di Monica Buffagni
Gentiana Minga, Tempi che sono (Zeiten wie diese…kohë që janë…), Terra d’ulivi edizioni, 2021.
Accostarsi e immergersi in “Tempi che sono …” (“Zeiten wie diese…/Kohe qe jane…,Terra d’ulivi edizioni 2021), il più recente lavoro della intensa e vibrante Gentiana Minga, è calarsi, in felice e improvviso abbandono ad un inatteso annegamento, nei gorghi trasparenti e cristallini, irruenti e turbinosi, delle acque verdi -simili a foglie traslucide – dei torrenti e dei fiumi che attraversano e circondano la mitteleuropea Bolzano, cantiere multiculturale, di notevole vivacità culturale, non solo seconda patria dell’autrice, ma anche e soprattutto luogo interiore di profonde e tenaci radici, aperte al futuro, ma con la ferita antica di lontana e atavica paura. Ecco, dunque, che questo crocevia di culture, terra di confine, avvolge un simbolo manifesto di incontro, spesso forzato, tra pensieri differenti e diverse identità, tema ricorrente nella produzione dell’autrice, vissuto in prima persona, in bilico tra la struggente nostalgia per la terra natale, così ben espressa nella precedente raccolta “Ciao, mamma, un saluto da Bolzano” e la vigorosa tensione verso l’amalgama del presente attuale, un tempo inquieto, peraltro -ci ricorda la Minga.
La città alpina, nei suoi azzurri e bianchi stampigliati con tratti decisi, è una protagonista, fiera, elegante, misteriosa, involontariamente accentratrice, della raccolta di versi in questione; è voce, ora profonda, ora sottile, che si affaccia decisa dai suoi ponti -fili di unione e raccolta di pensieri, legami e ricordi, abbandoni ed incontri, sgranati lungo gli archi che proteggono le acque-, attraversa le sue strade intrecciate ai pastelli di case e castelli del proprio passato, avvolte dell’inafferrabile sapore di ricerca proustiana della propria identità, ricostruita, talvolta smarrita, diviene parte viva della narrazione lirica, dell’interrogarsi dell’anima -ciò che della poesia costituisce l’essenza.
La raccolta si articola in quattro intense sezioni, per una trentina di liriche, ottimamente presentate con traduzione in tedesco di W. Menapace e I. Ferra e nel natio albanese, per la prima e terza parte, a fronte, occasione peraltro di ulteriore riflessione sul potere del volgere in altro idioma le parole -centro di magica possessione- della poesia e del complesso intreccio di espressione, tra libertà, interpretazione e rispetto che lo rendono tra i più interessanti e fragili rapporti letterari. Ritorna qui, tra i versi piani e apparentemente quieti, sempre sobri nella loro intensità trattenuta, il tema della identità, della definizione del sé, del tentativo di conciliazione tra culture, tra origini e vissuti diversi, di viaggio tra passato e presente, tra quanto ci ha forgiato e definito e quanto ci ha cambiato, proposto, confrontato, come le acque che ,fluide, sferzano e sono sferzate dalla roccia, sempre uguali e sempre diverse da se stesse.
“Io pure mi vedo incompiuta ovunque/dove nacqui e dove vado, donna e straniera/…” confessa l’autrice, a mo’ di ouverture, nella lirica “Uno”, che apre il volume, a ricordarci non solo il conflitto interiore di chi lascia la propria terra per dirigersi altrove, ma anche la dicotomia dell’umanità stessa, che ritrova in sé aspetti contraddittori e opposti, con cui fare i conti, “scorpione accerchiato nella tana /che credevo mia”.
Il rapporto tormentato con l’altro, il confronto a volte aspro, duro e insensibile con la realtà venata di diffidenza, di paura, di estraneità che contagia addirittura la propria identità e rimette in discussione tratti acquisiti divengono temi cesellati con la consueta abilità, in versi che hanno il sapore del tempo lungo, dell’attesa e della scoperta, che riescono ad alternare, in guizzi rapidi e improvvisi, sciabolate feroci nel consueto, diverse facce del sentire.
Come ci ha abituato l’autrice, emergono numerose figure femminili, pennellate con colori e tratti incisivi e contenuti, a ridare loro forma e passione, così come spuntano, timidi e resistenti, tenaci ed eterni nella loro apparente fragilità i fiori, che definiscono e rendono compiuti gli attimi e i brandelli di storia, anzi, di storie, baluardi e simboli di resistenza e di espressione silenziosa, assoluta, inafferrabile. I toni intimistici, di profonda riflessione sul sé, sulla relazione del sé con l’altro, sempre sobri e misurati, di intensità spesso più sussurrata che manifesta, si alternano ad altri più legati ai temi universali e sociali, primariamente quelli legati alla migrazione e alla discriminazione-terra di orrende ombre in cui la diversità diviene condanna e i colori della vita si tingono di morte-, alla crudezza e durezza vissute dai migranti e dalle diverse identità, filtrati, come del resto in ogni poesia che tale si possa definire, attraverso la sensibilità e le esperienze di chi scrive. “Tempi che sono…”, appunto, ciclico ripetersi delle stagioni della storia dell’uomo, in un reciproco apporto-scambio tra quella con la S maiuscola e quella, più intima e sofferta, del singolo.
Restano nelle pieghe della mente i volti dei bambini dai neri capelli ondulati, gli scorci di vivido colore tra strade, acque di porto, “le rarefatte chiome arancioni “ e il violino, così come i meriggi novembrini e la primavera di nascita e di morte, le sere d’agosto come il rosso si mescola al celeste, in attesa inconsapevole, sussurrano le loro storie, gli attimi raccolti come per caso, nella complessa esistenza di un universo dai molteplici raggi. Acque che si fanno neve, gelo che assorbe e matura, ricerca del calore e della stabilità, oltre gli schiaffi del tempo e della realtà; a questo chiama il nido sofferto di questa potente raccolta.
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Per gentile concessione dell’autrice, prima pubblicazione in Letterranza.org agosto 2021, https://www.letterranza.org/recensione-tempi-che-sono-di-gentiana-minga/