di Giovanni Iozzoli
Valerio Monteventi, No Global Bo. Quattro anni vissuti pericolosamente, Edizioni Pendragon, Bologna, pp. 306, € 18,00
Tra i diversi libri pubblicati quest’anno, in occasione del ventennale dei fatti di Genova, quello di Valerio Monteventi si distingue per l’accuratezza delle ricostruzioni storiche e una certa profondità di analisi, che sottrae questo lavoro alla memorialistica e lo rende strumento d’uso attuale. L’efficacia del testo dipende in larga misura, dalla grana politica e umana dell’autore che – recitano le note bio nella terza di copertina: “ha vissuto e partecipato a diverse stagioni dei movimenti sociali: da adolescente ha fatto il ’68, da ragazzo il ’77, da uomo “poco maturo” era con i No Global a Genova nel 2001”. Questa presenza militante e intellettuale, che ha attraversato stagioni così diverse, rende la testimonianza di Monteventi particolarmente acuta, soprattutto nel soppesare e comparare contesti storici diversi, individuando fratture e continuità della militanza anticapitalista.
La scelta di focalizzarsi su Bologna, non è localistica: Bologna ha rappresentato uno degli snodi fondamentali del movimento No Global e, da sempre, la piazza felsinea produce elementi di innovazione e anticipazione che contaminano le dinamiche nazionali. In ogni pagina, il racconto “bolognese” riflette la vicenda generale – da Seattle ai movimenti contro la guerra – ripercorrendo nessi, valorizzando eventi, citando sedi, spezzoni organizzati e spazi, alcuni dei quali ancora esistenti e r-esistenti. Nella narrazione dello scenario di movimento bolognese, più che le dinamiche di frazione, cordata, gruppo o sigle, prevale l’attenzione ai soggetti sociali e collettivi – come l’incontro, inedito, tra quelle piazze e i metalmeccanici di Claudio Sabatini.
L’innesco della mobilitazione antiglobalista a Bologna, fu la contestazione alla Conferenza promossa dall’Ocse nel giugno del 2000, che aveva al centro il tema della piccola e media Impresa. Si arriva a quell’evento con un decennio di globalizzazione già alle spalle, che ha liberato le sue dinamiche selvagge su tutti continenti. E i vertici internazionali vanno assumendo un carattere più simbolico e politico, che funzionale: sono l’esibizione di un nuovo potere transnazionale e di una nuova era, tronfia della sua egemonia apparentemente priva di sfidanti. In realtà questo strapotere solitario, sta evocando un antagonista anonimo, diffuso, trasversale, che comincia a mettere in discussione la tessitura del mercato unico sovranazionale e delle sue istituzioni. In ogni angolo d’Occidente – a partire dall’esordio di Seattle – i movimenti e i settori più avanzati di opinione pubblica, cominciano a chiedere il conto delle devastazioni sociali e ambientali che la modernizzazione capitalistica post-89 ha prodotto ovunque. Ogni evento riconducibile alla governance neoliberista e alle sue istituzioni, diventerà l’occasione per manifestare questo malessere e prefigurare nelle piazze del mondo, l’opposizione e le alternative possibili.
Il meccanismo si innesca anche a Bologna: l’organizzazione della giornata No Ocse del 14 giugno 2000 segna l’avvio di un fitto intreccio di organismi, reti, strutture, intelligenze collettive che, dopo le contestazioni “in casa”, si allungherà al G8 e proseguirà senza soluzione di continuità fino alla stagione No War.
Negli incontri del mercoledi all’ex Ambasciatori, settimana dopo settimana, con la rete Contropiani/No Ocse, prendeva corpo un nuovo movimento che non guardava indietro, che non era regressivo o nostalgico, ma era critico e radicale contro i processi di globalizzazione in atto. Un movimento libertario che, semmai, voleva allargare e globalizzare i diritti, denunciando le crepe di un sistema totalizzante, che riproponeva la guerra come soluzione, che rapinava le risorse ambientali e impoveriva interi popoli, riducendo gli individui a merci, sempre più flessibili e precarie. Contropiani era un nome collettivo, un’identità e non un coordinamento di sigle. Ci lavoravano attivisti sociali e politici di tre generazioni e ogni voto valeva per uno. (pag. 24)
Monteventi segue lo snodarsi di questo sviluppo, con la conoscenza di chi ha svolto in ogni sua fase un ruolo attivo. La sua creatura “Zero in Condotta” – quindicinale venduto nelle edicole della città – accompagnerà il racconto “in presa diretta” di questi anni intensi e straordinari. Dopo le giornate di Bologna, Praga, Nizza, si arriva alla mattanza di Napoli, autentica prefigurazione di quello che succederà a Genova. Il movimento bolognese, magmatico, corposo e nomade, sarà sempre in prima fila lungo tutte queste tappe cruciali.
