di Gioacchino Toni
Il recente libro di Stefano Santoli, Fabbrica dei sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA 2010-2019 (Mimesis, 2021), si focalizza sul cinema statunitense dello scorso decennio alla ricerca delle peculiarità che lo caratterizzano rispetto alla produzione precedente. Quello preso in esame è per gli Stati Uniti un decennio segnato dal passaggio dall’era Bush a quella Obama e culminato con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, un periodo caratterizzato da una grave crisi socioeconomica che ha fatto seguito a quella finanziaria, da un incremento delle diseguaglianze sociali ma anche da una nuova presa di parola da parte delle minoranze, specialmente quella afroamericana, e delle donne soprattutto contro le molestie sessuali portate alla ribalta da diverse attrici hollywoodiane. L’onda lunga di queste mobilitazioni ha comportato per il cinema statunitense una maggiore propensione al “politicamente corretto” che se da un lato sarebbe esagerato derubricare come esclusivamente di facciata e mossa da mera convenienza commerciale, dall’altro sappiamo però quanto l’immaginario sia un campo di battaglia in cui occorre sempre guardarsi le spalle.
Il cinema americano degli anni Dieci si è trovato a fare i conti con la concorrenza sempre più agguerrita di serie televisive che ne riprendono spesso l’estetica, con la produzione di film da parte dei colossi dello streaming realizzati appositamente per il circuito televisivo e con una sempre più marcata tendenza alla visione solitaria e domestica delle opere audiovisive, cinema compreso, con tutto ciò che ne consegue per le (multi)sale. L’attuale pandemia ha sicuramente agito da acceleratore di un fenomeno in realtà in atto ben da prima del suo arrivo e che ha le sue radici profonde in mutamenti che non riguardano soltanto l’industria degli audiovisivi.
A segnare emblematicamente la chiusura del decennio indagato, Santoli individua due eventi: l’Oscar per il “miglior film” (attenzione, non “film straniero”) assegnato nel febbraio del 2020 al sudcoreano Parasite (2019), corredato dal premio alla miglior regia al suo autore Bong Joon-ho, che rappresenta per certi versi il punto di arrivo di una tendenza hollywoodiana a guardare maggiormente allo scenario internazionale e, poco dopo, l’inizio della pandemia che ha portato alla chiusura delle sale, alla sospensione delle produzioni e al rinvio della distribuzione di opere già pronte.
La premiazione agli Oscar del 2020 conferita ad un film “non americano” non è un episodio estemporaneo secondo Santoli; si tratta piuttosto dell’esplicitazione di una Hollywood sempre più globalizzata. Lungo l’intero decennio il sistema produttivo hollywoodiano si è mostrato sempre più propenso ad affidare produzioni importanti a registi non statunitensi mentre l’Academy si è rivelata sempre più propensa ad assegnare i premi più importanti guardando oltre i confini nazionali giungendo a premiare produzioni non statunitensi anche nella categoria di “miglior film” tradizionalmente riservata a produzioni nazionali destiando a quelle straniere la categoria del “miglior film straniero”.
La sistematicità del processo di internazionalizzazione del cinema statunitense è tale da poter apparire sintomo di un sistema produttivo in crisi d’identità. Sorge però un dubbio: e se questa internazionalizzazione, lungi dall’essere un’abdicazione, fosse una forma di espansionismo? Accogliere come statunitense il cinema mondiale potrebbe non essere segno di un cedimento, quanto piuttosto un modo – il più lineare? – per tentare di globalizzare la potenza hollywoodiana in un momento di crisi produttiva autoctona, facendo leva sul mestiere dei registi stranieri e in parallelo sulla risonanza mediatica mondiale degli Oscar. Il cinema statunitense sarebbe così disposto a trasformarsi, arrivando ad accogliere in sé il cinema mondiale tout cour, riservandosi pur sempre il diritto di scegliere quale cinematografia consacrare (e quale no…) (p. 216).
Insomma, Hollywood al momento sembrerebbe sopperire alla sua crisi riservandosi il controllo sull’immaginario globalizzabile a prescindere dal paese di produzione; d’altra parte i capitali necessari alla produzione non guardano, e da un pezzo, ai confini nazionali.
L’immaginario statunitense durante lo scorso decennio ha visto le ossessioni post 11 settembre evolversi in un senso di diffusa incertezza sul futuro nordamericano; la crisi finanziaria con le sue ricadute socioeconomiche, le incognite circa il futuro ruolo degli Stati Uniti su uno scacchiere internazionale decisamente mutato rispetto al passato ecc. Se non è difficile scorgere nei film il timore diffuso, sebbene solitamente non evocato direttamente, che la fine dell’impero americano sia ormai prossima, allo stesso tempo non sembra essere venuto meno quell’ottimismo a stelle e strisce che tende a negare anche solo la possibilità che gli Stati Uniti possano perdere la loro leadership politica, economica e di immaginario.
