di Dziga Cacace
Farmacia di turno, lucri sul nervoso (Elio e le storie tese)
494 – La truffa e la fuffa di Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, USA 2004
Premetto: avevo mal di testa, ero stanco, mal disposto e seduto troppo vicino allo schermo. Aggiungiamo che lo sceneggiatore del film, girato dall’acclamato regista di videoclip Gondry, è quel Charles Kaufman che mi sta già parecchio sulle palle come responsabile dello script del perfuntorio Essere John Malkovich, commesso da Spike Jonze e a cui tanti avevano abboccato (spunto folle e geniale, ok, ma esaurito in un quarto d’ora e amen). Anche questo Se mi lasci ti cancello (e complimenti vivissimi ai distributori nostrani per la scelta del titolo) gode già di fama clamorosa. Però io, dopo cinque minuti di proiezione, sono già “fuori” dal film, incapace di farmi coinvolgere, straconvinto dei miei pregiudizi. L’idea del film è intrigante: esiste una terapia particolare per rimuovere il ricordo di una persona cui si è legati affettivamente e Joel e Clementine (Jim Carrey, sottotono, e Kate Winslet, adorabile) vi hanno fatto ricorso. Solo che – attento allo spoiler – lo spettatore gonzo casca nell’abile tranello e scoprirà presto (o tardi, dipende dalla freschezza neuronale) che l’incontro tra i due piccioncini messo in testa al film è la conclusione, non la premessa, di quanto segue. I due si erano “cancellati”, ma in un immane e residuale sforzo mnemonico si erano dati appuntamento per il futuro, per ricominciare da capo. Mi sa che tanto per cambiare si sia rubacchiato dalle parti di Dick, ma calando l’intuizione in un racconto pretenzioso, dove ci si crede autori se ti si polverizzano i coglioni con dialoghi estenuanti e sopra le righe (cosa che nella testa di taluni fa tanto “artista”). La regia non mi colpisce granché, comunque, né i sussulti di montaggio gggiovane. Il film è piaciuto tantissimo, dicevo: alla critica specializzata e al pubblico hip e in America s’è parlato di capolavoro assoluto. C’è l’amore vero, unico, disperato, tenace etc. etc. E certo. Ora: siccome ho scritto con la destra mentre la sinistra mandava nemmeno troppo metaforicamente a cagare il regista, quale valore ha il parere di uno che ha vissuto tutta la proiezione come una tortura, dandosi del belinone perché già sapeva a cosa sarebbe andato incontro? Nessun valore! Oppure tantissimo, perché è ben questa vaccata presuntuosa che mi ha ridotto ulteriormente così, eccheccazzo, e non ritratto, no. Io sono un vecchio bilioso, ma se devo vedere un regista che fa i numeri, preferisco Godard e a un maldestro presuntuoso preferirò sempre un maldestro ignorante perché suo è il regno dei cieli. Ecco. Poi, mi sbaglierò perché mi pare di essere solo contro tutti e, anche se miliardi di mosche apprezzano la merda, io il dubbio ce l’ho sempre. Ma anche se sbaglio, dov’è la novità? (Cinema Mediolanum, Milano; 31/10/04)
495 – L’immancabile Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet, Francia/Canada/Belgio 2002
La strana avventura di nonna Souza e del cane Bruno che, aiutati dalle trillanti Triplettes (trio canoro dedito al consumo di rane) finiscono in una Belleville americana per liberare il nipote ciclista Champion, prigioniero della mafia francese che lo fa correre per scommesse. Delirante trama che gioca coi luoghi comuni sui francesi (nasoni da avvinazzati, passione per le due ruote) e sugli americani (tutti grassissimi e ottusi), con ritmo e comicità assolutamente europei (e un po’ catatonici). Omaggi sparsi a Jacques Tati, Fausto Coppi, Eddy Merckx, Django Reinhardt, Glenn Gould, Josephine Baker e in generale al mondo innocente e swingante del dopoguerra. Disegnato con stile spigoloso e deformazioni fisiche caricaturali, Appuntamento a Belleville immagina città tortuose, caotiche, grottesche, “mordillane”, con tratto gradevolissimo, ricchezza cromatica, animazioni intelligenti e gag visive azzeccate. Film carino e inaspettato, molto autoriale nell’irriducibile lontananza dal gusto comune, per niente children friendly. E ciò nonostante mi è incredibilmente piaciuto. (Dvd; 9/11/04)
496 – Il truccato Kiss Symphony The DVD, di due cialtroni, USA 2003
