di Franco Pezzini
Orazio Labbate, Spirdu, Italo Svevo, pp. 171, euro 16, Trieste-Roma 2021.
Per chi ami le storie di possessioni demoniache e conseguenti esorcismi – sottogenere horror che sarebbe banalizzante ridurre al caposaldo fondamentale di Blatty & Friedkin, come tandem di libro (1971) e film (1973), e che pure per impatto mitopoietico e fascino artistico resta un unicum – è davvero molto difficile trovare sviluppi con caratteri di novità. In generale, fatta salva la saga The Exorcist che ha i suoi punti di forza, gli sviluppi si sono articolati alla grossa su tre filoni: il semplicistico-confessionale, lo psichiatrico (dove si scopre che, nonostante tutto, il demone è tutto interiore) e il giudiziario (l’esorcista a processo per la morte dell’indemoniata), con incursioni fantastiche trasversali a volte suggestive, ma nel complesso deboli e poco originali.
E deboli sono soprattutto i film recenti, spesso dimenticabilissime produzioni (in gran parte americane) documentate in folla su YouTube: emblematico del resto il destino del prequel di The Exorcist, dove la versione molto più interessante e sofisticata del regista Paul Schrader poi silurato (ma per fortuna uscita con il titolo Dominion – Prequel to The Exorcist, USA 2005) è stata accantonata dai produttori per quella molto più convenzionale di Renny Harlin (Exorcist – The Beginning, USA 2004). È davvero impossibile sviluppare in forma di narrazione un topos che richiama ad alcune paure fondamentali (spossessamento e deflagrazione dell’identità personale nella sua accezione più basica, confronto con un Male denso, attivo e simbolicamente spiazzante) e a nodi problematici per una società non solo laica (almeno a grandi numeri), ma depauperata – grazie a una gestione criminale del potere economico e politico – di fondamentali argini interiori nel segno della speranza?
Leggendo Orazio Labbate, e il terzo magnifico romanzo della sua saga gotica siciliana (sul secondo, e sullo spirito che lo anima, cfr. qui), ci rendiamo conto che invece è possibile. Non paia una forzatura l’accostamento tra un testo tanto letterario e suggestioni degli schermi: l’autore stesso lo legittima nelle interviste, e del resto i nomi dei suoi personaggi e le atmosfere evocate sono debitori in qualche senso del cinema e soprattutto delle serie tv americane.
Spirdu – “timore, paura, spirito, demone” come qui tradotto – riprende il mondo dei primi due romanzi ed echi delle rispettive figure, attraverso un intreccio familiare tra Milton, West Virginia, e Butera in quel di Gela: ma qualcosa è cambiato, l’impasto linguistico (straordinario, poetico) si è fatto anche più stretto, spigoloso e graffiante, al punto da suggerire l’inserimento finale di un Glossario del gotico siciliano. È una lingua incredibile, meticcia di dialetto buterese e italiano letterario ma con robuste dosi d’invenzione (es. “Armàlu: animale terribile e indegno”, “Crocifissoùmmira: l’ombra primordiale del crocifisso”, “Nonàngili: gli angeli che non sono più angeli”, eccetera), che fa pensare a un Consolo infinitamente più nero e gnostico. Una lingua che gioca ambiguamente tra due poli del discorso come sotto il segno di Yaldabaoth, il polo pneumatico ricordato fin nel titolo (non ho contato, ma i richiami sono molti, le ricorrenze dell’altro termine “unsù”, “fantasma”) a evocare non solo gli spiriti possessori e la loro dimensione ma un fiato inafferrabile del testo, e il polo della carne che torna di continuo, spesso come carne morta – gli esorcismi vengono tenuti in un’ex macelleria – con quanto di conturbante quella dimensione ci evochi. Carne e spiriti sono ovunque, dall’uso puntuale alla metafora alle semplici suggestioni, e la lingua (poetica, va ribadito, perché nella scelta e nel conio dei vocaboli, nel loro accostamento, nella pirotecnia di soluzioni immaginifiche mostra una particolare poesia) li richiama di continuo.
Ancora, una lingua buia, che ricorre alle maschere del gotico per parlare di dolori solitudini lutti, radicata nei diversi linguaggi cultuali della Sicilia, nella diverse chiese di un credo notturno: un paganesimo ctonio e tellurico, impastato di misteri – non a caso Gela è uno dei tanti luoghi della Sicilia associati a Persefone/Kore, rapita dal dio dei morti, e alla madre di lei Demetra – e proprio i misteri permettevano di offrire parole (indicibili all’esterno, ma potenti) alle dimensioni oscure dell’esistenza; e un cristianesimo barocco che su quella base pagana e infera si è innestato a un certo punto, mantenendone il respiro arcaico, i tratti perturbanti e il sapore di vertigine accanto a istanze di liberazione dai connotati misteriosi.
