di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

  1. Jolanda meets Mary & Anne (1952-1967)

 

Nello stesso 1952 e sull’onda del successo internazionale su schermo (a colori) di pirati e piratesse, anche l’Italia torna però a farsi sentire: e con un deciso salto di qualità rispetto ai fumettoni precedenti, visto che l’elegante bianco e nero di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero diretto da Cesare Olivieri e Mario Soldati, su sceneggiatura di Ennio De Concini e Ivo Perilli, pur nascendo come prodotto di consumo, ha effettivamente una marcia in più in termini di intelligenza, cultura e malizia. Produttori (senza sciali, ma con ottimo risultato) sono Dino De Laurentiis e Carlo Ponti, usciti dalla Lux Film che comunque distribuirà il film; e le riprese sono condotte negli studi Ponti-De Laurentiis – a parte le scene in navigazione, girate su una mezza nave inchiodata alla spiaggia di Palo, che imporrà un trattamento un po’ delicato da parte degli attori. Il film viene girato in contemporanea e sugli stessi set con un altro di Soldati pure tratto da Salgari, I tre corsari, 1952, che nei fatti costituisce il prequel.

Benché di Salgari vengano rispettati lo stile e la vivacità di fondo, grazie alla rilettura di Soldati e degli sceneggiatori nella trama piratesca irrompe la provocazione, spingendo a una radicale decostruzione del romanzo. A partire dal fatto che qui Jolanda (May Britt, che la produzione tenta di imporre come nuova Greta Garbo) è stata accolta piccolissima tra gli zingari ed educata come un maschio, formazione alle armi compresa: un quadro – il contesto picaresco, il travestimento da uomo – che l’avvicina alle colleghe ‘popolari’ Mary e Anne piuttosto che all’aristocratica di Salgari, e comunque più alle Mary & Anne di Johnson che ai modelli americani (che intendevano il sembiante maschile come un atteggiamento di durezza, più che un camuffamento). In seguito al fortunoso salvataggio della sua carrozza dalle mani dei briganti, la bella Consuelo (Barbara Florian), figlia del conte di Medina Van Gould, s’invaghisce di colei che crede uno spadaccino maschio: non è chiaro come ciò sia possibile perché i tratti di Jolanda sono inequivocabili, ma lei ritiene utile non smentire (limitandosi a commentare che Consuelo potrebbe «avere una sgradita sorpresa») e comunque accetta l’anello-lasciapassare che l’altra le offre. Però, in seguito allo scontro coi briganti, il tutore di «Jolly»[69], il paterno Sam, è rimasto ferito a morte, e le racconta la verità sulla sua origine: è figlia del Corsaro Nero, il conte di Ventimiglia, ucciso a tradimento dallo stesso padre di Consuelo. L’uomo avrebbe anzi voluto far sopprimere la piccola, ma – come nelle fiabe e, già prima, nel sofocleo Edipo re – l’incaricato del crimine, appunto Sam, l’aveva salvata; e c’è anche un tesoro di cui ora le passa la mappa perché lo recuperi.

Chiusa a questo punto la prima fase, picaresca, si passa alla seconda, nel segno della pirateria: Jolanda, in cerca di giustizia, di vendetta e naturalmente del tesoro, ritrova i vecchi compagni del padre, si innamora riamata del figlio di Morgan, Ralf (Renato Salvatori – una soluzione che permette di rispettare maggiormente il profilo dello storico Henry Morgan) e sbatte il naso contro le ambiguità della politica quando Van Gould, nel contesto della firma della nuova pace tra Spagna e Inghilterra, carpisce con un trucco il permesso di far arrestare i pirati presenti a Maracaibo. Ma la ragazza, che non si è accodata ai filoinglesi, sfugge all’arresto e raggiunge l’innamorata Consuelo per rapirla ed effettuare uno scambio di prigionieri: l’ironico, pungente insistere sul tema del genere – la sequenza della festa «costruita in funzione dell’ambiguità sessuale»[70], gli sguardi scambiati e l’occhiolino di Jolanda, il minuetto di corteggiamento, i discorsi sull’amore al chiaro di luna – rimarca il tema del travestimento dell’eroina e le relative dinamiche innescate sul piano erotico. Jolanda prende così Consuelo in ostaggio (continuando, si noti, a fingersi un uomo, e simulando di voler chiedere la sua mano): ma una certa disattenzione durante lo scambio permette a Van Gould di catturarla. Il vilain la crede un uomo al corrente dei segreti del palazzo, e tenta invano di farsi rivelare la collocazione del tesoro. Ordina dunque di frustarla, e allo spettatore non sfugge che è legata esattamente come la statua del Cristo presente nella sala: un’associazione un po’ torbida di sacro e profano cui corrisponde l’altra parallela nel convento, pieno di immagini sacre, in cui i pirati liberati cercano di resistere agli spagnoli.