Cosa rende così irresistibile truccarsi con biacca e rossetto come dei vampiri spaziali e agitarsi su degli zatteroni? I Kiss devono averlo capito più di trent’anni fa, tant’è che, col loro hard rock piacevolmente banale, son riusciti a diventare un fenomeno (sub)culturale condiviso dai fan di mezzo mondo. Un pubblico entusiasta che aderisce al rito liberatorio e infantile della performance collettiva, dove lo spettacolo si consuma sia sul palco che in platea, tra spettatori mascherati che tiran fuori la linguaccia e fanno le corna. Stavolta il carico ce lo mette la Melbourne Symphony Orchestra, pittata al bacio per una folle notte di r’n’r, e il menu è completo: arrangiamenti roboanti, sangue finto a litri, esplosioni pirotecniche e trovate sceniche esagerate. In un tripudio visivo che, a voler essere molto generosi, rimanda al teatro kabuki o a una consapevolezza camp, le brave famiglie godono di tre ore di trasgressione soft, sottolineata dall’occhiuta regia (dei carneadi, per me, Jonathan Beswick e Victor Burroughs) che non tralascia alcun florido petto femminile offerto ai machissimi Gods of Thunder. Ma con consueta ipocrisia, il flashing non si concretizza, lo si suggerisce soltanto… maledizione! Mi prende male e noto talento imprenditoriale, faccia tosta e poca ironia, se no il gioco viene meno bene: praticamente Frank’n’Furter del Rocky Horror Show senza l’anima e il ragionamento, solo l’involucro esteriore. E la chitarra sfasciata nel finale non è sintomo della rabbia esistenziale di Hendrix o Townshend, ma solo l’esplicita metafora di ciò che è stato fatto alla musica. E vabbeh. Dvd consigliabile solo a fan sfegatati o insospettabili amanti degli zoccoloni seventies. Niente sottotitoli, ma francamente non si perdono grandi dialoghi. Film-concerto esagerato e artificioso e pezzo mio offeso e ingiusto – perché questi cazzoni alla fine mi son simpatici -, ma non ho altro da dichiarare. (Dvd; 18/11/04)
497 – Troppo poche Nine Hundred Nights, di Michael Burlingame, USA 2001
In un’oretta ricca d’interviste e immagini d’epoca, la parabola artistica e umana dei Big Brother and the Holding Company, il gruppo di San Francisco che, con l’arrivo di Janis Joplin, ebbe un improvviso e clamoroso successo, per poi finire nel dimenticatoio quando la cantante – dopo 900 notti assieme – decise di cambiare aria. Janis Joplin era una ragazzona texana di buona famiglia, butterata, insicura (anche sessualmente) e vogliosa di rivincita. A Port Arthur la definivano “il più brutto uomo del college”. E allora lei se ne andò a Frisco per cantare il blues con l’intensità e il dolore di una big mama nera, spesso ubriaca come un carrettiere e vestita come uno sguaiato troione. I Big Brother erano hippie volenterosi ma musicalmente un po’ pedestri: se riascoltate i bootleg del periodo, è un festival di scordature e stonature, note smangiate, entrate fuori tempo e fraseggi balbettanti. Però c’era del gran coraggio, quello che ti rende non un virtuoso, ma un artista sì, uno che prova a percorrere in modo diverso una strada magari vecchia: ascoltatevi l’alchimia inarrivabile della rilettura di Summertime di Gershwin, con due chitarre acide che si inseguono, mentre la biondona soffre e geme, ma veramente, come se si portasse sulla schiena una balla di cotone e il dolore esistenziale di tutti, non solo del popolo nero. I quattro maschiacci strafattoni, riuniti in una comune di Marin County si dimostrarono i comprimari perfetti per Janis: ne venne fuori una musica rivoluzionaria, pulsante, viva e innovativa, che centrifugava tradizione ed elettricità, blues, gospel, country e psichedelia. Nelle belle clip di repertorio la Joplin incendia il palcoscenico: batte i piedi, urla, piange, ride, blatera, beve, ulula e tratta male i suoi compagni (e son momenti di imbarazzo vero). Li mollerà in braghe di tela, consegnandoli all’anonimato di dischi trascurabili. Lei andrà invece a Woodstock (performance non eccelsa tecnicamente, ma sofferta e vera) e morirà durante la registrazione del fenomenale postumo Pearl. Sad, sad story, come nelle più classiche dodici battute. Ma eccellente documentario (sottotitolabile), ricco di bonus sfiziosi. (Dvd; 28/11/04)
498 – Doloroso e necessario, The Agronomist di Jonathan Demme, USA 2003
