di Francisco Soriano
Else Lasker-Schüler giunse in Palestina per la prima volta nel 1934, dopo aver transitato per Zurigo perché costretta a fuggire dalle persecuzioni perpetrate dalla polizia della Germania nazista. Si compì in queste circostanze quell’itinerario più volte immaginato e sublimato nelle sue scritture irripetibili, soprattutto nel famoso testo “La Terra degli Ebrei” definito come un “salmo”, una lode a Dio e un racconto dedicato alla “Terra della Bibbia”. Troppo presto sono stati dimenticati i versi e le prose di questa artista poliedrica e visionaria, davvero unica nella capacità di concepire architetture immaginarie proprie di un Oriente spesso favolistico e così pregno di evocazioni mistiche.
Else Lasker-Schüler nacque nel 1869 a Elberfeld, in Vestfalia, da un banchiere ebreo, Aron Schüler e da Jeanette Kissing. La sua giovinezza spensierata e felice non lasciava presagire i drammi che presto l’avrebbero colpita con le scomparse premature del fratello e, nel 1890, dell’amata madre, una figura decisiva nella sua formazione umana e letteraria. Quattro anni più tardi Else sposò il medico Jonathan Berthold Lasker che era fratello del più conosciuto Emanuel, tra i più grandi giocatori di scacchi di tutti i tempi, già campione del mondo dal 1894 al 1921. Subito dopo il matrimonio i due decisero di trasferirsi l’anno successivo a Berlino. Questa relazione non durò a lungo e, per la scrittrice, la separazione corrispose all’inizio di un periodo artistico inarrestabile che cominciò proprio nei primi anni del Novecento. In quegli anni Else Lasker-Schüler si legò allo scrittore e compositore Herwart Walden, pseudonimo di Georg Levin. I due furono protagonisti indiscussi dell’avanguardia e del movimento espressionista tedesco, che avevano come cassa di risonanza la rivista edita e pubblicata proprio da Walden: “Der Sturm”. Intensa e frenetica fu la sua vita culturale. Infatti Else Lasker-Schüler frequentava il “Des Westens” di Berlino, un famoso spazio culturale già riferimento di artisti e scrittori fra i più importanti del tempo, facendosi conoscere per la sua attività di scrittrice e intellettuale. Fu amica stimata e amata da Oskar Kokhoschka, Karl Kraus, Gottfried Benn, Franz Marc, Georg Trakl. Presto anche il legame sentimentale della coppia Lasker-Schüler-Walden giunse al capolinea: le delusioni gettarono la poeta in uno stato di grave disagio economico, tanto che riuscì a sopravvivere grazie all’aiuto di amici come Karl Kraus, un personaggio importante nel panorama intellettuale tedesco: polemista, animatore culturale, poeta e drammaturgo, fondatore della famosa rivista “Die Fackel”. Quest’ultima rappresentò per almeno un quarantennio un fondamentale organo di polemica letteraria, politica e di costume del tempo.
La vita di Lasker-Schüler nonostante i mille disagi non fu caratterizzata da limiti nell’attività artistica che, al contrario, proseguiva positivamente in termini di creatività. La testimonianza di questo fervido periodo artistico e intellettuale è rappresentata anche dal carteggio intercorso con l’artista Franz Marc e con lo scrittore Gottfried Benn, a cui dedicò delle liriche. Nel 1907 pubblicò con successo la raccolta di prose “Die Nächte Tino von Bagdads”, dando vita a quello che viene definito come il periodo del “processo di una nuova auto-creazione”. Questo percorso di “stilizzazione di sé e degli altri” aveva posto le basi celebrative della propria identità biblico-ebraica, asse portante e riferimento ineludibile della sua opera di intellettuale e scrittrice. Else Lasker-Schüler era una donna audace e molto esposta alle vicende della società in cui viveva: la sua “messa in scena” quotidiana non era solo di carattere letterario, ma appariva come ricercata in ogni elemento, dall’abbigliamento al comportamento, spesso trasgressivo. Donna di grande fascino e di bellezza efebica possedeva vestiti in stile orientale vistosissimi, talvolta era stravagante per la quantità di gioielli indossati; sempre con i capelli cortissimi e i pantaloni da odalisca riusciva a vivere senza alcun interesse che non fosse la poesia. Nel 1909 diede esempio delle sue qualità anche come drammaturga, con la scrittura di un dramma in cinque atti: “Die Wupper”. Fece seguire, due anni più tardi, la raccolta lirica “Meine