All’inizio la scena è evocata solo dal suono dello staffile e dai gemiti di Jolanda; ma quando Van Gould le strappa la camicia per sottoporla a ulteriori sevizie, finisce col rivelare per un attimo «i primi seni nudi del cinema italiano del dopoguerra»[71]. Con delusione della sconvolta Consuelo, Van Gould capisce ora che si tratta di Jolanda e sta per ucciderla quando viene ferito: l’intervento di Morgan padre ha capovolto nuovamente la situazione. Van Gould finirà malissimo, alla deriva in un’imbarcazione carica di lebbrosi, su un mare pieno di squali, e in ultimo Jolanda e amici recupereranno il tesoro. Nonostante le differenze dai modelli dei film americani immediatamente precedenti, questa Jolanda in maniche di camicia può richiamare il look della protagonista di Anne of the Indies e prelude a una serie di piratesse abbigliate allo stesso modo negli anni seguenti.

La versione di Soldati costituisce insomma un primo importante passo dell’assimilazione tra l’eroina italica e le colleghe anglosassoni, sul filo di una progressiva riscoperta dei pirati che vede tornare anche la salgariana Neala ne Il figlio del Corsaro Rosso di Primo Zeglio, 1959, interpretata da Vira Silenti: ma il fenomeno verrà rimarcato in modo anche più netto in alcuni film successivi, fino a una sostanziale compenetrazione tra le figure.

A partire dall’italo-tedesco La Venere dei pirati, 1960, di Mario Costa, da un soggetto di Kurt Nachmann e Rolf Olsen rielaborato da Ottavio Poggi, e sceneggiato da Nino Stresa per la Max Production e la Rapid Film: una storia brillante in cui l’impavida Sandra, interpretata dalla bella Gianna Maria Canale (volto noto all’epoca e, fino a pochi anni prima, compagna di Riccardo Freda, che tra l’altro la dirige nell’orrorifico I vampiri del 1957) è una simil-Jolanda. Ma la pellicola ricorda al contempo le avventurose mattatrici del cinema piratesco americano. L’ambientazione è italiana, con l’ipotetico ducato adriatico di Doruzza governato dal vilain Zulian – Paul Müller, non ancora ‘divo’ dei film di Jess Franco – e dalla viperina figlia Isabella – Scilla Gabel, al secolo Gianfranca Gabellini, altro viso notissimo d’epoca in ruoli di belle un po’ ambigue, indimenticabile nel di poco posteriore Mulino delle donne di pietra, 1960, regia di Giorgio Ferroni. In risposta alle loro persecuzioni, la coraggiosa Sandra figlia del capitano Mirko diviene la più celebre piratessa dell’Adriatico, guadagnandosi per avvenenza il soprannome di ‘Venere dei pirati’: come la Jolanda soldatiana (e con il medesimo compiacimento della sceneggiatura) anche lei viene sottoposta ad angherie – incatenata a un muro per essere frustata, imbarcata su una nave di schiave che i pessimi duchi pregustano di vendere per gli harem levantini, e in seguito catturata e condannata alla forca. A salvarla appena in tempo, con l’aiuto dei predoni del mare e dei sudditi ribellatisi a Zulian, sarà l’aitante conte Cesare di Santacroce (Massimo Serato), inizialmente candidato alla mano di Isabella: infiltrato tra i pirati per catturare la ‘Venere’, ne ha appreso la vera storia e ha finito per innamorarsene. E in chiusura Sandra vedrà riconosciuto il suo vero lignaggio dal cattivo duca colpito a morte: ancora una volta, come nella Jolanda di Soldati, si scopre l’origine aristocratica di lei, di cui l’usurpatore aveva ordinato la soppressione, ma il solito sicario – qui il simil-padre Mirko – si è invece preso a carico la bimba. Segue l’ovvio matrimonio tra Sandra, legittima duchessina di Doruzza, e il conte Cesare, con Isabella ormai relegata in convento.