Serata libera. Con imprevedibile vitalità decido di uscire di casa e andare al cinema. Ma non c’è nulla che mi attizzi e allora scelgo l’impegno. L’agronomo è Jean Dominique, borghese creolo che ha dedicato la sua vita a denunciare la dittatura dei Duvalier padre e figlio, per finire ucciso nel 2000, in una Haiti “democratica” solo sulla carta. Commosso atto d’affetto nei confronti di un amico, The Agronomist è il frutto di anni di interviste ed è “il” documentario come andrebbe fatto: con partecipazione, humour e commozione, senza dimenticare che si sta raccontando una storia. Quella di un popolo schiavo, quella di un uomo libero e anche quella di un regista diviso tra Hollywood e impegno. Certo, Jean Dominique, era il soggetto ideale: comunicativo, spigliato, ironico, ma Demme ha saputo organizzare tutto senza risultare pedante o freddo. The Agronomist ci dice quanta paura faccia una piccola radio libera (era Radio Haiti Inter) in un paese svenduto alla casta militare allevata in USA. E, visto che ormai non si può neanche affrontare la questione della guerra in Iraq senza essere tacciati di estremismo, solleva qualche umile dubbio: lo Jean Dominique esiliato a New York ma testimone della connivenza di Washington con gli assassini di Port-Au-Prince, era forse un antiamericano? E Jonathan Demme, regista premio Oscar, con un film così rinnega forse la sua patria? Mah. Pessima proiezione trapezoidale e pubblico scarso in sala (eravamo appena in cinque; Haiti non è materia da seratona, francamente). E a proposito di libertà di stampa, giacché la calata negli inferi di Haiti sembra remota: Enrico Mentana (mica Andrei Zhdanov, dico Mentana) è stato silurato perché evidentemente non risulta controllabile come lo si vorrebbe. Al suo posto la cameriera Rossella: il pranzo è servito. (Cinema Eliseo, Milano; 29/11/04)
499 – L’artificioso e non così intelligente A.I. Artificial Intelligence di Steven Spielberg, USA 2001
Praticamente quello che ho visto è: Pinocchio ha un incontro del terzo tipo. Ad Oz. Spielberg prova a fare il Kubrick, ma regge manco un quarto d’ora, poi lo prende la fiaba e non riesce a non raccontarci tutto, a lasciare qualcosa di misterioso, alla nostra, di immaginazione. Se A.I. ha un grosso difetto è questo dover rappresentare ogni cosa, ogni snodo narrativo. La partenza e il finale, che mettono in relazione un essere artificiale e un essere umano, riescono – per vie traverse, ricatti emozionali, colpi bassi, ma anche una non disprezzabile analisi psicologica – a essere credibili e quasi commoventi, compiendo il miracolo di farci provare dell’affetto per David, un androide con la faccia da cazzo di Joel Osment (lo stesso inquietante rimbambito de Il sesto senso: voglio vedere quando diventa grande se gli danno ancora qualche ruolo. Goditela finché puoi, caro). Tutto il resto dell’odissea del protagonista, in fuga dagli umani, accompagnato ad altri robot, sa – ma guarda un po’ – di artificioso. Fotografia splendida, scenari grandiosi (e inventivi, come la Manhattan prima sommersa e poi congelata), tensione costante. Ma anche il progressivo distacco dalle emozioni (e dalle aspettative) provate nella prima parte del film. Quello che poteva e probabilmente doveva essere una riflessione sull’amore e sul potere della fantasia, pecca di superficialità e cade in cliché usurati, perdendo poesia in cambio di qualche effettaccio. A Spielberg succede troppo spesso perché sia casuale: peccato. Però c’è passato. (Dvd; 7/12/04)
500 – Ingiudicabile, Fracchia la belva umana di Neri Parenti, Italia 1981
Qui siamo dalle parti della leggenda, quando effettivo valore del film e ricordi drogati confluiscono in un complotto della memoria… perché – e mi tolgo subito il dente – Fracchia la belva umana è una buona commedia, in alcune parti vicina alla perfezione, ma non è quel monumento che la mia infantile inclinazione pretendeva. Nel 1981 la spinta propulsiva di Paolo Villaggio s’era esaurita da un po’: Fantozzi contro tutti (1980) diretto da Villaggio stesso assieme a Parenti, era ancora divertente, ma si sentiva già che era venuta a mancare la mano di Luciano Salce, regista intelligente e arguto. Neri Parenti – a suo modo anche lui un intellettuale, appassionato del cinema muto – si dimostra invece sciatto nel