di Gioacchino Toni
Con la svolta neoliberista, la caduta muro di Berlino – simbolo per eccellenza di un ordine mondiale che sembrava divenuto immutabile –, il dilagare dei processi di globalizzazione e l’avvento delle tecnologie digitali, può dirsi iniziata una nuova storia caratterizzata da un disordine mondiale che per la velocità con cui muta e per il suo aspetto globale, tende a risultare pressoché incomprensibile, tanto da generare visioni oscillanti tra l’apocalittico e il trionfalistico. Tra queste due visioni, accomunate dal non derivare alcuna lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, trova posto quell’ideologia dell’eterno presente che conduce ad arrendersi/abituarsi all’incomprensibilità e all’evitare di mettere davvero in discussione l’esistente al punto tale da allarmarsi di fronte ad ogni evento che sembrerebbe contraddirlo, persino quando si tratta di un upgrade del sistema (che nei fatti non viene messo in discussione) che si trascina generando un incredibile repertorio di guerre civili claniche.
A distanza di tempo, la celebre affermazione di Margaret Thatcher “There is no such thing as society”, piuttosto che come una perentoria asserzione volta a negare l’esistenza della società, potrebbe essere letta come una compiaciuta rivendicazione di un’attentato commesso ai danni di questa, dalla cui detonazione si sarebbero liberati individui tenuti, sostanzialmente, ad arrangiarsi con ogni mezzo necessario. Insomma, un’orgogliosa affermazione di “missione compiuta”: la società è stata minata alle fondamenta, inutile ormai anche solo nominarla.
Era la fine degli anni Ottanta quando l’Iron Lady, residente a Downing Street da ormai un decennio, scandiva una delle affermazioni più violente mai pronunciate, anche alla luce del fatto che, effettivamente, si era prodigata con impegno per attuare ciò che in quel momento poteva affermare a testa alta davanti ai microfoni.
Pur inserendosi all’interno di una lunga tradizione che può essere fatta risalire all’individualismo liberale diffusosi sul volgere del XVIII secolo, non c’è dubbio che le politiche neoliberiste – non solo thatcheriane – dispiegate nel corso degli anni Ottanta del Novecento, rappresentino un punto di svolta capace di generare una reazione a catena che, strada facendo, ha trovato nell’universo digitale ciò che serviva per portare a termine quell’operazione di scollamento degli individui dall’insieme comune perseguita con tanta determinazione. È all’epilogo digitale di tale fenomeno, rivelatosi a tutti gli effetti un processo di secessione individuale generalizzata, che è dedicato il libro di Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune (Luiss University Press, 2022).
È con i primi anni Novanta del Novecento che, secondo lo studioso, si afferma il primato sistematico di sé sull’ordine comune. A trionfare è il mito dell’autoimprenditore capace, da solo, di accedere a forme di autonomia che gli consentono di gestire il proprio destino senza doversi rapportare con altri. Si diffonde così un’iconografia popolare che eleva gli individui ad esseri dotati di poteri quasi sovraumani in un’apoteosi di eroicizzazione del singolo. Insomma, il progetto politico dell’individualismo liberale si incanala verso «una ricerca sfrenata della singolarizzazione di sé all’unico scopo di differenziarsi» (p. 17).
Da parte sua il mondo dei media, nel corso degli anni Novanta, inizia a concedere sempre più spazio all’individuo, indipendentemente se famoso di suo o meno; si pensi non solo alla stagione televisiva dei talk-show e dei reality, ma anche all’affermarsi dell’autofiction narrativa e allo spazio che alcuni giornali dedicano a individui, conosciuti o no. È come se, in ossequio alla dottrina thatcheriana, l’ordine collettivo si ritirasse per lasciare la ribalta alle individualità.
Secondo Sadin la pretesa di indipendenza e sovranità che serpeggiava in un individuo deluso e tradito dalle promesse a cui ha a lungo desiderato ardentemente credere ha conosciuto una brusca impennata con l’avvento di Internet e del telefono cellulare che sembravano promettere un affrancamento dai legami localizzati stimolando una quotidianità votata all’autonomia.
Si stavano ponendo le basi per un nuovo rapporto con il mondo costruito sull’oggettiva facilitazione di svariati compiti e sulla conoscenza immediata di un enorme quantità di notizie. Con l’avvento del Web 2.0, poi, l’individuo si sarebbe trasformato da spettatore di flussi di informazioni ad attore attraverso la possibilità di esprimersi direttamente condividendo momenti della propria vita ottenendo gratificanti feedback.