I giorni convulsi, esaltanti e tragici del G8 genovese vengono rievocati in tutta la loro cruda brutalità. E il racconto è efficace nel trasportare il lettore, vent’anni dopo, dentro la tensione emotiva di quello snodo terribile e drammatico:
Se qualcuno metaforicamente, per avere uno straccio di spazio mediatico, aveva fatto una “dichiarazione di guerra” virtuale, quelli che si erano protetti con le grate della zona rossa, quell’espediente lessicale l’avevano preso molto sul serio. Più che un confronto bellico, però, da loro fu interpretato come una vera e propria battuta di caccia. Poliziotti, carabinieri e finanzieri furono mandati a caricare e a picchiare con inaudita ferocia, con il proposito determinato di causare ai manifestanti il danno fisico più alto possibile. Gli ordini precisi, ricevuti dall’alto, furono quelli di stroncare il movimento nel sangue. A Genova, soprattutto nella giornata del 21 luglio, si sperimentò a livello europeo la gestione della piazza in un’ottica tutta offensiva per il potere (…). Anche l’informazione mainstream ebbe le sue responsabilità nel determinare quello che avvenne nelle piazze e nelle strade della città ligure (…). I ritagli dei giornali di quei giorni si potevano tranquillamente mescolare: il taglio editoriale del Messaggero, di Repubblica, de La Stampa e del Corriere della Sera, fu all’unisono da “allineati e coperti. (pag. 162)
La battaglia di Genova non piegò il movimento, a Bologna come nel resto d’Italia. Il sangue di Carlo, ragazzo normale, militante di niente, rimasto sul selciato senza un perché, non aveva avvilito e sbandato il movimento. Monteventi racconta delle trasformazioni che le reti sociali subiscono, delle tensioni con la politica, della resistenza ostinata che accompagnerà quel mondo al varco scioccante dell’11 settembre. Mentre ancora in Italia il dibattito sui fatti di Genova divide il paese, la tragedia di New York fa capire a tutti che si sta aprendo una nuova fosca stagione. E che non solo di repressione dei movimenti, si parla nei centri del potere: ma del ridisegno generale dello scacchiere geo-politico mondiale all’insegna del “nuovo secolo americano”, prefigurato da qualche think thank in pieno delirio di onnipotenza. I bombardamenti sono ormai diventati prassi unilaterale di risoluzione delle “controversie internazionali”: Khartoum, Belgrado, Kabul, Baghdad, la globalizzazione “a mano armata” comincia ad esportare bombe intelligenti e stragi, non solo movimenti di capitale e flussi finanziari. Nella società si apre un altro ciclo: quello del movimento contro la guerra, in cui ancora, la piazza bolognese reciterà un ruolo centrale nel paese.
Il movimento No Global diventa No War, gonfiando le sue fila ed estendendo la sua influenza su aree e settori sociali ai loro primi schieramenti di piazza e mobilitazione. La quantità delle iniziative e i numeri della partecipazione popolare, fanno impressione ancora oggi, a rileggerli. Sono anni in cui basta un giro di telefonate per convocare centinaia di persone alle due di notte alla stazione di Bologna, in attesa del transito notturno di un convoglio militare da bloccare.
Il 20 marzo 2003, senza alcuna dichiarazione di guerra, iniziò l’attacco della coalizione militare guidata dagli Usa contro l’Iraq (…). Il giorno successivo ai bombardamenti, nel nostro paese ci furono 50 manifestazioni che proseguirono, poi in maniera molto ramificata, nei giorni successivi, raggiungendo il numero di 160, con una media di quasi 20 al giorno. (pag. 250)
Il libro segue un itinerario e un metodo, che rende la lettura scorrevole, nonostante la certosina riepilogazione degli eventi. Un modo di raccontare la storia, che a sua volta raccoglie eredità nobili.
Come stile narrativo mi sono rifatto agli almanacchi, che avevano come scopo la diffusione di una cultura di base a livello popolare. Quegli almanacchi a carattere divulgativo che, nell’immediato dopoguerra, rappresentarono il principale, e a volte unico, mezzo di diffusione storica, culturale e politica tra le classi più disagiate. Almanacchi che un secolo prima in Francia, dal ministro della polizia vennero colpiti perchè producevano “una influenza disastrosa per la loro carica trasgressiva”, riconoscendone l’alterità rispetto alla cultura ufficiale. (pag. 15)
Quello che resta probabilmente inevaso, in questo e in altri lavori, è la domanda sul perché tutta quella ricchezza si sia sfilacciata, negli anni in cui “l’onda diventa schiuma”. Un bilancio sul lascito di quella stagione, confrontata con il presente, è impietoso: ma è solo la durezza dei tempi – cupi e stanchi, contrapposti a quelli che furono percepiti come anni di speranze collettive, magari ingenue, ma assai vive e partecipate – o c’è dell’altro che non si riesce a cogliere e che merita di essere indagato? Nelle pagine finali Monteventi, rende conto senza reticenze del dibattito – bolognese e nazionale – che accompagnò la crisi del movimento. Posizioni articolate, ognuna con qualche buona ragione, ma tutte insufficienti a spiegare il tracollo astioso di questo grande fronte politico-sociale che aveva evocato aspettative e domande collettive, troppo al di sopra delle sue capacità di realizzarle nella storia. Una lettura importante per continuare a riflettere.