mettere in scena in maniera approssimativa, senza minimamente curarsi del ritmo e della qualità delle gag. Il cinismo degli sceneggiatori (tra cui ancora una volta Benvenuti e De Bernardi) rasenta l’incredibile: si ricicciano situazioni vecchie almeno un decennio (il confronto tra Fracchia e il direttore Gianni Agus), se ne riciclano a pacchi da Fantozzi (pari pari, congiuntivi sbagliati compresi) e addirittura si fa ricorso all’omaggio/furto con Chaplin (la scena della bomba che s’infila nella giacca del protagonista, vecchia di sessant’anni e già ripresa ne Il secondo tragico Fantozzi!). La trama però non è niente male: il timido e pavido Fracchia ha un improbabile doppio: è identico al nemico pubblico numero uno, la Belva Umana. Il quale ha due talloni d’Achille: è allergico al cacao e ha una madre sicula troppo espansiva (il grandissimo Gigi Reder). Avversario della Belva il gigantesco commissario Auricchio, il ruolo della vita per Lino Banfi. Questo commissario ottuso e dalla parlata isterica, perseguitato dal povero appuntato De Simone, è uno dei punti di forza del film. Peccato che il ritmo sia altalenante per tutto il primo tempo. Il film è tutto in discesa soltanto dopo la notevole scena ambientata al ristorante “Gli incivili” (ove si possono delibare saltinculo alla mignotta): qui, Banfi viene accolto dall’immortale stornello E benvenuti a ‘sti frocioni e se non vi commuovete lì mi chiedo come abbiate passato i vostri anni Ottanta. Notevoli, oltre alla “ex puttanazza prostituta palermitana” che imbottisce di cibo il povero Fracchia, anche “gli apostoli della rapa” Neuro (Francesco Salvi) e Pera (Massimo Boldi) e un grandioso confronto (anche attoriale) tra la Belva e Auricchio, a casa del protagonista. Alla fine il film, per quanto inattaccabile, è imperfetto ed è un peccato, perché poteva essere un modo per allontanarsi dal fagocitante modello fantozziano che ha fatto recitare Villaggio come il suo ragioniere da allora sino ad oggi. L’unica differenza tra Fracchia e Fantozzi è che il primo ha un vago (e incongruo) accento genovese e non tiene famiglia. Uguale tutto il resto, anche l’amara conclusione che ci ricorda ancora una volta che non sarà nell’aldilà che otterremo giustizia. Ma dette tutte ‘ste fregnacce e tornato in me stesso… no, capolavoro no, ma quasi. Dài, sì. (Dvd; 14/12/04)
501 – Abbiamo ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003
Ritorno al mio amato cineclub, il Lumière di Genova, per presentare Fame chimica nell’ambito della rassegna su cinema e urbanistica organizzata dalla soul sista Hilda e appendice della manifestazione Urban Regeneration, del cui concorso per cortometraggi sono giurato. Scopro, dal librone delle firme e dei commenti presente alla cassa, che cinque anni fa avevo annunciato al compianto Marco Polese che Fame chimica era ormai scritto e che presto lo avrei presentato nella nostra amata grotta, umida e buia. Il destino ha voluto che il film fosse realizzato in tempi biblici e che Marco non potesse vederlo. Peccato: la serata è per lui. Ci sono solo una settantina di persone, ma per il Lumière è un incassone. Il film parte e Paolo e io andiamo a berci una cosa con Claudio ed Enrico, i due sodali che dirigono la sala da anni, in attesa del consueto dibattito. Finiamo in un curioso bar nei dintorni, gestito e frequentato da rumeni. Sembra di essere alla periferia di Bucarest e gli avventori cantano Celentano e i Ricchi e poveri. Dopo la straniante esperienza (ma non male!), torniamo in sala in tempo per rivedere il finale del film: mi commuovo e dopo i titoli ci sottoponiamo alle domande di rito. Il pubblico genovese è freddo e riservato come da tradizione e sono i familiari e gli amici ad animare la serata. Piacevole discussione, ma la magia delle liti infuocate, della curiosità e della partecipazione di dieci anni fa s’è persa. Solo il critico Claudio Bertieri, fiammeggiante polemista, osserva il condivisibile difetto del film (la reiterazione dei finali e la debolezza della chiusura). Per il resto si parla della crisi del cinema italiano e mondiale e, fatalmente, anche della morte dei cineclub, strozzati da spese insostenibili (affitti, SIAE, cassieri, proiezionisti, pulizie) e dall’impossibilità a