ultimo all’epoca svolgeva la sua funzione sacerdotale a Foggia e veniva accusato di gravi reati di pedofilia. Il decreto ha avuto diverse interpretazioni: cioè come un atto effettivamente punitivo da parte dei prelati verso Trotta e, al contrario, come una azione protesa a tutelare, in fin dei conti, il prete pedofilo. Di sicuro nel decreto vi è e si legge chiaramente una preoccupazione impellente, addirittura riportata per iscritto: la condanna di Trotta “non deve generare scandalo tra i fedeli”. Il fattaccio rimane infatti abbastanza silenzioso fino a quando, il Trotta, reinventatosi allenatore di calcio giovanile viene accusato di aver abusato di una decina di bambini fra gli 11 e i 13 anni. Il succitato verrà successivamente condannato a venti anni di detenzione da un tribunale italiano. La stessa obiezione viene fatta a Ladaria quando si è venuto a conoscenza di una lettera, del 2015, al cardinal Philippe Barbarin vescovo di Lione, in cui vi era contenuta una risposta (mai definitivamente svelata), alla richiesta-istruzioni nei confronti della Congregazione per il “modo in cui ci si sarebbe dovuti comportare” nei confronti di un altro sacerdote, Bernard Preynat, denunciato per casi di abusi sui minori, reati già taciuti da anni. Ladaria impone ancora una volta il silenzio e, soprattutto, di non pubblicizzare il caso: “Eminenza – questa Congregazione, dopo aver studiato attentamente il caso del sacerdote della vostra diocesi, Bernard Preynat, ha deciso di affidarle il compito di prescrivere le misure disciplinari adeguate, evitando scandali pubblici. Fermo restando che in queste condizioni non può essere affidato un altro ministero pastorale che includa eventuali contatti con i minori”. Migliaia di casi di pedofilia sono stati denunciati e, Bergoglio, effettivamente investito da una massa incredibile di reati in tutte le latitudini del mondo, ha trovato difficoltà a fronteggiarli. Molto spesso però, al declamato pugno duro, si sono alternati casi già tristemente conosciuti come tentativi di insabbiamento o, nei casi più gravi, di aver trovato soluzioni che non punissero effettivamente le persone a cui venivano addebitati, con prove insindacabili, questi atti ripugnanti. Con Bergoglio vi è stato un accentramento di tutte le indagini presso la sede del Vaticano, in diverse centinaia, con punizioni per i responsabili con il mezzo della rimozione dagli incarichi, ma rimane il dubbio per le innumerevoli reticenze sulle reali condizioni della loro punibilità e risarcimento dei danni dove era possibile. I casi di violenza infatti sui minori sono regolamentati dall’Istruzione crimen sollicitationis del 1962 e dalla lettera del maggio del 2001, “De delictis gravioribus” del cardinale Ratzinger, allora capo della Congregazione in cui si stabilisce, guarda caso, il principio di “assoluta riservatezza dei processi interni alla Chiesa per i casi di pedofilia, ma soprattutto l’estensione del vincolo di segretezza della confessione anche fuori dall’ambito specifico della confessione stessa”. Il problema è che tutto ciò che accade nell’ambito della relazione personale fra il sacerdote e il minore è vincolato dal sigillo sacramentale della confessione, che si applica nei confronti di entrambi. Il punto ignominioso, ci pare di poterlo definire in questo modo, resta che la vittima della violenza è obbligata a starsene zitta senza potersi rivolgersi alla “giustizia secolare”, con la incombente pena della scomunica. Fatto gravissimo da sottolineare è che, nel 2014 (e non sembra che siano avvenuti cambiamenti), il Vaticano si è rifiutato di rendere nota la lista con i nomi di circa 900 sacerdoti pedofili (in questo numero vi è la accertata confessione di oltre 200 stupri) al Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e al Comitato ONU contro la tortura. Un atteggiamento raccapricciante, colpevole e imperdonabile del Vaticano. Inoltre, il Comitato ONU aveva fatto richiesta di chiudere i seminari dove i minori, con statistiche alla mano, avevano subito le violenze, suggerendo garanzie per la loro incolumità: da allora nulla è stato deciso in Vaticano, anche perché nel settembre del 2017, la Santa Sede avrebbe dovuto presentare a Ginevra il dossier che provava l’avvenuta formulazione di leggi che tutelassero i più deboli nel caso specifico della pedofilia, ma fino ad ora ciò non sembra essere avvenuto.