La maschera della ‘donna che si fa uomo’, nel caso della femminilissima Sandra, riguarda la sua abilità di marinaio e di combattente ma anche il modo di vestire, come osserva il padre putativo Mirko all’inizio del film, tentando invano di proporle un abito da dama: «non mi piace più vederti tra la ciurma vestita come un maschiaccio»; al che lei protesta che è stato lui «a insegnarmi a governare il battello, ad arrampicarmi sulle sartie, a tenere una spada in mano». E il candore (improbabile, con quella vita) della camicia che ostenta – e che compare in quegli anni come l’abito connotante eroi ed eroine della pirateria – richiama ancora una volta la Jolanda soldatiana. Battute come «Una spada non ha sesso» (così Sandra ribatte all’Albanese, un pirata che ha appena mugugnato che se fosse stata un uomo l’avrebbe sfidata a duello, venendo poi battuto) possono sembrare aperte a un superamento degli stereotipi – poi invece prontamente confermati dalla scelta di Sandra di vestire da donna quando, sulla nave, vuole far colpo sul conte.

Del resto, con la stessa tenuta in camicia da uomo si presenta, l’anno successivo, una Mary Read rivista e corretta – e finalmente appare anche lei, visto che il mito dell’amica Anne è stato anche troppo sfruttato dal cinema. Le avventure di Mary Read, 1961, segna l’esordio come regista di Umberto Lenzi – poi noto per pellicole di generi piuttosto diversi – ed è anche il primo film italiano di Lisa Gastoni, appunto interprete della protagonista. La sceneggiatura è di Ernesto Gastaldi, Ugo Guerra e Luciano Martino, il produttore Fortunato Misiano e le case di produzione Romana Film e Société Nouvelle de Cinématographie; se poi formalmente ci si ispira alla prima delle due eroine di Johnson, di fatto un riferimento forte è ancora la salgariana Jolanda.

Come in Johnson ma anche nel film di Soldati, una prima parte delle Avventure di Mary Read è ancora a carattere picaresco, con le peripezie dell’eroina eponima che, fingendosi un giovanotto, mette a frutto fortunati colpi come ladra di strada in compagnia del buffo nonno Mangiatrippa. Catturata, finisce in carcere a Londra dove riesce incredibilmente a mantenere la propria identità maschile – salvo che con il compagno di cella, Peter, di cui si innamora. A sua volta questi simula, anche di fronte a Mary, visto che non è un furfante bensì il figlio di tale Lord Goodwin arrestato per equivoco. Il giovane, liberato, fa credere a Mary che lo stiano cambiando semplicemente di prigione: ma quando lei riesce a fuggire scopre la verità e, dopo essersi tolta la soddisfazione di un paio di schiaffoni al mentitore, delusa si arruola come marinaio insieme al nonno sulla nave di capitan Poof, «il più fortunato corsaro del re». Mary è in realtà ormai costretta a mostrare la propria identità femminile, comunque svolge bene il suo lavoro, e sta cercando di resistere alla corte di Poof, quando viene avvistato un vascello spagnolo. Nello scontro che segue il corsaro viene ucciso, e gli Spagnoli hanno la meglio: però Mary, condotta nella cabina del comandante vincitore, riesce a stordirlo con una botta in testa e libera i compagni, che si impossessano della nave. Buttati a mare gli spagnoli, i pirati acclamano Mary come nuovo capitano: allora lei decide di abbandonare la guerra di corsa per predare in proprio, e assume il nome del defunto Poof.