In questo senso l’inferno di Labbate trascolora continuamente negli inferi antichi, le entità – quelle “cristiane” come la Madonna dell’Alemanna o il Signore dei Puci, in realtà tenebrosamente pagane – diventano anzitutto patrone di una morte come irruzione del nonsenso che condanna all’infelicità, di una morte-scandalo, e il demonico è uno spazio cosmico, una cifra quasi lovecraftiana: una mitologia tanto fortemente eversiva dei miti-cartolina della sicilianità, quanto la sua lingua dista da quella tranquillizzante di un Camilleri. Emergendo dunque quale vera protagonista del romanzo: una lingua sincretistica, misterica, (si ripete) gnostica – la materia si fa spreco demoniaco, tra oscure speculazioni teologiche e demonologiche; una lingua duttile sia a suggerire le deflagrazioni psichiche – e allora raspa di possessione, si fa parole ossesse – sia a dare il senso di una reazione a quella realtà, tra fragilità e forza, attraverso l’opera del giovane esorcista Jedediah Faluci, che esercita a Falconara presso Butera nell’ex macelleria del padre Peep. Accanto a lui, la giovane poliziotta Kathrine Pancamo della solita Milton, che in Sicilia va cercando non un assassino – quello sostanzialmente l’ha trovato – ma le ragioni dei crimini e il rapporto con la misteriosissima storia della sua famiglia. La loro vicenda è quella di due solitudini che s’incrociano perpendicolarmente, per (forse, ma non spoileriamo) perdersi poi in distanza.
Se però la precedente puntata, Suttaterra, era una storia nel segno del male, del tradimento più infame e del delitto, Spirdu (che è in realtà un romanzo ampiamente autonomo) presenta con pudore ciò che all’assurdo della morte può contrapporre un senso: l’amore per il padre perduto e da ritrovare, e in fondo quello per Kathrine. Entrambi, negli inferi di una Butera ormai consegnata completamente ai demoni, cercano il padre, in modo diverso. Dove è legittimo entusiasmarsi per la capacità di Labbate di recuperare plot e topoi classicissimi – dall’abbinamento di specialista del sacro & poliziotta, alla visita alla badessa dell’orfanotrofio in cui si è cresciuti, fino alla scena conclusiva in una chiesa ormai profanata dalle forze oscure – e trasformarli in un romanzo letterariamente ricco e denso, umanamente profondo e animato da una peculiare tenerezza. L’incontro tra i due giovani in un albergo deprimente e onirico fuori Butera, davanti a un vecchio barista, “Tatanu Buttiglieri, làdiu e troppo siccu come a lutto” è straordinario. E l’epifania finale delle forze di possessione, per chi ricordi i precedenti due volumi e persino le relative copertine (Lo Scuru, 2014 e appunto Suttaterra, 2017), sembra decrittare non casuali rimandi.
Certo, a fronte della lettura spesso scipita e rozzamente, trionfalmente confessionistica di tante fiabe filmiche di esorcismi americane, la storia di Labbate ha connotati tali da poter risultare ulcerante e blasfema, sacrilega: come spesso sono però, e a prescindere dalla laicità anche assoluta degli autori, opere che parlano con genuina, fertile visionarietà di una tensione tra mondo interiore e istanze ultime. Passiamo dunque serenamente oltre le Rupi Simplegadi del cleroformio (copyright Marcello Marchesi) e delle compiaciute, modaiole odifreddure da salotto borghese: c’è una scrittura sul religioso che parla delle pieghe e piaghe che abbiamo dentro, del rapporto con un Dio – magari all’insegna della rabbia, come in Giobbe – e di una fragilità tutta umana nel cercare ciò che resta di luce contro le tenebre. Una scrittura che parla, con le parole del mito, del calarsi nella città infera tenendo per mano qualcuno che rischierebbe di smarrirvisi, e forse noi con lei; che parla del peso dei morti nelle nostre vite private e collettive, ma insieme dell’urgenza di cercare, nella loro notte fonda, il volto di un padre che dobbiamo reintegrare nella nostra storia.
È un linguaggio, un logos: e si rivela potente di una sostanziale onestà, davanti a dimensioni come la scomparsa di chi ci è caro, la solitudine interiore, l’eruzione di un nonsenso che chiamiamo Male. Tanto più in questo momento in cui ad altre crisi pesanti si è aggiunta quella pandemica, con tante difficoltà ulteriori a logorare e deprimere, “Malidìtta la tristezza”: dove il paese indemoniato l’abbiamo dentro, e tutto intorno a noi. Un paese del genere non basta un esorcismo a liberarlo, ovviamente.