di Alessandro Barile
Salvatore Corasaniti, Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta (1971-1980), Le Monnier 2021, pp. 329, € 25.
Soprattutto nel nostro paese gli anni Settanta rappresentano uno snodo esorbitante e indigesto. È giusto dunque continuare a parlarne pubblicamente. L’idea di confinarli a una qualche forma di patologia criminale, sopendone così le tensioni che li animarono, concerne le miserie dell’attuale dibattito politico, prima ancora che storico. Si riconoscono due traiettorie della più recente ricerca storica sul tema: da un lato l’affievolirsi della “testimonianza” diretta: chi aveva qualcosa da dire sembrerebbe ormai averlo detto; dall’altro il contestuale aumento di lavori oramai pienamente “scientifici”, ovvero distaccati, informati, freddi. Questo libro di Salvatore Corasaniti pare collocarsi in un’ipotetica via di mezzo: non è, ovviamente, una “testimonianza”, ma il lavoro di un giovane storico che, nel ricomporre la vicenda dell’Autonomia operaia romana, usa tutti i criteri scientificamente necessari alla ricostruzione del contesto: una solida, a volte sovrabbondante, bibliografia; lo scandaglio delle fonti scritte di vario livello (archivistiche o pubblicate nel tempo, fino alla corposa indagine sui materiali audio di Radio Onda Rossa); infine, una raccolta di testimonianze orali di protagonisti delle vicende studiate, utili a restituire una cornice di senso e per colmare gli inevitabili vuoti della ricerca documentaria. Allo stesso tempo, è un libro che evita drasticamente ogni forma di demonizzazione dell’oggetto di studio. E si tiene distante, con accortezza, anche da una certa algida rendicontazione dei fenomeni narrati. Nell’autore c’è simpatia, che traspare in controluce, tra le righe del testo più che in qualche passaggio esplicito: l’inevitabile e sacrosanta vicinanza ideale all’oggetto studiato. Insomma, per farla breve, il lavoro di Corasaniti si presenta informato, in qualche modo distaccato, ma caldo.
Questa “maturazione” degli studi sugli anni Settanta bisogna pure dire che non sembra aver condotto a una loro maggiore comprensibilità. Di lavori scientificamente accreditati se ne sono affastellati lungo tutto l’ultimo decennio, da Giovanni Mario Ceci a Simone Neri Serneri, da Donatella della Porta a Angelo Ventrone (per citare solo alcuni tra gli autori che negli ultimi anni si sono cimentati in nuove importanti ricostruzioni del lungo Sessantotto italiano). Viceversa, come avvertivamo, le testimonianze dei protagonisti sembrano essersi ridotte di numero, ma non solo. Sono state sempre più dileggiate dalla storiografia più accreditata, ridotte a mera funzione memorialistica, oppure, ancor peggio, ricondotte all’interno di quel «paradigma della vittima» secondo il quale, a parlare degli anni “di piombo”, sarebbero (stati) solo i “carnefici”. Occorreva dunque un’operazione di ribaltamento (più che di revisionismo): limitare, se non tacitare, la voce dei protagonisti, ovvero dei militanti politici; e amplificare oltremodo il racconto di falsi reduci e di non-testimoni: figli e nipoti delle vittime, nuove generazioni che volevano “liberarsi” di qualcosa che non conoscevano direttamente, ma di cui sentivano di portarne il “peso”; oppure, in ultimo, il racconto del decennio è stato affidato a vecchi tromboni accademici che, fiutata l’aria, tentavano di legittimarsi agli occhi dei nuovi potentes. Ovviamente il ricordo personale soffre di limiti invalicabili per la ricerca storica, ma qui vorremmo porre l’attenzione su di un altro aspetto, ovvero dell’interpretazione complessiva del fenomeno che definiamo “anni Settanta”, o “lungo Sessantotto”: nei ricordi più autorevoli e meditati dei diversi protagonisti emerge un tentativo di interpretazione complessiva delle vicende evocate, laddove nella fredda ricostruzione è proprio questa a mancare: una capacità di sintesi che, sopra la rendicontazione dei singoli accadimenti, sappia darne o favorirne una sintesi. Ogni autore, va da sé, ha una sua idea delle cose e la suggerisce, anche involontariamente. Ma le “verità” proposte in questo decennio, in assenza del contraltare (che potremmo definire “dal basso”), non hanno fatto altro che rimasticare versioni ufficiali, visioni neutralizzate da ogni tentativo di approssimarsi alla realtà. L’unica via di fuga sembra ormai essere il complotto come meccanismo di critica e smascheramento delle suddette “verità ufficiali”, in un rapporto parossistico tra verità di Stato e complottismo che da un lato rafforza le chete formule autorizzate nel discorso pubblico (la società “in crisi”, i “cattivi maestri”, il terrorismo eccetera); dall’altro allontana ancor di più da ogni possibile comprensibilità del fenomeno. Insomma, la visione (di parte) di un qualche protagonista, la fatidica “testimonianza”, ha sì dei limiti oggettivi, ma il suo superamento non sembra aver prodotto quella liberazione degli studi che tanto si attendeva. Studi che funzionano bene sul piano accademico, molto meno su quello intimamente storico-politico. Ecco, Corasaniti si muove entro questi confini, di una ricerca che procede anestetizzando il suo oggetto d’indagine, e tenta di liberarsene facendo propri i passi in avanti disciplinari (e disciplinanti?) che pure ci sono stati in questi anni.