Wunder”. A Berlino, inoltre, furono pubblicate le prime liriche e i primi testi in prosa, sia su riviste che in volume: la prima raccolta di liriche di successo fu intitolata “Styx”, edita dalla casa editrice Axel Juncker, nel 1912. Seguirono nei tre anni successivi le pubblicazioni di “Der siebente Tag” e, l’opera in prosa “Das Peter-Hille-Buch”, dedicata al suo mentore Peter Hille. L’anno successivo fu la volta delle “Hebräsiche Balladen” che si caratterizzarono, in particolare, per il dettato simbolico-metaforico espresso in lingua tedesca, ma con fondamenta valoriali esclusivamente ebraiche. Nel 1914 la pubblicazione di “Der Prinz von Theben” e, nel 1919, verrà stampato “Der Malik”. Nel 1923 venne edita la raccolta “Theben”. Nel 1927 fu colpita da un grave lutto: la morte dell’amato e unico figlio Paul, avuto da una relazione con Alcibiades de Rouen. Nel 1932 le fu assegnato il prestigioso premio Kleist, insieme a Richard Billinger, ma questo riconoscimento venne aspramente contrastato e contestato dal Völkische Beobachter. Fra bastonature, omicidi e persecuzioni Lasker-Schüler intraprese finalmente la strada della fuga, raggiungendo, appunto, la Palestina. Dopo questo primo viaggio nella tanto agognata “Terra Promessa”, ne faranno seguito altri due: nel 1937 e nel 1939. Dal 1933, a Zurigo, le era stato vietato di pubblicare i suoi scritti. Nonostante la censura alcune sue liriche furono rese pubbliche nella rivista “Die Sammlung”, diretta da Klaus Mann. In Svizzera e, successivamente dalla Palestina, Else Lasker-Schüler mantenne i rapporti con Klaus ed Heinrich Mann, dissidenti e oppositori del regime nazista.
Tuttavia, anche in Palestina, la poetessa venne sistematicamente osteggiata e isolata: i sionisti infatti non gradirono e non accettarono i suoi atteggiamenti solidaristici e di fratellanza verso gli arabi e i cristiani di quelle terre. Nel 1938 il regime nazista dopo averla perseguitata in patria, compiva l’ennesimo atto di odio verso la scrittrice, togliendole la cittadinanza tedesca. Else Lasker-Schüler visse gli ultimi anni di vita a Gerusalemme. Fra il 1940 e il 1941 pubblicò una dura condanna al nazismo con il dramma “Ichundich”. Nel 1943 fu pubblicata la sua ultima opera dal titolo “Mein blaues Klavier”, stampata in 330 esemplari e contenente 32 liriche. La scrittrice non riuscirà più a ritornare in Europa e, nel 1945, morirà stroncata da un attacco cardiaco.
Negli anni più intensi della sua attività di scrittrice Else Lasker-Schüler trascorreva la maggior parte del giorno e della notte nel “Café des Westens”, definito da lei stessa come “la sua patria notturna, la sua oasi, il suo vagone da zingara”. I detrattori della Lasker-Schüler invece, ironizzavano, definendolo come l’avamposto dei megalomani: “Café Grössenwahn”. I frequentatori esprimevano semplicemente la degenerazione dei valori della società tedesca. Per Else era il luogo incantato dove potersi “librare” con la sua fantasia e il suo innato entusiasmo: “c’è un altro luogo al mondo in cui vi sia tanta variopinta confusione da bazar come nel nostro caffè?”, si chiedeva divertita. Era lì che avvenivano i suoi travestimenti e quello era lo spazio ideale dove partorire i suoi scritti. Fu amata all’inverosimile dagli amici che le riconoscevano talento e, infinita, profonda sensibilità. Questi ultimi organizzarono una raccolta di fondi in favore di Else nel 1911. Karl Kraus fondò un comitato di solidarietà e aiuto di cui facevano parte Selma Lagerl ff, Richard Dehmel, Adolf Loos e Arnold Schoenberg. Molto spesso riusciva a vendere i suoi disegni e sbarcare il lunario per qualche settimana, altre volte capitava che intervenissero ancora gli amici, come nel caso di Franz Marc che le inviava preziosi acquerelli in forma di cartoline. In un’occasione mise all’asta una sua opera, “Il sogno” (un quadro che oggi si trova al “Kunstmuseum” di Berna), per devolvere il ricavato all’amica in difficoltà. Il poeta caduto in guerra nel 1915, Hans Ehrenbaum-Degele, lasciò un testamento con una cospicua somma in suo favore; altri banchieri ebrei le diedero per molto tempo un sussidio. Nei suoi ultimi anni di vita visse nella più estrema indigenza: “cammino stretta ai muri delle case, perché i miei genitori dal cielo non possano vedere quanto sia diventata povera”.
