a cura di Wu Ming 1, in collaborazione con Carmilla
Esattamente un quarto di secolo fa, con il “rastrellamento” di decine di esponenti dell’Autonomia (tra cui intellettuali, scrittori, docenti universitari), iniziava il celeberrimo “caso 7 Aprile”. L’espressione “7 Aprile” evoca al contempo:
– il teorema giudiziario per antonomasia (il “teorema Calogero”, dal nome del giudice istruttore di Padova che ordinò gli arresti);
– la campagna-stampa colpevolista più unanime e forsennata della storia repubblicana;
– l’uso più disinvolto della carcerazione preventiva e della sostituzione dei capi d’accusa man mano che le imputazioni si dimostravano campate in aria (Toni Negri capo e “telefonista” delle Brigate Rosse etc.);
– un caso addirittura proverbiale in cui le dichiarazioni di un “pentito” (Carlo Fioroni), anche quando andavano contro l’evidenza, pesavano più di tutto il resto (assenza di prove, alibi, testimonianze a discolpa);
– la fine di un’epoca: mentre gli inquisiti del “7 Aprile” stavano in galera, fuori cambiò tutto e l’Italia fu inghiottita dal “Riflusso”.
E’ importante conoscere questa vicenda, perché in essa si disvela e assume i contorni più nitidi il paradigma dell’Emergenza, a sua volta un’anafora mica da poco.
“Emergenza” significa tante cose: leggi speciali, media irregimentati, pentitocrazia, presunzione di colpevolezza portata a estremi demonizzanti, militarizzazione del territorio, ripetuti inviti alla delazione etc.
L’Emergenza è una delle risposte degli apparati di Stato (l’altra è la “Strategia della tensione”) a una protratta situazione di scontro sociale e sommovimento.
I poteri forti si adeguano a forti pressioni internazionali e impongono un giro di vite “stabilizzante”, usando come pretesto gli omicidi e i sequestri compiuti dalle formazioni lottarmatiste.
Queste ultime sono minoranze autoproclamatesi “avanguardia del proletariato”, protagoniste di fughe in avanti del tutto funzionali alla “stabilizzazione” e di pratiche che in alcuni casi sfociano nella paranoia militarista e nella follia splatter con echi di faida mafiosa (l’assassinio di Roberto Peci, gli exploit dei “boia delle carceri” etc.). Parafrasando il subcomandante Marcos: “A cosa serve un’avanguardia talmente ‘avanti’ che nessuno può né vuole raggiungerla?”
I movimenti radicali di massa degli anni Settanta vengono omologati a forza alla lotta armata, l’Emergenza passa sopra critiche e differenze come una ruspa israeliana nella striscia di Gaza.
Da qualche tempo assistiamo a un revival degli strumenti di quella stagione repressiva: centinaia di arresti “preventivi” senza prove, ricorso massiccio a tipologie di reato associativo introdotte nel codice dalle leggi speciali (art.270 bis), etc. etc.
La tendenza si è accentuata dopo l’11 marzo madrileno: anche se gli elettori spagnoli lo hanno punito, José Maria Aznar ha indicato la via e tutti la percorrono: fare di tutte le erbe un fascio, lanciare accuse alla cazzo di cane, dipingere improbabili alleanze tra questo e quello, produrre teoremi a getto continuo senza mai citare fonti precise e sparandole sempre più grosse: alleanze tra l’ETA, Al Qaeda e il Campo Antimperialista di Assisi, unità d’intenti tra Al Qaeda, i No Global e gli anarcoinsurrezionalisti, un gruppo marxista turco descritto nei media come “islamico”, collaborazioni tra i Ciompi, Lord Byron ed Ezechiele Lupo.
L’importante è – proprio come venticinque anni fa – riprodurre e diffondere la cultura del sospetto indiscriminato e della presunzione di colpevolezza.
Chi conosce le storie dell’Emergenza si sta già abituando al dejà vu. Sembra proprio il “7 Aprile”, un’epoca in cui la stragrande maggioranza dei giornalisti precipitò al livello su cui si è oggi assestato Magdi Allam.
Lo diciamo con le parole di Giorgio Bocca:
“A forza di ‘dato che’, la autonomia e la responsabilità professionali sono scese al gradino più basso. Al congresso della stampa di Pescara si è avuta l’impudenza di sostenere che compito del giornalista non è quello di dare le informazioni, ma quello di difendere le istituzioni. Un criterio che avrebbe assicurato la sopravvivenza di tutti gli stati marci e di tutte le tirannie. L’esecutivo e il legislativo avendo a disposizione una stampa così ‘a tappetino’ non hanno avuto ritegno. I cosiddetti ‘ambienti giudiziari’ hanno violato in lungo e in largo il segreto istruttorio, messo in giro notizie false, diffamazioni nella certezza che sarebbero state scritte e riprese nonostante le smentite. Improvvisamente i cronisti del Partito comunista, i giornalisti dell’Unità e del Paese sera sin lì emarginati dagli uffici giudiziari e polizieschi hanno avuto gli inediti, le primizie, le confidenze. Siccome il loro è un giornalismo politico che di rado mette in discussione la supremazia del partito, l’uso è stato decisamente strumentale” (G. Bocca, Il caso 7 Aprile. Toni Negri e la grande inquisizione, Feltrinelli 1980).
