di Paolo Lago
Mi sono recato a Matter Island, uno scoglio circondato da tempeste, in quanto ho avuto un posto di sottoeducatore di categoria Z presso il manicomio criminale che si trova sull’isola. Lì hanno un cane che si chiama Gesualdo, praticamente l’organizzazione della struttura è in mano a lui. Sembra infatti che parli, che emetta una voce dal suono meccanico ogniqualvolta un custode lo porta nel giro di ronda, sotto le torri battute dai libecci e dal salmastro; è veramente impressionante sentirlo parlare in modo meccanico e robotico nelle notti attraversate da vampe di venti incredibili in questi giorni di fine estate. Come impiegato di categoria Z ho avuto un ben misero alloggio: una stanza lunga, stretta, con un lettuccio che sembra una branda, scarsamente illuminata, con la finestra a nord; uno dei custodi mi ha detto, al mio arrivo, pensando di intimorirmi, che d’inverno la tramontana trasforma i sottili vetri in gelide lastre di ghiaccio. Naturalmente – ha aggiunto – il riscaldamento è irrisorio se non del tutto assente. Poi c’è l’educatore, anzi, gli educatori, ai cui ordini sono sottoposto. Trattasi di energumeni alti 2 metri con un metro di diametro (pare che sgancino delle mazzette particolari al capocuoco che praticamente cucina solo per loro); essi sono rozzi ma, rivolgendosi a me, assumono un’aria colta e professionale, mentre mi ricevono nel loro ufficio con la finestra che dà a sud. Mi hanno spiegato, in modo solerte, che nella struttura di Matter Island vi sono diversi tipi di pazienti: i più pericolosi sono i saggisti, o presunti tali. Insomma quelli che si credono saggisti. Passano il giorno intero a leggere lo stesso volume di critica letteraria e scrivono su di esso – nonché su altri scarni libri o romanzi che può offrire la biblioteca della struttura, che si trova in cantina, perciò è puzzolente e lurida – non so quante pagine al giorno. Scrivono solo a mano, con penne spesso improvvisate. Si lamentano continuamente, emettendo bave e digrignando i denti, di non possedere il materiale bibliografico sufficiente per dar sfogo alla loro monomania. Subito dopo, in quanto a pericolosità, ci sono i critici cinematografici; essi si lamentano tutto il giorno, battendo i pugni sulle sbarre, perché non hanno alcuna possibilità di dare sfogo alla loro mania, in quanto le celle non hanno televisione, né esiste un cinema nella struttura e per di più la biblioteca non possiede neanche un volume sul cinema in generale. Poi vi sono altre categorie di malati, più o meno gravi, capaci anche di uccidere; questo pensiero mi provoca un certo fastidio ma non direi certo paura. Ancora non ho avuto modo di incontrare i miei assistiti. Lo farò oggi pomeriggio. Ora vado nella mia stanzetta a riposare un po’, in attesa del lavoro – temo duro – che oggi mi aspetta. Inizio così il mio libro di memorie, appena arrivato. Tremo al pensiero dell’avvicinarsi della notte, con la voce di Gesualdo che rimbomba ogni dove.
Vorrei adesso raccontare del mio primo giorno sull’isola di Matter Island. Dunque, nel pomeriggio di ieri ho fatto la prima conoscenza con alcuni dei miei assistiti. Fra i saggisti mi è stato assegnato un personaggio curioso di nome Paco: è tranquillo, non è pericoloso. Con lui ho avuto una conversazione piacevole. Afferma di aver letto per quindicimila volte la “Critica della ragion pura” di Kant e di tentare di scrivere un saggio monumentale su tale opera. Paco vuole dimostrare nel suo saggio che l’esperienza empirica di cui parla Kant in realtà non esiste: esiste solo il trascendentale poiché esso, come la birra, emette bollicine in un’essenza vagamente giallastra. Sta scrivendo su questa sua interpretazione dell’opera kantiana un saggio di oltre duemila pagine. Pare che adesso sia arrivato quasi a pagina mille, ma di ciò che ha scritto non ha voluto mostrarmi nulla. Un altro assistito che mi è stato assegnato nel reparto ‘saggisti’ si chiama Tico. Anch’egli è fissato con Kant ma la sua opera di saggista si concentra sui romanzi di Dostoevskij che, però, in biblioteca nell’istituto non ci sono. Tico quindi procede nel suo lavoro ricordando a memoria; dice infatti di aver letto l’opera omnia di Dostoevskij per cinquantadue volte nell’arco di tre giorni e tre notti e tutto ciò che scrive si basa su tali ricordi. Di più non ha voluto dirmi, quindi non conosco l’argomento del saggio che sta febbrilmente scrivendo. Fra i critici cinematografici ho incontrato un tale di nome Beota. Penso che sia uno dei più pericolosi del’istituto, non ho ben capito su cosa stia elucubrando, però sicuramente anche lui scrive e parla (ahimè quanto parla!) basandosi su ricordi anche di molti anni fa. Incontrati gli assistiti, mi sono recato alla mensa dove tutto il cibo era quasi esclusivo appannaggio degli educatori e dei custodi, anch’essi di una stazza esorbitante. Notai che in un angolo era accucciato Gesualdo, il cane: un cameriere in livrea serviva di fronte al suo muso una quantità impressionante di manicaretti in stoviglie argentate e dorate. In quanto a me, per un impiegato di categoria Z, la cena consisteva in un piatto di minestra e in una fetta di pane dell’altro ieri. Mi sono accontentato. La notte, dalla mia branda, ho sentito la voce meccanica di Gesualdo: essa mi ha provocato un terrore indicibile. In preda all’orrore ed alla paura tremenda sono stato costretto a passare gran parte della notte nel bagno che si trova nel corridoio, sporco e puzzolentissimo. La mattina di oggi sono stato libero da impegni mentre nel pomeriggio ho dovuto incontrare il direttore di Matter Island, un personaggio a dir poco bizzarro.