Già in vita Else Lasker-Schüler veniva considerata la più importante scrittrice di lingua tedesca. Nella definizione dell’opera e del ruolo di scrittrice da parte del suo contemporaneo Karl Klaus, Else fu “la più grande poeta lirica che la Germania avesse mai avuto”. Sulla stessa linea Gottfried Benn, quando asseriva che la scrittrice fosse la perfetta “incarnazione lirica dell’elemento ebraico e di quello tedesco in una sola persona”. Tuttavia la storia letteraria recente le ha riservato un inspiegabile silenzio, un buio immeritato e senza causa. Eppure, di questa poeta, nulla può essere lasciato nell’angusto dimenticatoio di una biblioteca, se si pensa che, dalla sua penna, profetiche parole tanto imprescindibili nella loro bellezza siano state così sublimate: “Io costeggio l’amore nel lume del mattino, / da tanto tempo vivo dimenticata – nella poesia. // Me l’hai detto una volta./ Io so il principio –/ non so oltre di me –/ ma mi sentii singhiozzare nel canto.// Nel tuo viso il sorriso propizio degli immortali,/ quando tuffasti e innalzasti le genti nel salmo/ d’amore della nostra melodia.”
E di poesia visse, arrestata a Zurigo durante la sua fuga, per vagabondaggio, dormendo sulle rive di un lago o sotto gli alberi che a malapena la riparavano dalle lunghe e fredde notti di quelle grigie montagne. Meglio solidarizzare con le bestie feroci, fra disincanto e mille dolori provocati dalla insensata persecuzione nazista, da criminali con le loro intelligenze geometriche: “Amaro e scarso era il mio pane, morto –/ ed ambra l’oro/
delle mie guance.// Con le pantere striscio / nelle tane la notte.// È tanta la mia pena nel dolore/ crepuscolare… seppure le stelle/ mi scendano a dormire nella mano.// Del loro lume tu ti meravigli –/ ma la pena/ della mia solitudine t’è ignota.// Le belve per le strade/ hanno pietà di me; quell’ululare/ suona infine amoroso.// Ma sfuggito alla terra, presso il Sinai/ trasfigurato tu sorridi –/ lontano estraneo passi oltre il mio mondo”. Quell’ululare che risuona amoroso, avvolge, mentre il sorriso di colui il quale è estraneo e lontano e trasfigurato, passa, quasi senza accorgersi al fianco del mondo. Else Lasker-Schüler era fantasticamente immaginifica e amava giocare con le persone a lei più care: amava dare e darsi nomi orientali, tanto da autodefinirsi Tino da Bagdad, Principe Yussuf, Giuseppe d’Egitto e, agli amici riservava le stesse sembianze regali o mistiche. Infatti Franz Werfel era il Principe di Praga, Karl Kraus, a seconda delle situazioni, il vescovo, il cardinale, il Dalai Lama o il Papa; Oskar Kokoschka “un giovane sacerdote con gli occhi pieni al cielo”; Franz Marc il santo pittore degli animali, ma anche il “Messia degli animali e dei suoi cavalli nitrenti che varcavano al galoppo le porte del paradiso”.
Più di ogni altro insigne critico Friedhelm Kamp metteva l’accento sulla “unicità” della poesia della Lasker-Schüler, per “il fatto che nella sua opera l’eredità spirituale di un antichissimo sangue biblico ed orientale si facevano, per una sorta di spettrale ritorno, immagine e suono della lingua tedesca. […] Il suo mondo fantastico era una mistica ripetizione e una resurrezione di origini millenarie”. La trasfigurazione mitica era per Else Lasker-Schüler una vera passione, un itinerario, un sogno e un gioco, un’arte letteraria senza pari. Il suo procedere poetico e intellettuale non aveva progetti, programmi, organigrammi, obiettivi calcolati. Infatti, nonostante fosse annoverata fra i più grandi esponenti dell’espressionismo tedesco, l’unico vero “aiuto” prestato a questa corrente in modo razionale e progettuale rimane il periodo dello “Sturm”: il suo “avanguardismo fu ben lungi dall’essere una posizione programmatica ed un atteggiamento intellettualistico”. Nella realtà della sua vita quotidiana, inseparabile dalla dimensione poetica di sognatrice invincibile, non ebbe mai una seria volontà di assecondare un canone o uno stile che fosse una nouvelle vague da seguire e perseguire. Sognò la Terra promessa, che fosse Tebe, Bagdad o Gerusalemme, o quel luogo-non-dove che ritrovò solo in una concitata fuga, senza che mai corrispondesse a quanto aveva idealizzato, sognato, immaginato e raccontato. La personalizzazione fortemente identitaria delle sue poesie non dovrà però trarre in inganno: il pensiero poetante è motore forse ingenuo ma sempre fiammeggiante, resta il demiurgo di ogni parola e fantasmagoria della scrittrice: “Le poesie avvengono in me, si compongono da sole in me … un poeta non ha mai intenzioni quando scrive poesie… sente solo la necessità di scriverle… ascoltando il suo angelo… un poeta è una pianta, non pensa al frutto e a cosa ne faranno gli uomini”.