Il libro, come detto, affronta la parabola dei Comitati autonomi operai romani di via dei Volsci lungo tutto il decennio. È una storia a suo modo circoscritta (i Volsci non sono tutta l’Autonomia, e l’Autonomia non sono tutti gli anni Settanta), però dal fortissimo valore metonimico: attraverso la storia dell’Autonomia romana si ricompongono i fili di una storia politica e sociale del nostro paese, nella sua interezza, almeno per ciò che riguarda l’arco cronologico qui considerato (1971-1980). Il lavoro è presentato in tre capitoli: «caricamento», «esplosione» e «rinculo», ovvero i prodromi dell’Autonomia, il Settantasette come apice di tutta la vicenda, e poi il tutto sommato veloce ripiegamento nel triennio ’78-’80. Poi, certo, l’Autonomia non finisce nel 1980, sciogliendosi nei primi anni Novanta. Ma il “senso storico” di quella vicenda può giustamente collocarsi all’interno di tre eventi collaterali: la crisi e lo sfaldamento dei gruppi della sinistra extraparlamentare, tra il 1972 e il ’73; l’esplosione, letterale, veloce, catartica, del 1977; e l’altrettanto drastica crisi politica che ne seguì, dilatata dall’affare Moro. A quel punto non solo l’Autonomia, ma tutto il lungo Sessantotto italiano perde l’orizzonte di senso che lo aveva alimentato lungo il decennio. La conclusione simbolica l’autore la fissa con la “marcia dei quarantamila” e il fallimento della vertenza Fiat. Cosa possiamo trarne di vero da una storia simile? Alcune cose vanno segnalate. La prima: Corasaniti decide (giustamente) di procedere raccontando gli eventi, e non ricavando questi da una qualche “pensiero” che li alimentava e li giustificava. Detto altrimenti, nessun movimento, men che meno quello organizzato dell’Autonomia romana, è il frutto di un’ideologia particolare, di un sistema di idee radicale e alternativo (in questo caso, alternativo al comunismo “ufficiale” incarnato dal Pci). Al contrario, l’Autonomia da questo punto di vista è sempre stata alquanto “rozza”, limitata e diffidente da qualsiasi operazione di sistematizzazione (e “coerentizzazione”) delle proprie idee. Aveva dalla sua parte i numeri e la convinzione dei suoi dirigenti politici, nonché l’internità nei quartieri proletari romani. Tanto bastava per “lasciarsi pensare” da altri, ad esempio da Milano, da «Rosso»; in misura minore, dal narodničestvo di «Lotta continua» (il giornale, intendiamo). Via dei Volsci significava lotta politica immediata, organizzazione dello scontro politico-sociale. Anche laddove provava ad elaborare un suo pensiero, era sempre pensiero organizzativo, militante, ed in questo risiede sia la sua forza che la sua debolezza. La portata di questo scontro, la sua vastità e ramificazione, è ben restituita dalla catena ininterrotta di eventi, vertenze, conflitti, manifestazioni, picchetti e assemblee che segnano tutto il libro, e che l’autore restituisce con strabordante precisione.
