Fanucci editore, Roma 2021, pp 232 € 16
[Roma, 13 settembre 2106. Un sergente della Polizia Metropolitana di Roma riceve l’incarico, dal Ministro dell’Interno, di indagare sull’arrivo di un famoso killer in città, del cui incarico non si sa nulla. Deve trovarlo, scoprire qual è il suo obiettivo, mettendosi in contatto coi vertici della Resistenza, che secondo il ministro sono i suoi committenti. Se non riuscirà nel suo intento entro otto giorni il ministro scatenerà uno spaventoso rastrellamento che causerà molte vittime. Inizia così un viaggio avventuroso nelle cavità della città nera, una città spettrale dove il centro storico è stato demolito, smontato e rimontato altrove per fare posto a palazzi moderni di acciaio e vetro, mai inaugurati, mai abitati, ma occupati da persone senza nome che sopravvivono con ogni mezzo. Durante il viaggio emergono fatti, personaggi, che fanno capire al sergente, e a noi con lui, che le cose non sono come le ha prospettate il ministro. Di seguito pubblichiamo la seconda parte del primo capitolo (la prima parte qui). MB]
Capitolo 1
La città nera
“Direi che siamo arrivati” disse Rudolf.
Erano davanti a un grande androne senza battenti, un antro buio in uno dei vecchi palazzi di pietra, sufficientemente grande e solido da non essere stato demolito per fare posto ai grattacieli di vetro e acciaio. Non c’era numero civico, perché a Roma non esistevano numeri civici, e un indirizzo poteva essere trovato solo sulla base della conoscenza empirica che gli autisti della Polizia avevano acquisito durante anni di pattuglia.
“Tu aspetta qui” disse Antonio. “Guarda la macchina.”
“Sicuro?” disse Rudolf. “Prendi almeno il D-16.”
“Bah. È troppo pesante quell’affare” disse Antonio scendendo dall’auto. Già, che farsene di quel baraccone? Uno sparo nel buio, uno appostato sulle scale e via. Non serviva il mitragliatore. Gli bastava la pistola, che sfilò dalla fondina ascellare.
Si affacciò sull’androne, fermandosi per abituare gli occhi. Vide subito il cadavere, riverso nel pianerottolo che immetteva sulle scale. L’androne sembrava deserto. Si avvicinò al corpo. Era steso su un fianco, la testa rovesciata all’indietro, come se guardasse in alto. Un rivolo di sangue scendeva dal cranio sfondato e formava una pozza sul pianerottolo. Evidente la dinamica: era stato aggredito appena entrato, certamente a scopo di rapina. Era infatti vestito con abiti eleganti, quanto meno decorosi, e questo era anche il motivo per cui qualcuno aveva chiamato la Polizia. Palpò le tasche della giacca e dei calzoni, ma non trovò portafogli, né documenti. Dunque la rapina era andata a buon fine. Doveva almeno cercare di identificarlo, stabilire cosa ci faceva un uomo benvestito fuori dai settori residenziali. Forse era un funzionario governativo in missione.
Si guardò intorno, mentre riponeva la pistola nella fondina. A destra c’era una porta, due battenti di legno rinforzati da lastre di alluminio. Da sotto filtrava una debole luce. Bussò forte alla porta, due, tre volte. “Aprite!” esclamò, “Polizia Metropolitana!” Bussò di nuovo, coi pugni. La porta si socchiuse. Una donna si affacciò. Un volto orientale, tailandese forse. Antonio mostrò il tesserino. “Signora, vorrei farle alcune domande. C’è un cadavere nell’ingresso, lo sa?” La donna strinse gli occhi. Il volto era indurito in una maschera di tensione e di paura. “Signora, può farmi entrare un minuto? Solo qualche domanda.” La donna sembrò calmarsi. Antonio era abituato a quel tipo di reazione. Lui non incuteva paura. La gente in sua presenza tendeva a rilassarsi subito. E parlava. Si confidava. Talvolta si guardava allo specchio e si chiedeva: cosa c’è in me che non incute paura? La mia faccia spigolosa, con gli occhi piccoli? La fronte bassa? Non sapeva mai decidere se non incutere paura significava mancanza di rispetto. Non sapeva decidere se era contento di non incutere paura, in una città governata dal terrore.
La donna aprì la porta e Antonio mosse un passo nell’appartamento. Buio, fumo di un fuoco che ardeva in un braciere, solo parzialmente aspirato dalla cappa col tubo che usciva dalla finestra col vetro rotto; un bambino che giocava sul pavimento, un vecchio seduto accanto al fuoco. Tutti orientali. Altre persone in fondo alla stanza, di spalle, chinate su qualche oggetto, forse una sedia da riparare, o un tappeto.
“Signora, ha visto l’uomo nell’ingresso? Lo conosceva?”
La donna sembrò non capire. Strinse gli occhi fino a chiuderli. Antonio sospirò. Difficile comunicare. Ogni domanda era vista sempre come un’accusa, ogni risposta gravida di conseguenze, ritorsioni.
“Signora…” ripeté.