Inizia così, per vendetta, a depredare navi inglesi: e nella prima che cattura trova una giovane, prima ballerina di Luigi XIV, attesa in Florida a una festa del viceré. La ragazza inizialmente non si accorge che Mary, nella giubba imbottita di Poof, è a sua volta una donna; ad ogni modo i vestiti eleganti della prigioniera si rendono utili allorché alla festa è proprio Mary a sostituirla. Con una specie di spogliarello danzato riesce a attrarre su di sé l’attenzione degli invitati, ma quando (ancora morigeratamente vestita: la censura non permetterebbe di fare diversamente) punta la pistola sul viceré, i pirati hanno ormai bloccato la sala e rapinano tutti i presenti.

Mary però non è felice – come nota il giovane pirata Ivan, di cui lei rifiuta la corte, ancora scottata dalla precedente esperienza con Peter. E anzi, quando scopre che alla testa dell’enorme incrociatore inviato per debellare i predoni c’è proprio il figlio di Lord Goodwin, si dirige vendicativa a New Bristol da dove quello deve iniziare la missione. Con un agguato lungo la strada, i pirati bloccano e fanno spogliare il conte di Berry e la sua pupilla: e a sostituirli alla festa del governatore inglese sono Mary e Mangiatrippa. Lì la ragazza rivede Peter, che la abborda senza riconoscerla: ma quando, in giardino, lei si rivela la sua antica compagna di cella, riesce a fargli raccontare il piano approntato per sorprendere i pirati. Catturato allora uno degli sloop della squadra, Mary fa in modo che l’incrociatore di Peter cannoneggi per equivoco nientemeno che la nave del governatore… Il giovane aristocratico, degradato, realizza che solo Mary può aver giocato quel tiro collaborando con Poof: per cui ottiene di poter tentare da solo di rendere la pariglia, e travestito da marinaio (ecco il solito infiltrato) raggiunge la base dei pirati a San Salvador. Riesce anche a salire sulla nave all’àncora e trova Mary nella cuccetta, senza credere che Poof sia lei: ma quando, catturato, ha già la corda al collo, Mary lo fa sciogliere (la solita piratessa che salva il bellimbusto) e lo sfida a duello. Peter ha la meglio, e sarebbe intenzionato – secondo i patti – a consegnare la perdente al governatore, quando iniziano a piovere colpi sulla nave e sull’abitato: gli inglesi attaccano, e Mary stordita è condotta sul loro vascello. Coricata sul ponte e creduta priva di sensi, la ragazza si considera ormai perduta e decide di togliersi l’ultimo sfizio di sparare a Peter: ma, prima di esplodere il colpo, sente che il giovane sta raccontando di aver ucciso Poof in duello e salvato la sua bella prigioniera, guadagnandosi così reintegrazione nel grado e pubbliche lodi. Nell’ultima scena, sei mesi dopo a Londra, Mary è ormai sua moglie.

Quanto ciò disti dalla storia dell’originale Mary è evidente, anche se la bellezza un po’ algida e introversa di Lisa Gastoni può rendere qualcosa delle sghembe timidezze del modello storico. Certo lo stile lieve di tutto il racconto lo inscrive nel modello dell’avventura più candida e quasi fiabesca, priva delle maliziose sottigliezze della Jolanda soldatiana e dello stesso velato sadismo della Venere dei pirati.

WHITE SLAVE SHIP, (aka L’AMMUTINAMENTO), Pier Angeli, 1961

Si era citata Polly: An Opera, di John Gay, 1729 sequel della famosissima Beggar’s Opera, 1728, come protoversione teatrale della storia di una ragazza che si traveste ‘da maschio’ e si fa pirata, con plausibile ispirazione diretta alle gesta di Anne e Mary: ed è interessante notare che del 1961 è anche un film, L’ammutinamento diretto da Silvio Amadio, che sembra ricondurre allo stesso ordine di fantasie. Il tema è quello di varie pellicole d’epoca, storie di navi piene di donne prigioniere – prostitute, vagabonde, carcerate assortite delle prigioni inglesi, naturalmente tutte giovani e carine, quasi una versione “morbida” dei WIP (= women in prison) film – che conoscono avventure sul mare tra coralità di violenze, sadismi di piccolo cabotaggio e amori. A far notare L’ammutinamento è la presenza come protagonista di una prostituta Polly interpretata da Anna Maria Pierangeli, e di Armand Mestral nei panni di Calico Jack, cioè guarda caso proprio il nome del partner (d’affari e di parte di sentimenti) delle Dinamiche Due. Vedervi un omaggio all’opera di Gay è eccessivo, ma è possibile che gli sceneggiatori (Sandro Continenza, Marcello Coscia, Ruggero Jacobbi), dovendo immaginare la storia di un ammutinamento su una nave di donne carcerate, siano andati a pescarsi qualche saggio popolare sulla pirateria trovando un cenno all’archetipica Polly.