La seconda verità che è possibile trarre dal libro è la disponibilità alla violenza politica di un pezzo importante della società italiana degli anni Settanta. L’idea di rivoluzione trovava concreta traduzione quotidiana in una pratica direttamente conflittuale, radicale, senza mediazioni, disponibile allo scontro armato, a dare e ricevere feriti e anche morti. Il culmine può dirsi raggiunto nell’aprile del 1975, non solo per il numero di morti (dei compagni, ma anche dei fascisti e della polizia), ma per la lucida (e in parte luciferina) interpretazione che ne viene data, come momento di avanzamento dello scontro di classe. Se ne evince la disponibilità a una sorta di “pensiero strategico” (ancorché criticabile sotto diversi punti di vista) in grado di fare politica anche di fronte alla morte, e anzi vedendo nella morte un passaggio tragico e inevitabile, una volta intrapresa la strada dello scontro frontale. E questo dato, lungi dal dimorare nelle teste di pochi, era acquisito a livello di massa. Questo è il fatto decisivo degli anni Settanta, la verità che li innerva: questa disponibilità alla lotta rivoluzionaria, una disponibilità che esisteva a prescindere dalle macchinazioni che pure si vogliono trovare, dal complottismo che vorrebbe spiegare qualcosa che trova indecifrabile perché inaudito o pericoloso. Perché decine di migliaia di militanti politici aumentavano dopo ogni scontro di piazza, dopo ogni arresto, dopo ogni ferito e addirittura dopo ogni morto? Questa il fatto da spiegare. E perché questa stessa parabola da crescente implode su se stessa a partire dal 1977? Per rispondere bisognerebbe integrare la storia del movimento rivoluzionario degli anni Settanta con quella più vasta della politica e dell’economia del decennio. Senza ridursi ai sociologismi che pure hanno dimorato per anni (del tipo: lottavano perché era la prima generazione “precaria”, e scemenze del genere), ma tenendo in considerazione l’orizzonte politico complessivo in cui trovava spiegazione anche la vicenda della nuova sinistra dagli anni Sessanta in poi. Le polemiche e le crisi “interne” non spiegano, sono piuttosto il corredo di contraddizioni più generali. Corasaniti approfondisce la dialettica vieppiù deteriorata tra Autonomia e Brigate rosse, tra i due tipi di violenza organizzati, alternativi più per visione politica che per prassi materiale. È una ricostruzione che si mantiene equilibrata, che non scade in quella critica morale che domina l’attuale discorso pubblico, e che restituisce un confronto di prospettive che spiega, retrospettivamente, l’imminente crisi tanto dell’opzione conflittuale pubblica quanto di quella lottarmatista clandestina. Il circolo (per un certo periodo virtuoso, poi vizioso) conflitto-repressione-organizzazione-ancora più conflitto-ancora più repressione eccetera, non poteva sostenersi in assenza di orizzonte politico-strategico. Ed è in tal senso (o questo è uno dei sensi che è possibile ricavarne) che l’autore definisce il pensiero autonomo come «pensiero della crisi»: non solo, semplicisticamente, di una società in crisi di fiducia tanto economica quanto politica; ma di un movimento in crisi di sbocchi politici, che è destinato a pensarsi dentro una catastrofe inevitabile e, quindi, incapace di pensarsi nei tempi lunghi, di assestarsi, anche non gramscianamente, ma di sicuro leninianamente. L’Autonomia è bruciata in fretta anche per l’incapacità (o impossibilità) di pensarsi ad un livello medio della lotta politica, ma questo ipotetico livello medio le era precluso da un quadro politico compattamente avverso a qualsiasi ipotesi ricettiva. Un certo nichilismo le era naturalmente consustanziale.
Nel libro si approfondiscono i rapporti, di assoluta inimicizia, tra Autonomia e Pci, ed è un passaggio obbligato, che spiega sia la radicalità, sia la precoce chiusura dell’orizzonte politico a partire dalla metà dei Settanta, e quindi l’inevitabile crisi: come poteva sostenere, la società politica italiana del tempo, la presenza concorrente di “due comunismi” tra loro antitetici? Manca però l’intreccio con la Politica, le sue (non) risposte, le sue azioni e le sue reazioni (Politica che riguarda non tanto, o non solo, il ruolo della Dc, ma ancor di più quello del Pci, che non è possibile ridurre solo ad agente di repressione, ma occorre spiegare perché, politicamente, si trasformò in questo chiudendo le porte ad ogni confronto con il movimento). A mancare (o a non essere opportunamente valorizzato) è il punto di vista dell’autore in grado di favorire interpretazioni storico-politiche complessive, illuminando gli aspetti essenziali, liberandoci da quelli superflui. È una carenza fisiologica e che non addebitiamo all’autore, quanto piuttosto al panorama di studi che abbiamo prima rapidamente evocato, che impedisce di fatto un sostegno alle tesi che si possono e si debbono avanzare in sede di ricostruzione storica. E allora, in conclusione, un libro come questo può funzionare in due direzioni non per forza alternative tra loro: come seria ed informata introduzione a una storia degli anni Settanta, per il lettore che vuole approcciarsi a questi temi; o come trampolino di lancio verso nuovi lavori di sintesi, che ci auguriamo seguiranno questa storia di via dei Volsci e la rafforzeranno.