Tornando brevemente alla mediatizzazione della figura di Bergoglio (alcuni sostengono addirittura più di Giovanni Paolo II che nella storia di questo pianeta è ben ricordato per aver abbattuto i regimi comunisti dell’est Europa), si è ricorso al cinema, affidando la figura del papa alla visione di un film-documentario con la regia di Evgeny Afineevsky. La scelta di contenuto è di una costruzione complessa del film con interviste e interventi di molte personalità, inclusi rabbini e laici, con l’inserimento dei tweet di Bergoglio, scene girate in passato in originale e quant’altro. Il film si dipana dall’infanzia del papa alle tematiche ambientali su cui Bergoglio dirige sapientemente le sue attenzioni, rimproverando lo sfruttamento delle risorse e le distorsioni di un capitalismo sempre più aggressivo e permeante. Purtroppo, senza suggerire soluzioni davvero risolutive e lasciando il tutto in una soluzione mai strutturata e congeniale alla soddisfazione dei bisogni delle persone duratura nel tempo, ci si limita alla carità che, alla stregua dell’elemosina e di cose affini, è molto in armonia con i sistemi di sfruttamento capitalistici. È una terza via senza entusiasmi, piena di buoni propositi e appelli alla pace, all’amore e alla libertà mentre il tutto procede speditamente fra acclamazioni e commosse pratiche di pubblicizzazione senza alcuna possibilità di essere tradotto in qualcosa di visibilmente positivo. Il regista di origini russe, tuttavia, più volte sembra soffermarsi nel film al tema delle unioni civili, ai poveri della Terra, ai migranti e ai criminali di Buenos Aires. La sensazione è che in una multiforme rappresentazione di tematiche, a un certo punto, ci si renda conto che la coerenza di tutta la progettazione filmica potrebbe essere messa a dura prova. Pertanto, il compito era quello di dare un messaggio univoco con gli interventi di Bergoglio che si arrabbia per i Rohingya e, addirittura (in questo risiederebbe l’atto deflagrante), chiede scusa per non aver creduto da subito ai reati di pedofilia che si moltiplicavano più veloci della luce ad opera del clero di tutto il mondo. Nessuno dubita della statura morale di Bergoglio, ma sembrano davvero lapalissiane certe sue parole e normalissime le prese di posizione su accadimenti verso i quali la coerenza delle “punizioni” e dei risarcimenti da ogni punto di vista, (ammesso che ce ne possano essere per i danni irreversibili alla psicologia delle persone), possano effettivamente verificarsi non episodicamente. Insomma, nel film il tutto procede luminosamente, in modo dialetticamente ineccepibile, come l’intervento-presenza durante la guerra civile nella Repubblica centrafricana che avrebbe permesso elezioni democratiche e, infine, il viaggio a Lampedusa che avrebbe finalmente costretto il governo italiano a stilare il programma, salvifico solo a parole, “Mare Nostrum”. Sulla pedofilia poi, Bergoglio avrebbe contribuito a far crollare un vero e proprio sistema di omertà in Cile, guarda caso però, collaudato in tutto il mondo e spesso neppure scalfito altrove.
Già nel 2018 (“MicroMega” dedicava un intero numero, il “4” del 2018, pp. 82-91, al pontificato di Bergoglio in modo molto critico), molti analisti chiedevano al papa di chiarire la questione dello IOR: una storia davvero opaca e intrisa di accadimenti a dir poco disgustosi. Anche in questo caso, Bergoglio aveva detto che avrebbe fatto qualcosa di definitivo, con una affermazione a dir poco eclatante: “Lo Ior, la nostra banca? E se magari la chiudessimo?” Dai tempi in cui fu pronunciata sono passati 9 anni. Non sembra ci siano state rivoluzioni da questo punto di vista anche perché il Vaticano è uno Stato che, forse, è anche legittimo abbia delle banche: il punto è “per farsene cosa” e come farle funzionare. Si potrebbe ammettere che nella realtà delle cose, ancora una volta, l’attuabilità delle buone intenzioni si volatilizzi in rivoluzioni solo mediatiche e a parole. Come riportato testualmente dall’intervento del giornalista Nuzzi che si occupò del caso 5 anni fa con prove documentali e atti processuali incontestabili, si affermò che: ”Dagli anni della presidenza del cardinal Paul Marcinkus dal 1971 al 1989 (sotto la sua direzione la banca vaticana diventa “polmone offshore per le più spregiudicate operazioni di riciclaggio – da Cosa Nostra a Tangentopoli”), a quelli del papato di Giovanni Paolo II (Marcinkus rimane in carica per l’amministrazione delle operazioni riservate), lo Ior diventa uno strumento strategico per il finanziamento della dissidenza nei paesi del Patto di Varsavia. Da considerare poi le sentenze del processo per l’omicidio di Roberto Calvi (presidente del Banco Ambrosiano trovato morto impiccato in circostanze più che sospette sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra), che in riferimento allo Ior parlano esplicitamente di riciclaggio dei narcodollari della mafia italoamericana, al riciclaggio della maxitangente Enimont per la quale vengono condannati in via definitiva diversi esponenti di spicco della politica italiana degli anni ’80 e ’90. La storia della banca vaticana farebbe impallidire il più brillante scrittore di romanzi criminali”.