D’altra parte Gianna Maria Canale tornerà più dura e grintosa nel 1962 con l’italo-francese La tigre dei sette mari, diretto da Luigi Capuano su soggetto di Nino Battiferri, sceneggiatura dello stesso Capuano, Arpad DeRiso e Ottavio Poggi, quest’ultimo anche produttore per Liber Film, e con distribuzione Euro International Film. Forse non casualmente si chiama Consuelo come un personaggio della Jolanda soldatiana; e a giustificare il ruolo di capitana pirata è non solo il suo stato di famiglia – è figlia del vecchio pirata noto come ‘il Tigre’ – ma anche l’abilità con le armi, che al momento della successione le fa battere persino il fidanzato William. Il padre viene ucciso da Robert, un traditore al soldo del governatore spagnolo Inigo de Cordoba (a sua volta interpretato da un godibilissimo Ernesto Calindri, con Grazia Maria Spina nel ruolo della giovane e machiavellica moglie Anna, entrambi attivissimi nel donare alla storia un piacevole sapore di commedia); e William dovrà dimostrare a Consuelo – che nel frattempo è sfuggita agli spagnoli e preda ferocemente col soprannome di ‘Tigre dei sette mari’ – di non essere l’assassino, come Robert ha tentato di far credere. Per smascherarlo si fa catturare dagli spagnoli, viene liberato da Consuelo, poi sono acciuffati tutti e due ma riusciranno a cavarsela.

Vestita come la Sandra de La Venere dei pirati, in camicia da uomo e stivali – interessante anzi notare il riciclo di stilemi nelle locandine, cfr. immagine qui sotto – , o con giubbe da capitano (a un certo punto si veste anche da ufficiale spagnolo), all’inizio Consuelo si cambia l’abito per rivedere il fidanzato tornato dalla missione, e lo scambio è indicativo di un chiodo fisso degli sceneggiatori: alla battuta di lei che gli appare con la gonna («Guarda, è un regalo di mio padre: ti piace?») William ribatte: «Ti preferisco così, vestita come una donna». Anche se poi lei rifiuta il sogno di suo padre che la vorrebbe gran dama, per vagheggiare piuttosto il comando della nave – e il film termina ironicamente col battibecco tra i due innamorati su chi debba dar ordini sulla nave. C’è d’altra parte il solito topos della forca, da cui William scampa; ma il lieto fine parallelo – garantito dall’astuta moglie del governatore, che ha fatto liberare i pirati a patto di incamerarne il tesoro – suona beffardo. Consuelo, a differenza di Jolanda, non riesce insomma a recuperare l’oro paterno e si unisce con l’amato in un clima di cocciute contrapposizioni, a lasciare sul temerario mondo dei pirati l’ombra di una sostanziale immaturità; mentre il governatore, pur non riuscendo a impiccarli, vede però confermata l’utilità istituzionale del suo ruolo e per sovrapprezzo si tiene l’oro – in una sorta di velatissima e morbida satira che in fondo simpatizza con l’autorità. Come del resto piuttosto prevedibile nel contesto ideologico italiano di quegli anni, al confronto del quale Salgari appare persino eversivo.