D’un tratto un’esplosione seguita da un lampo accecante paralizzò i presenti. Antonio, benché stordito, intuì forme scure che irrompevano nell’appartamento. Sentì un colpo fra le scapole, una spinta, inciampò sul corpo della donna caduto a terra, rovinò sul pavimento, sbatté la faccia, avvertì il sapore del sangue che gli zampillava in bocca. Un calcio nel costato gli mozzò il respiro. Restò a contorcersi sul pavimento gemendo e cercando di respirare.
L’appartamento era un caos di urla, mobili fracassati, movimento frenetico di corpi. Mentre riacquistava la capacità di mettere a fuoco vide il vecchio che, balzato in piedi, protestava urlando in una lingua sconosciuta. Un uomo massiccio vestito di nero lo freddò con un colpo di pistola in fronte. Vide la donna che, afferrata per il vestito, veniva scaraventata contro il muro, rovesciando il braciere. Pezzi di carbone ardente rotolarono sul pavimento, rimbalzarono su alcuni cuscini.
D’un tratto si sentì sollevare. Due pretoriani lo avevano afferrato per le braccia, un altro gli aveva immobilizzato le mani dietro la schiena. Un quarto uomo, un ufficiale, gli si parò di fronte.
“Sono… il sergente Draghi, della Polizia Metropolitana…” disse, storcendo la bocca per il dolore al costato. L’ufficiale, un tenente a due stelle, lo guardò fisso senza parlare. Antonio notò le pupille minuscole, come spilli, i segni della speed-4, la droga eccitante che molte guardie prendevano a dosi massicce.
All’improvviso il tenente alzò una mano, lentamente, come se prendesse la mira, e gli assestò un manrovescio, girandogli la testa a sinistra. Il colpo bruciò, per il dolore, per l’offesa, per il senso di impotenza. Ma doveva mantenere la calma, non irritare il tenente drogato. Non sarebbe stata la prima volta che un poliziotto veniva ucciso durante un’azione delle guardie nere.
Il tenente riprese a fissarlo. Osservava la sua faccia da diverse angolazioni. Sollevò di nuovo la mano e gli sferrò un pugno. Sulla bocca, nell’angolo destro. Antonio si stupì ricevendo il colpo, perché non era troppo violento. Un pugno leggero, come se la mano fosse stata spinta da una forza frenata.
“Lasciatelo” disse in tenente. Gli uomini lo lasciarono di colpo. Antonio barcollò. Si toccò la mascella, cercò di respirare. “Che ci fai qui, sergente cometichiami, in un covo di terroristi?” Gli lanciò un’altra lunga occhiata, sulla bocca, dove l’aveva appena colpito.
Terroristi? Sembravano piuttosto dei poveracci, dei clandestini accampati, come altre decine di migliaia di loro simili.
“Siamo stati chiamati” disse Antonio. Tossì, sputò sangue. “Omicidio. L’uomo sulle scale.”
Il tenente rise seccamente. “Omicidio eh?” Si guardava intorno con scatti della testa, gridava “muovetevi!” agli agenti, che dopo avere fatto uscire tutti trascinavano via il cadavere del vecchio.
Intanto i cuscini bruciavano, il fumo riempiva l’appartamento. “Sparisci, cittadino sergente cometichiami, porta via il tuo culo in zero secondi!”
Antonio tossì. Il costato gli mandava fitte lancinanti. “Devo fare rapporto” disse.
Il tenente digrignò i denti, puntò la pistola mitragliatrice e sparò una lunga raffica contro un armadio. I battenti di legno esplosero in mille schegge. “Vaffanculo” ringhiò, a bassa voce. Poi inspirò a fondo, roteando le spalle, girando la testa a destra e a sinistra. “Dì a quei culi piatti dei tuoi superiori che l’indagine la prendiamo noi. Sparisci adesso.”
Antonio barcollò fino alla porta e si affacciò nell’androne. Il cadavere era sempre riverso sul pianerottolo. L’indagine la prendiamo noi. Probabilmente non l’avrebbero neanche rimosso.
Uscì in strada, si coprì gli occhi con le mani. Tossì di nuovo, vide Rudolf appoggiato alla portiera dell’auto, tenuto sotto mira da un pretoriano. Gli altri agenti stavano caricando gli arrestati su un furgone nero. Uno chiuse il portellone, gridò “vai!” all’autista, che partì azionando la sirena. Altre due auto cariche di agenti partirono dietro al furgone. Il tenente uscì, raggiunse un fuoristrada fermo sul marciapiede. Fece un cenno all’agente che sorvegliava Rudolf, che salì a sua volta sul fuoristrada.
“Antonio!” esclamò Rudolf, guardando la faccia insanguinata del sergente. “Che succede? Stai male?”
Antonio si tamponò la bocca con un fazzoletto. Guardò in direzione del palazzo. Dalla finestra usciva un fumo scuro. “Chiama i pompieri, Rudolf.”
“I pompieri? Senti, Antonio, ti porto all’ospedale.”
“Macché ospedale. Chiama i pompieri ti ho detto.”
“Ok. Ma che gli racconto? Mi chiederanno se c’è pericolo che il fuoco si diffonda ai palazzi vicini. In caso contrario lo sai che non vengono. Se c’è gente dentro se ne fregano. Davvero non vuoi che ti porti alla clinica?”
Antonio si lasciò cadere sul sedile dell’auto, esausto. “Portami a casa, Rudolf.”
(Foto di Gabriele Basilico)