Nel periodo delle liriche dette “sulamitiche” del suo primo libro “Stige”, Else Lasker-Schüler aveva soltanto 17 anni. Di questa raccolta il “Canto dell’Unto del Signore” denota fortemente l’influenza del Cantico. Il tema dell’amore è ben armonizzato con l’immagine prevalente del “giardino rigoglioso”, spazio rigenerante e onirico dei poeti: “Ed io ti donerò le perle della mia corona,/ muterò il tuo sangue in miele d’oro stillante.// Cospargerò le tue labbra degli aromi delle mandorle dolci.// È questo il solco che la poeta traccia già negli anni giovanili, in cui l’elemento ebraico si sovrappone e si esplica talvolta in preghiera e, spesso, in una memoria dei morti che fa della sua poesia una sorta di originaria “Spoon river”. Riconosciuta come una delle liriche più belle della poesia tedesca, “Un vecchio tappeto tibetano” rappresenta un’alchimia difficilmente ripetibile in poesia: “La tua anima che ama la mia anima/ è intessuta con lei nel Tibet del tappeto.// Raggio dentro raggio, colori innamorati/ stelle che si rincorsero nel cielo.// I nostri piedi sulla bella trama/ per mille e mille maglie son lontani.// O dolce figlio del Gran Lama sul trono della rosa muschiata,/ per quanto tempo ormai baciata ha la sua bocca la mia bocca,/ la guancia alla mia guancia per gli istanti trapunti dei colori?// Pubblicata su “Die Fackel” il 31 dicembre del 1910, l’amico di sempre Karl Klaus così scrisse: “Questa poesia è fra le più incantevoli e commoventi che io abbai mai letto. E poche ve ne sono da Goethe in su in cui senso e suono, parole ed immagine siano così intimamente intessuti”. Le anime intessute nella trama e nel motivo del tappeto si compenetrano nelle fluorescenze e nei colori, mentre tutt’a un tratto, la distanza fra gli amanti sembra divaricarsi sempre di più in trame e maglie lontanissime. Del futuro poi, nessuna certezza e, soprattutto, nessuna ragionevole risposta alla domanda di quanto il tempo fuggevole possa contenere baci e guance alla stregua di istanti “trapunti dei colori”. Con “Il nostro fiero canto” la poetessa diede inizio a quello che viene definito come il “periodo azzurro”, colore dominante e simbologia in molti espressionisti del tempo, della mistica ebraica e orientale in generale. Particolare e profondamente dolorosa la serie di poesie dedicate a Senna Hoy, pseudonimo dell’anarchico Johannes Holzmann, scrittore e attivista per i diritti degli omosessuali e transgender, arrestato e torturato a Mosca dopo le sue partecipazioni a conferenze e riunioni clandestine dei comunisti libertari. La stessa poeta si recò a Mosca cercando la liberazione di quest’uomo, già condannato ai lavori forzati e successivamente trasferito a Varsavia, nel 1911, per essere rinchiuso in una prigione per malati psichiatrici. Nel 1914 il triste epilogo, con la morte dell’anarchico per tubercolosi. Else Lasker-Schüler così lo celebrò: “Quando parli il mio cuore/ variopinto si desta.// Tutti gli uccelli/ cantano sulle tue labbra.// la tua voce sparge eterno azzurro/ sul mio cammino.// Ovunque tu parli, è cielo.// Le tue parole sono fatte di canto/ e sono triste se taci.// Ovunque a te pendono i canti -/ che saranno i tuoi sogni?
Quello che lei considerava come un esilio in terra tedesca, presto si tramutò in vero esilio nella sua Terra promessa. La realtà della Palestina di quegli anni era durissima e difficile. Quella terra che lei aveva immaginato come “la sposa velata di Dio” e il “vestibolo del cielo” era una terra poverissima e fustigata dal sole e dai deserti, dove, scriverà Else, “la natura nelle regioni brulle è una pallida rovina di verde che invoca urlando la primavera”. Nonostante, dopo il 1940, avesse incontrato a Gerusalemme nuovi amici e spesso recitato le sue meravigliose “Ballate ebraiche”, vestita di nero fra candelabri e luci soffuse, la Palestina non fu mai la sua Patria, o almeno mai la trovò. La sua Patria era proprio in quell’amore totale e totalizzante per il mondo, suo unico e irrealizzato progetto di vita.