La trasformazione del telefono cellulare in smartphone ha accresciuto la sensazione di autonomia e di “alleggerimento dell’esistenza” grazie anche all’interfaccia tattile e alle tante applicazioni che hanno contribuito ad incrementare la sensazione di beneficiare di un inaspettato aumento di potere mentre, nei fatti, ci si avviava ad essere sottoposti a sistemi valutativi ed a procedimenti disciplinari attraverso la cessione alle grandi corporation del Web di dati comportamentali. Insomma, mentre da una parte la svolta digitale generava un miraggio di sovranità, dall’altra assoggettava l’individuo a regole eteronome che ne incrinavano l’autostima.
Come fosse perfettamente stato messo in atto il processo di “accumulazione per spossessamento” descritto dal geografo David Harvey, senza però avervi aggiunto un terzo termine nell’ambito di una dialettica inedita: l’asservimento delle persone dovuto all’accumulazione del capitale che genera al contempo la sensazione inquietante di un aumento di controllo con conseguenti oscillazioni, nel corso del quotidiano, tra stati di insoddisfazione e soddisfazione, rancore e autoesaltazione (p. 20).
Nel corso degli anni Dieci del nuovo millennio la crescente diffidenza nei confronti degli organi di potere anziché guardare ai tradizionali ambiti politici antagonisti si è incanalata all’interno di fenomeni di populismo costruiti attorno a leader più o meno improvvisati che, facendosi portavoce del rifiuto delle democrazie rappresentative, promettevano futuri migliori, sebbene scarsamente delineati.
In molti, la sensazione di essere stati a lungo ingannati, l’aver assistito allo sgretolarsi di quel patto sociale che si voleva votato al solidarismo, l’incrementarsi dello scarto tra edulcorata “narrazione ufficiale” ed amara realtà delle cose, hanno generato l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “doppia realtà” parallela e incomunicante. Alla narrazione manistream si sono andate a contrapporre narrazioni di soggettività costruite soprattutto su particolarismi che trovano nei social i canali privilegiati in cui incanalare il rancore accumulato spesso accontentandosi di ricorrere a visioni semplicemente altre rispetto a quella ufficiale esponendosi così, non di rado, a complottismi di ogni risma.
È in tale contesto che si è andato a costruire un nuovo regime dell’opinione, dell’esserzione infondata, in un proliferare di teorie complottiste che hanno saputo proporsi come risposte ad accadimenti inattesi e spiazzanti. «Persone o gruppi quotidianamente fomentati dalla consultazione di siti falsamente “alternativi” e dalla visone di video della stessa risma, immaginano ormai di conoscere la verità dei fatti e i relativi ingranaggi, contrariamente a tutti i discorsi “ufficiali” che collaborano a mantenimento di “logiche di dominio”» (p. 12).
Solitamente, di fronte allo smarrimento, ricorda Sadin, si producono parole ed ecco allora che si sottolinea il fallimento del neoliberismo, si palesa la sfiducia nei confronti dei responsabili politici che hanno tradito la loro missione di operare per il bene comune e ci si cimenta in analogie storiche frettolose e superficiali. Tutte queste parole, però, si rivelano incapaci di cogliere l’essenza degli accadimenti che sembrano manifestarsi all’improvviso.
Forse, scrive l’autore del volume, sarebbe meglio evitare di fare constatazioni su ciò che accade pensandolo come a qualcosa di “altro da noi” e iniziare a prendere atto che «ciò che ha preso forma nel corso degli anni 2010 – e che modifica al contempo la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e il nostro regime storico di esistenza comune – è una nuova condizione dell’individuo contemporaneo» (p. 14).
Nel corso del primo decennio del nuovo millennio si delinea un’esperienza soggettiva inedita: «uno spossessamento di sé unito alla sensazione di un maggiore potere in certi ambiti della propria vita» (p. 20). Si percepisce con angoscia di non appartenersi più, di essere deprivati sempre più di una rete sociale su cui fare affidamento per affrontare le difficoltà della vita, e al tempo stesso si vive la gratificazione di sentirsi incredibilmente autonomi grazie alla disponibilità di tecnologie che facilitano l’esistenza, l’accesso alle informazioni e la possibilità di esprimersi direttamente e pubblicamente.
Il Web stava gettando le basi «di una nuova rappresentazione degli individui, che si sentivano provvisti di nuovi attributi superiori, meno dipendenti da alcuni vincoli e perfettamente equipaggiati per far sentire la propria voce ed esistere agli occhi degli altri» (p. 73).
Non a caso “Time magazine” nomina “YOU” come Person of the Year 2006 mentre l’anno prima lo slogan che accompagnava l’avvento di YouTube recitava “Broadcast Yourself” invitando gli utenti a divenire i programmatori di se stessi e a darsi visibilità. «Quando l’i decide di beneficiare a proprio vantaggio dei dispositivi messi a sua disposizione, diventa un You agente che può conoscere una popolarità più o meno estesa grazie alla messa in scena, sotto varie forme, della sua persona» (p. 77).