mantenersi con la seconda visione (stroncata dall’avvento del Dvd). E poi la mia generazione s’è ritirata e non è stata sostituita da nessuno. È la vita! Rimane solo la resistenza delinquenziale: cineclub clandestini come TAZ, dove proiettare Dvd fottendosene del diritto d’autore. Intanto, sul fronte critico, un’ultima novità: l’annuario di Cineforum dedica poche righe a Fame chimica e Stefano Savio liquida un film che vanta inviti, partecipazioni e vittorie in diversi festival stranieri, con l’accusa di provincialismo nell’indugiare sulla lingua parlata dei protagonisti. Mah! Una vocina mi dice: sii sportivo, Cacace! Impara a incassare le critiche! Elabora! Okay, elaboro. E rispondo con la signorilità che mi è stata riconosciuta da tanti avversari in estenuanti diatribe critiche: amici che scrivete di cinema sulla carta patinata di Cineforum, vi prego: prendete coraggio e affrontate la vita vera. Uscite dalle sale dove vi rovinate la vista e andatevene tutti affanculo! (Cineclub Lumière, Genova; 15/12/04)
502 – L’infelice Stagione 5 di Sex and the City, di Aa.Vv., USA 2002
È la serie girata durante gli ultimi mesi del 2001 e risente decisamente del clima post 9/11. Gli episodi sono stati ridotti (8 contro i consueti 18) e ne è venuta fuori una stagione minore, attendista, che mette poca carne al fuoco non avendo il tempo per svilupparla. Succedono comunque cose gustose: Carrie diventa autrice letteraria e i suoi articoli sono raccolti in un libro di successo; l’avvocato Miranda cresce il piccolo Brady tenendosi a distanza, ma non troppo, dall’adorabile Steve; la P.R. Samantha, divorata dalla gelosia, lascia l’allupatissimo uomo d’affari Richard (James Remar, l’Ajax de I guerrieri della notte!); la brava ragazza Charlotte ottiene il divorzio e comincia una love story col più improbabile dei pretendenti: un coinvolgente e bruttissimo legale. Come andrà a finire? Qui, rispetto al passato sono accentuate le situazioni sessualmente esplicite. C’è molto nudo e un episodio (il quarto) è un compendio sulle possibilità del rapporto orale. Tutto molto divertente e liberatorio, sempre tenendo presente che siamo nell’ambito della trasgressione commerciabile per le masse: sesso e famiglia, cementate dall’ipocrisia, vendono sempre, e non è un caso che parallelamente alla rivendicazione della loro libertà sessuale, le quattro amiche perseguano a ogni costo un tranquillizzante matrimonio o il grande amore romantico. Ma chi sono io per giudicare? Tra le guest star della serie l’elegante Candice Bergen, amore dei miei 15 anni, e la bollente Heather Graham. (Dvd; 16, 26, 28, 30/12/04)
503 – Il fiacco Shrek 2 di Andrew Adamson, USA 2004
L’Orfeo – già il cinematografo “con lo schermo più grande d’Italia” – riapre i battenti dopo alcuni mesi di lavori, con due nuove sale aggiunte. Decidiamo al volo di andare subito a vederci un bel cartone per bimbi grassi, come ormai siamo diventati (ma Barbara è incinta). Risultato? Mah! Shrek 2 è clamorosamente blando, con scarsa densità di situazioni e battute. In originale, l’eccezionale cast di voci ha probabilmente supplito alla mancanza di dialoghi brillanti, ma per noi italiani rimane solo un testo anemico che fa (colta e fredda) satira sulle fiabe e su Hollywood, moderna città delle favole. Rispetto al primo episodio, Shrek 2 perde in irriverenza e cattiveria, regredendo infantilmente e limitando la sfrontatezza a scorregge e caccole. Eccellenti disegno e animazione, ma manca un po’ la vicenda. Peccato. A Cannes il film è stato osannato, non essendo evidentemente conosciuti il progenitore della saga e i tanti cartoni “adulti” della Pixar: cari criticonzi da quotidiano, pagherete tutto, pagherete caro. A fine film, luci accese una frazione di secondo dopo il “nero” del primo titolo, nonostante ci sia una scena aggiuntiva due minuti dopo, scena che siamo costretti a vedere a luci accese (e non valeva niente). Sintomatico che i cinema si rinnovino, salvo che nei confronti dello spettatore: odore di vernice, ambienti freddissimi, stesse cassiere rincoglionite di sempre. Francamente era meglio prima. Era sempre meglio prima, comincio a credere. (Cinema Orfeo, Milano; 17/12/04)
Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni
(Continua – 50)