di Gioacchino Toni
A distanza di quasi un decennio dalla sua prima uscita, ricompare sugli scaffali delle librerie, in una nuova edizione, il volume di Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale (elèuthera, 2021) [su Carmilla] ove, nel suo caratteristico alternare racconti di esperienze umane e professionali vissute direttamente e riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni o da letture di vario tipo, l’autore passata in rassegna l’ombra lunga del manicomio fisico proiettatasi ben oltre le chiusure sancite dalla Legge 180.
Dopo la chiusura dei manicomi tradizionali è con il ricovero presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura che l’individuo inizia la sua carriera di “malato di mente”, di dipendente/utente della “fabbrica della cura mentale”. Condotto in stato di agitazione in una di queste strutture, viene lì trattenuto, facilmente obbligato a una terapia sedativa e, quando ritenuto necessario, legato al letto. Se il malcapitato non si “normalizza” velocemente rischia di essere obbligato a soggiornare per qualche tempo presso qualche Casa di cura convenzionata. Una volta riammesso in società, non è difficile aspettarsi che, vista la sostanziale impossibilità di ricevere aiuto domiciliare, il paziente torni presto a essere ricondotto presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, dunque a riprendere il percorso dal suo inizio.
È così, sostiene Cipriano, che funziona la “fabbrica della cura mentale”: una fabbrica che ha il suo direttore (il primario) che controlla il buon funzionamento della catena di montaggio umana coadiuvato dai tecnici specializzati (gli psichiatri) con il malato recepito come la macchina biologica da riparare non attraverso la parola, la relazione e un po’ di umanità, ma soprattutto per via farmacologica.
Uno spazio importante all’interno del libro Cipriano lo dedica al perdurare della pratica del legare i pazienti con disturbi psichici, nonostante la chiusura dei manicomi tradizionali e il suo non comparire nei libri di psichiatria. Ciò avviene sicuramente a causa di carenze legislative, oltre che per la sua “economicità” ma, sottolinea l’autore, a permettere tutto ciò sono soprattutto l’etica e la cultura degli operatori che continuano a farvi ricorso.
Il volume uscito nel 2013 ha avuto, tra gli altri, il merito di contribuire a riproporre, non solo tra gli operatori, “il problema della contenzione”. La questione resta di estrema attualità, come sottolinea Cipriano nell’introduzione alla nuova edizione, anche alla luce di alcuni eventi recenti che danno il polso della situazione. In particolare l’autore si sofferma su come la forma narrativa di un libro come L’arte di legare le persone, scritto da Paolo Milone, psichiatra ormai in pensione, abbia ottenuto un certo consenso persino tra “intellettuali insospettabili”, «capaci di applaudire a questa malafede psichiatrica camuffata da gesto narrativo. Intellettuali convinti che siccome la letteratura è letteratura, in quanto tale deve poter dire tutto. […] La letteratura d’altra parte è magica, e ha il potere di muovere gli eventi e far rinascere, come zombie, certe pratiche che credevamo di aver seppellito. Come ogni magia la letteratura può essere bianca oppure nera, quando la letteratura riesce a persuadere che legare le persone è un’arte, io dico che è una sorta di magia nera».
Per farsi un’idea del regresso culturale che caratterizza l’attualità basta notare come a vincere il concorso per dirigere il Centro di Salute Mentale aperto nelle 24 ore di Trieste sia stato l’ex direttore di un SPDC chiuso, con porte sotto chiave e fasce pronte all’uso. «Forse perché l’arte di legare è stata riabilitata perfino dalla letteratura?». Probabilmente, afferma pungente Cipriano, «l’arte di legare le persone è l’arte in cui devi eccellere, in questo momento storico, se vuoi fare carriera nella psichiatria italiana». Se questa è un’arte, conclude lo psichiatra riluttante, allora «è la più miserabile delle arti».
Certo, afferma lo psichiatra riluttante, non legare può essere molto più faticoso. «Ma vuoi mettere, tornare a casa stanco e non sentirsi una merda». «Ci sono alcuni che fanno cento legamenti in un anno, e altri che ne fanno quattro in tutta la carriera. I primi, se sanno scrivere abbastanza bene, riusciranno perfino a scrivere L’arte di legare le persone. E giù applausi. Sembra che il libro tardivo sia servito, allo psichiatra che lega, per giustificare quel tipo di carriera. E di esistenza. E di crimini di pace. Crimini trasformati letterariamente in atti terapeutici».
La fabbrica della cura mentale tornata in libreria in una nuova edizione è anche, scrive Cipriano, «un po’ la risposta alle spacconate dello psichiatra artista delle fasce. Anche se, a pensarci, è più probabile che sia stato il suo libro la risposta al mio. Lo avrà letto di certo, come lo lessero moltissimi psichiatri – come fa uno psichiatra che ama legare a non avere la curiosità di leggere un libro contro di lui? Non può, un libro dove perfino asserivo che chi non lega è felice e chi lega è infelice ognuno a modo suo – l’avrà letto e dopo si sarà messo di tigna per riabilitarsi, riuscendo a pubblicarlo, tu vedi i casi della vita, con lo stesso editore che negli anni Settanta pubblicava Franco Basaglia: ma non è un segno dei tempi tutto ciò?».