Con sommo dispiacere di quanti avevano intravisto un “chiarimento” a queste terribili questioni (come il papa stesso aveva lasciato intravedere), lo IOR non ha subito chiusure e neppure la mutazione annunciata in “banca etica”. Inoltre, ancor più grave ci appare che, i correntisti della banca rei di gravissime illegalità, non abbiano subito processi esemplari e, soprattutto, le giuste pene per le loro malversazioni. In questo senso, Ernst von Freyberg, addirittura presidente dello IOR dal 2012, asseriva che già nel 2013 avrebbe svelato a Bergoglio, in una nota riservata e resa pubblica dal giornalista Gianluigi Nuzzi, di come “il riciclaggio nella banca vaticana continui indisturbato”, puntualizzando inoltre che la banca continuava a gestire fondi della Santa Sede, delle diocesi, delle congregazioni, di 13.000 cittadini dello Stato Vaticano e di 1.400 persone “esterne” per una somma complessiva di circa 7 miliardi di Euro”.
Fra le ultime dichiarazioni-fatwa di Bergoglio, quella contro i “medici abortisti”: “L’aborto è un omicidio, come assumere un sicario”. La dichiarazione assume una gravità particolare, pone a disagio un’intera categoria di professionisti e di donne, in particolare, che si sentono già inserite in una specifica condizione di colpa e condanna senza appelli. Allora la donna che decide di abortire sarebbe mandante di un omicidio, assoldando un sicario? Questa assurda posizione lascia attoniti, smarriti, pur nell’idea (e consapevolezza) che, forse il capo di una entità morale ed etica possa ritenere come “illecita” l’interruzione di gravidanza, non dà il diritto di definire con una violenza verbale senza precedenti gli operatori di un servizio come “sicari” ancor peggio che assassini.
Allora la rivoluzione tanto proclamata, forse più che dall’interessato pontefice, da confusi esponenti di un mondo progressista che ha bisogno di legittimazioni alle proprie e legittime convinzioni religiose, crea qualche grave dissociazione se non isteria nella consapevolezza di non poter “mettere insieme tante cose diverse”. Bergoglio ha la sua legittima modalità di gestire le complessità di uno Stato che vuole essere etico e che, molto spesso sulla base di questa esemplare aspettativa, si ritrova ad essere molto peggio di quello che dovrebbe essere uno stato laico. La Chiesa compie il suo ruolo stabilizzante, dirimente, anestetizzante. Di quanto fosse capace la Chiesa “moderna” in questo compito di mostrarsi vicina e disponibile a ogni uomo “comune” lo aveva già messo in pratica il predecessore pastore polacco, riducendo allo spettacolo mediatico addirittura le sue ultime ore di vita in una diretta televisiva, in autovettura, di ritorno dall’ospedale dove era stato ricoverato per la sua malattia ormai irreversibile. Ogni sacerdote o sciamano o mago, dalle società millenarie fino ad oggi, ha interpretato al meglio il suo ruolo: affievolire ogni conflitto, individuale o sociale, a vantaggio di chi amministra, governa, regge. La Chiesa oggi si limita a considerare “abbastanza importanti” le questioni sociali, ma queste appartengono alle dinamiche secondarie: su questo terreno meglio tenersi larghi e non proporre nulla di incisivo. Nella visione “moderna” di papa Bergoglio è bene essere presenti, perché no, nei talk show televisivi in edulcorate scenografie e interviste balbettanti di umanissima commozione. Se poi vogliamo vederci qualcosa di rivoluzionario nelle posizioni più moderate di Bergoglio, in un improbabile paragone con quelle di Pillon, è qualcosa che non può, sinceramente, essere considerato molto rilevante. Una dinamica davvero fuorviante e di chiara malafede con l’intento di distrarre dalle cose essenziali. Questo ci è apparso anche nell’ultimo intervento in un talk di poche domande e tanta luminosa fede in cui, l’intervistatore, sembrava già avviato sul cammino di una beatificazione. Tante altre questioni rimangono aperte e molte criticità ci impongono interrogativi.
Non sappiamo quanto il papa ritenga davvero innovativo il suo pontificato in uno status sempre più tradizionale e consolidato su antiche e collaudate dinamiche, etiche, sociali, economiche: ma, per quanto ci riguarda e, per favore, che non la si chiami “Rivoluzione”.