Nel 2004 faceva la sua comparsa Facebook con la sua promessa agli utenti di godere di una sensazione di improvvisa centralità rafforzata dai post pubblici mentre la console Wii di Nintendo del 2006 permetteva un’inedita esperienza immersiva. Le tecnologie personali contemporanee si riveleranno sempre più abili nel catalizzare l’attenzione e nel dare l’impressione di offrire una ricchezza tale da rendere privo di interesse il mondo circostante.
L’individuo contemporaneo, sostiene Sadin, ha la sensazione di poter sopperire autonomamente alle proprie carenze grazie alle tecnologie digitali che sembrano poter piegare la realtà ai suoi desideri e, sopratutto, permettergli espressività, ossia di raccontarsi agli altri ricevendo feedback di consenso, gratificandosi così dell’eccezionalità della sua esistenza.
La sensazione provata è quella di non essere vittima impotente; alle quotidiane umiliazioni è possibile rispondere grazie alle possibilità di narrazione compensatoria offerte dall’universo digitale che consentono un’illusoria magnificazione della propria esistenza e/o la possibilità di scaricare l’ira accumulata prendendosela con qualcuno o qualcosa a distanza di sicurezza.
Secondo Sadin nella contemporaneità l’espressività ha finito per occupare uno spazio sempre più importante; gli individui tentano insistentemente di dare prova della propria singolarità attraverso pratiche di esposizione pubblica di sé. «Oggi l’esperienza non basta più a sé stessa. Deve essere quasi sistematicamente accompagnata – e nel preciso istante in cui avviene – dal suo racconto, senza il quale viene giudicata troppo povera. Soltanto allora, attraverso al sua pubblicizzazione, sembra acquisire pieno valore, e la sua importanza, nonché la sensazione di rivincita sulle incognite della vita, prendono corpo» (p. 22).
Il ricorso a queste nuove tecnologie che permettono di costruire e trasmettere agli altri una diversa immagine di sé non sarebbe, secondo l’autore, riconducibile al narcisismo, quanto piuttosto al tentativo di liberarsi da tutte le frustrazioni subite. A caratterizzare l’attualità, secondo Sadin, è il fatto che per molte persone l’“io” rappresenta la fonte primaria, spesso definitiva, della verità. «La soggettività diventa una sorta di continente che tratta gli avvenimenti sulla base del prisma prioritario delle proprie logiche, risultato tanto della sfiducia diffusasi, su vasta scala, nei confronti del patto sociale, quanto della volontà rivendicata di non farsi abbindolare» (p. 23).
Pare di essere giunti al punto di arrivo di un processo che da diversi decenni induce gli individui a fare affidamento esclusivamente su loro stessi generando forme di isolamento sempre maggiori; un vero e proprio inedito scollamento degli individui dall’insieme comune. Ciò ha comportato anche la nascita di nuovi gruppi costruiti su interessi specifici ricalcanti strutture claniche [su Carmilla] che si contrappongono ad un ordine generale considerato iniquo.
Ad un tipo di risentimento nei confronti dell’attualità sociale e politica di natura collettiva, che può dar luogo a mobilitazioni capaci di unire le esistenze disilluse, si è recentemente aggiunto un risentimento di natura strettamente individuale, intima e solitaria, provato da singoli soggetti sia sulla base delle loro disillusioni e sofferenze, che derivato da un momento storico in cui si sono accumulate talmente tante delusioni da generare nella gente un livello tale di acredine ed amarezza da non essere più disposte a credere in nessuna prospettiva comune.
È questa “l’era dell’individuo tiranno”: l’avvento di una condizione civilizzazionale inedita, che vede l’abolizione progressiva di qualsiasi base comune e la comparsa di una moltitudine di individui sparsi, convinti di rappresentare l’unica fonte normativa di riferimento e di occupare una posizione preponderante che gli spetta di diritto. È come se in una ventina d’anni, l’intreccio tra la presunta orizzontalizzazione delle reti e l’esplosione delle logiche liberali, sostenitrici della “responsabilizzazione” individuale, fosse approdato a un’atomizzazione dei soggetti, incapaci di instaurare legami costruttivi e duraturi e intenzionati a far prevalere rivendicazioni basate principalmente sulle loro biografie e sulle loro condizioni (pp. 26-27).
Si assiste così all’emergere di una nuova categoria apolitica fondata sostanzialmente su una forma di isolamento degli individui che lo studioso definisce “totalitarismo della moltitudine”. Diviene pertanto indispensabile, secondo Sadin, indagare l’impatto delle tecnologie digitali sulla psicologia individuale e collettiva sopratutto alla luce della rappresentazione ingigantita del sé che caratterizza la contemporaneità.