A conferma – se mai ve ne fosse stato bisogno – che Gianna Maria Canale figuri in Italia nei primi anni Sessanta come la donna pirata per antonomasia (oltre che mattatrice in una quantità di altri film di genere, soprattutto in costume), la vediamo tornare in maniche di camicia e stivali, spada alla mano, ne Il leone di San Marco di Luigi Capuano, 1963. Dimentichiamo i Caraibi: qui è Rossana, bella piratessa partecipe delle incursioni dei predoni uscocchi contro Venezia, ma esplode l’amore con il campione della Serenissima, Manrico Venier (Gordon Scott): ovviamente entrambi verranno sospettati di tradimento… A conferma di un certo kink, la troviamo a in certo punto incatenata a un muro, ma tutto corre in modo molto morbido tra colori vivaci, scorci lagunari e schermaglie, fino all’ovvio lieto fine. L’ultimo film della bellissima attrice prima del prematuro ritiro sarà ancora di ambientazione veneziana, Il ponte dei sospiri di Carlo Campogalliani (pure al suo ultimo film) e Piero Pierotti, dell’anno dopo, basato su un romanzo di Michel Zevaco. Poi, rimasta temporaneamente lesa al volto per un grave incidente stradale, Gianna Maria Canale si ritira in un’isola – non Tortuga ma Giannutri –, scegliendo l’invisibilità. Tornerà sul continente solo a tarda età, per la mancanza di servizi nell’isola, morendo ottantunenne a Sutri nel 2009.

In ogni caso, il successo del tema piratesco a inizi anni Sessanta può far comprendere meglio il varo di alcune strane scampagnate dei pirati in tv: e in particolare del celebre sceneggiato musicale rai Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, 1961, scritto da Vittorio Metz e diretto da Alda Grimaldi, con le continuazioni Le nuove avventure di Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, 1962, e Giovanna alla riscossa più forte di un bicchiere di gin, 1966. Trasmesso di domenica pomeriggio all’interno della cosiddetta tv dei ragazzi, il programma celebra la figura di Giovanna, «la nonna-sprint più forte di un bicchiere di gin», interpretata da Anna Campori, alla testa di una ciurma di compagni tra i quali spicca il buffo, balbettante nostromo Nicolino (Pietro De Vico); ma nella prima serie appare anche Jolanda, interpretata da Franca Badeschi. Le comiche avventure dell’inusuale eroina nei più vari luoghi della terra ibridano spunti salgariani con altri del genere cappa-e-spada (per esempio, almeno nell’ultima serie, compaiono Cirano e il dumasiano Signor de Tréville): ed è divertente paragonare il mirabolante ascensore che, se la memoria non inganna chi scrive, sposta i personaggi nel tempo e nello spazio, con il coevo tardis, macchina del tempo/astronave in forma di cabina telefonica, apparso già al tempo nelle storie del Doctor Who. Purtroppo la sciagurata prassi rai del tempo di cancellare le registrazioni – almeno quelle non giudicate degne di conservazione per la posterità – priva della possibilità di riavvicinarsi a storie indubbiamente ingenue ma di grande, surreale fantasia[72].

Lentamente però i film sui pirati si diradano: e canto del cigno dell’età d’oro delle piratesse è nuovamente una pellicola americana, The King’s Pirate (Il pirata del re) diretta da Don Weis, 1967, modesto remake del vecchio Against All Flags e basato sul soggetto di Aeneas MacKenzie con sceneggiatura dello stesso MacKenzie, Joseph Hoffman più Paul Wayne, prodotto da Robert Arthur per la Universal. Ancora una volta c’è un ardimentoso ufficiale britannico, Brian Fleming, che si infiltra tra i pirati del Madagascar e si confronta con la bella Jessica Stephens interpretata da Jill St. John: carina, ma non ha certo il carisma di Maureen O’Hara. Il fatto che invece in questo remake appaiano come personaggi alcune figure dell’originaria saga di Libertatia, assenti in Against All Flags (il capitano Mission – da leggersi come Misson – e il compare Caraccioli), confermano un ennesimo e in apparenza più filologico ritorno a Johnson.

[69] Qui come diminutivo di Jolanda, ma l’assonanza col Jolly Roger, la bandiera ‘classica’ dei pirati, pare particolarmente suggestiva: sul tema, cfr. il grande studio di Renato Giovannoli, Jolly Roger. Le bandiere dei pirati, Milano, Medusa, 2011. Intrigante, ai fini della nostra ricognizione, anche considerando che proprio a Rackham si attribuisce talora (a torto) l’invenzione di tale vessillo.

[70] Latorre, Avventura in cento film, cit., p. 196.

[71] Ivi, p. 197.

[72] Sopravvive solo, per una singola puntata, una registrazione in Super 8 di cattiva qualità girata da un attore, e donata alle teche rai dalla protagonista Campori.