Questo ottimismo pervade le mitologie popolari rilanciate in continuazione dal cinema, e corrobora la stessa forza del Paese alle prese con le sue sfide. […] Un antico archetipo, simbolico prima che narrativo, è molto caro al cinema statunitense: a una momentanea apparente sconfitta segue il trionfo, spesso attraverso il ritorno sulla scena di un eroe che si credeva sconfitto o addirittura morto, in realtà solamente uscito di scena e nel frattempo rafforzatosi. Nella cultura occidentale l’archetipo è evidente nella resurrezione di Cristo; il percorso simbolico di morte-resurrezione-trionfo è presente nel pensiero di Carl Gustav Jung, in cui il viaggio simbolico dell’eroe porta a compimento il processo di auto-individuazione e si compie con il raggiungimento della piena consapevolezza di sé. La resurrezione è una delle tappe di Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (prima edizione 1992), che si basa sugli studi dello storico junghiano Joseph Campbell (L’eroe dai mille volti, 1949). Nella cultura e nel cinema popolare, i casi in cui si incarna l’archetipo sono innumerevoli (pp. 17-18).
Se tale archetipo si è presentato nel cinema nelle più svariate modalità, nello scorso decennio ha esasperato alcune caratteristiche già in manifestatesi sulla scena, come la precarietà e la debolezza dei protagonisti, tanto che giungono persino a poter morire, salvo poi trovare un utile espediente per risorgere.
Sul piano simbolico, non è difficile scorgervi in filigrana sia la debolezza in cui si sentono attanagliati gli USA, sia il ribadirsi dell’archetipo mitico (che funziona in modo anche più entusiasmante, visto lo scarto che si viene a creare tra vera e propria morte e resurrezione). In termini politici, queste trame possono essere lette come un auspicio per il futuro: gli Stati Uniti – che pretendono, da sempre, di incarnare il Bene – ne sapranno sempre “una più del diavolo”, e il tramonto del loro impero non potrà che essere scongiurato (p. 18).
Alla diffusione nello scorso decennio dei mind game movies, film-rompicapo, che conquistano spazio già negli anni Novanta del secolo scorso [su Carmilla], si accompagna la presenza sempre più massiccia di eroi deboli, in preda a incertezze, ripensamenti, a una percezione fallimentare dell’esistenza o alla sensazione di non essere all’altezza delle proprie responsabilità. Già nel passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta del Novecento l’eroe ha dismesso i panni muscolari per farsi più problematico e persino inadeguato ad affrontare le difficoltà che si trova di fronte. Hollywood è però benevola nei confronti dei suoi eroi; a fronte di tante fragilità e mancanze spesso concede loro una seconda opportunità che a volte significa poter rivivere la medesima azione più volte aumentando così le possibilità di successo.
Se da un lato, ricorda Santoli, questa possibilità di ricominciare l’avventura cambiandola palesa una derivazione videoludica, non di meno «a far diventare comune l’abitudine a rivivere daccapo il medesimo scenario è la diffusione dei c.d. “reboot”, in cui avviene l’interruzione della continuity di una serie, e che si differenzia dai remake, a vantaggio della rifondazione di tutta la storia» (p. 21). Il reboot non è un aggiornamento ma un vero e proprio azzeramento; il riferimento non è tanto ai film o alle serie precedenti ma ad una “generica icona” impressa nell’immaginario collettivo che si presta a molteplici declinazioni.
Dopo essersi soffermato sulla produzione votata esplicitamente all’immersione sensoriale offerta alle nuove tecnologie digitali, lo studioso analizza la nuova primavera vissuta dal western «quale persistente orizzonte mitico in cui si specchia il presente», dunque verifica «come il Novecento inizi a rappresentare un nuovo orizzonte mitico: deposito di sogni e incubi, dove si celebrano i valori americani o viceversa si individuano le radici del tradimento dell’american dream» (p. 14). Infine, l’ultima parte del volume presenta alcuni percorsi autoriali (Quentin Tarantino, Paul Thomas Anderson, Clint Eastwood, Woody Allen, Martin Scorsese, Terrence Malick e David Lynch) di cui si evidenziano evoluzioni, continuità, maturità raggiunta, rinnovamenti e nuove sfide.
Fabbrica dei sogni, deposito di incubi si rivela un interessante viaggio all’interno di quell’immaginario americano cinematografico che, con tutte le sue contraddizioni, non smette di tradire, dietro le specificità statunitensi, la sua vocazione globale. Come è sempre stato del resto, ma in maniera in parte nuova ed è questa ad essere indagata da Stefano Santoli.