Lo diciamo anche con le parole di Camilla Cederna. Lei si riferiva ai giorni del sequestro Moro, ma la descrizione calza benissimo a quel che avvenne l’anno dopo:
” ‘ La stampa si è comportata bene’ ha detto in quel periodo qualcuno d’altolocato, senza accorgersi che con quella frase rivelava una verità delle più amare: la scomparsa della libertà di stampa. I giornali sembravano fatti di veline tutte uguali, di veline governative; sembrava che ci fosse una parola d’ordine in quei giorni: occultare la verità, difendere la dignità dello Stato […] Quanti giornali possono dire di avere in quei giorni contribuito a tentare di ricostruire una tesi che fosse sganciata dalle decisioni prese dalla maggioranza governativa, a cercare una verità che non fosse quella, alle volte ingarbugliatissima, dettata dall’alto?” (tratto da AA.VV. Tutela dell’onore e mezzi di comunicazione di massa, Feltrinelli 1979).
Sembra di sentir parlare della “bipartisaneria” dei nostri giorni.
Arriviamo al punto:
due anni fa un iscritto padovano alla nostra newsletter Giap, Luca Barbieri (oggi cronista del “Corriere del Veneto”), ci spedì la sua tesi di laurea sul “7 Aprile”, o meglio, sul comportamento della stampa durante il “7 Aprile”.
Il testo è un saggio storico equilibrato, corposo e meticoloso, utilissimo per capire cosa successe in quei giorni e negli anni a venire (il periodo coperto arriva fino al ritorno di Toni Negri in Italia, nel 1998).
All’avvicinarsi del venticinquennale, abbiamo chiesto a Barbieri se volesse rimettere mano alla tesi per pubblicarla su web. Ha accettato e ha anche scritto una prefazione, che riportiamo qui di seguito. Precisiamo che le posizioni espresse sopra sono nostre, non di Barbieri.
Il saggio con illustrazioni (doc + zip, 2.2 mb) è scaricabile cliccando sulla foto del Mostro.
Una veduta più breve e a volo d’uccello del caso “7 Aprile” (rtf + zip, 19 kb) è disponibile cliccando qui
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PREFAZIONE 2004 – di Luca Barbieri
Sono passati ormai tre anni da quando mi sono messo a cercare negli archivi ritagli di giornale sul processo 7 aprile. Nella borsa tenevo una foto: Guido Bianchini, pochi giorni prima di morire, in pantaloncini e maglietta che fissa minaccioso una montagna da scalare. In posa come un guerriero, in posa come quando a 16 anni entrò nelle formazioni partigiane.
Questo lavoro, nato dall’esigenza di scoprire una storia che del tutto casualmente avevo appena sfiorato, è diventato la mia tesi di laurea (parliamo del marzo 2002).
“I giornali a processo: il caso 7 aprile”. Il titolo è questo: ma poteva essere anche “Toni Negri: costruzione mediatica del maligno”, oppure “7 aprile, la rimozione”. Cose simili…
Allora parlavo da studente, forse anche un po’ supponente. Rileggendo quelle pagine è facile cogliere qualche piccola ingenuità. Ma devo dire che la sostanza c’è tutta: il 7 aprile come paradigma della stampa d’emergenza (legato a filo doppio con il sequestro Moro) è una tesi che mi sento ancora di sostenere.
Già che ci sono butto sul piatto qualche considerazione sorta incrociando le riflessioni di allora al mio lavoro giornalistico di oggi. Non per proteggere la categoria, ma da giornalista quale sono ora penso che sia ingiusto gettare addosso a una categoria che viene messa sempre meno nelle condizioni di fare un buon lavoro la croce dell?incapacità di fare inchieste e sollevare dubbi. Allora come oggi. Per tagliar corto (tanto, per chi ha pazienza, il libro di spunti ne offre eccome) il problema centrale soprattutto del giornalismo giudiziario, è senza dubbio quello delle fonti. Delle inchieste se si parla si deve parlar bene, altrimenti le notizie uno se le può anche scordare.
Il problema è tutto qui ed è tutto politico: bisogna capire che le politiche dell’informazione (la capacità di creare, gestire e distribuire notizie) non possono essere lasciate nelle mani né degli organi di polizia (ce ne fosse uno poi) né nelle mani del potere giudiziario.
Le espressioni che usa la stampa del 7 aprile (del tipo: “se gli inquirenti sono così sicuri della colpevolezza degli arrestati allora le prove devono esserci per forza”) sono quelle che usa la stampa di oggi su qualsiasi inchiesta della magistratura.
Di esempi in questi ultimi due anni ne ho visti parecchi: come l’arresto di un marocchino, sospettato di essere un reclutatore di Al Quaida. Le prove? “A casa aveva centinaia di ritagli di un giornale estremista arabo che esaltava gli attentati”, dicevano gli inquirenti. Inutile osservare che già di per se non sarebbero gran prove. Ma quando il giornale estremista arabo si rivela essere Al Quds (basta andare nell’edicola della stazione per trovarlo) e le decine di ritagli sono un solo numero della testata che (ohibo!) parlano anche di un attentato in palestina….cadono le braccia, cade tutto.
Ma la soluzione non la si può chiedere realisticamente, come fanno alcuni, ai giornali: semplicemente non ne hanno la forza e per come è strutturato il campo nel nostro paese non ce l’avranno mai. La soluzione deve essere politica. Io penso che questo, se vogliamo rifletterci, sia uno dei punti cruciali della nostra democrazia.
Non mi rimane altro che augurarvi buona lettura.
Ovviamente il testo potete stamparvelo, tagliuzzarlo, ma non rivendervelo,
Mi potete contattare a luca.barbieriATinwind.it
AVVERTENZA PER LA LETTURA: si tratta di un testo parecchio lungo. Per chi vuole accorciare la lettura consiglio di omettere il capitolo 3, che altro non è che l’esposizione del corpus di articoli esaminati per la ricerca