Dunque, come dicevo, mi sono trovato di fronte il direttore che è un personaggio alquanto bizzarro. Innanzitutto è di un’altezza spropositata, che arriva grandemente a superare i 2 metri. Ma, a differenza degli educatori, egli è magrissimo: sembra uno di quegli zombies di alcuni films o un personaggio che assume una specie di droghe perigliose, in interni illuminati da luci verdi e blu, fumando e bevendo intrugli pieni di un color pasticca dorata. Dicevo, egli è magrissimo e il suo diametro sarà un cinque centimetri, non di più. Probabilmente, nemmeno si reca quotidianamente alla sala mensa, esclusivo appannaggio degli educatori e dei custodi, nonché di Gesualdo. Il direttore, che si chiama Stecchetti, si esprime in un linguaggio non sempre molto comprensibile. La sua voce è flebile, quasi ridotta ad un filo e usa una specie di slang derivato dai quartieri della malavita. Infatti, e questo non è un particolare di poco conto, è stato per vent’anni vicedirettore del carcere di Sing Sing; solo da cinque anni, per una sorta di promozione, è divenuto direttore di Matter Island, passando dal carcere al manicomio criminale. Ecco alcuni esempi del suo curioso slang: per salutarmi usa l’espressione “hal” che sarebbe – presumo – una contrazione di “hallo”; per esprimere cordialità dice “hellcam”, una parola anch’essa – come penso – derivata dall’inglese, anzi dall’americano (essendo stato 20 anni in America): una neoformazione da “welcome” che però finisce curiosamente per possedere al suo interno la parola “hell”, “diavolo”, “inferno”, come a dire “benvenuto all’inferno” (ma questo lo penso soltanto io, solo una mia congettura). Per indicare la finestra usa una strana parola – “metz” – che proprio non riesco a decifrare. Insomma, ho avuto una lunga conversazione con Stecchetti ma di quello che ha detto avrò capito il 10 per cento; spero proprio di non commettere qualche errore in futuro, derivato da una misinterpretation delle sue parole. Questo è accaduto ieri mattina. Il pomeriggio ho fatto una passeggiata sulle scogliere di Matter Island; ci ho messo solo mezz’ora per fare il giro di tutta l’isola. La cena, poi, mi ha riservato una minestra insipida, con un filo d’olio invecchiato e una fetta di pane secco. Pranzi luculliani erano apparecchiati per educatori, custodi e per Gesualdo. Oggi ha piovuto tutto il giorno e ho perciò passato la domenica nella mia stanza, in branda, leggendo un libro che mi sono portato dietro, “La critica del giudizio”. Stasera non mi recherò nemmeno alla mensa, presumo. Attendo solo la voce meccanica di Gesualdo che farà tremare sbarre e finestre.
Dopo un’altra notte passata praticamente nel terrore (Gesualdo parlava sempre più forte e per un attimo ho temuto che la sua voce metallica facesse sbriciolare gli scogli dell’isola), terrore che comunque mi ha toccato ben poco (sono bastati pochi giorni qui per rendermi duro ad ogni evenienza) dunque, dicevo… dopo un’altra notte passata nel terrore, stamattina ho avuto di nuovo molto da fare: è stato Beota a creare dei problemi. Dava in escandescenze, urlava, sbavava, emetteva suoni inconsulti tanto che i custodi hanno dovuto trascinarlo a forza nella stanza degli educatori, con indosso una camicia di forza. Io e il capo-educatore lo abbiamo quindi interpellato. Parlava di cose strane utilizzando termini strambi: farfugliava a proposito di inquadrature, di tempo filmico, di sintagmi acronologici e cronologici, di sequenza a episodi, di velocità sintattico- analettica che si lega allo scorrere dei vari sintagmi, poi di acusma, di voce acusmatica, di silenzi, di primi piani e piani americani, di mdp (?) e di tante altre scempiaggini. Ci siamo veramente preoccupati, tanto che l’educatore stava per chiamare l’elisoccorso. Si è improvvisamente calmato non appena l’educatore ha nominato la parola “Ciak”. Il Beota è quindi ammutolito, e senza proferire altra parola si è chiuso in un mutismo insistente. Ha voluto tornare in cella subito. Anch’io l’ho riaccompagnato insieme all’educatore e ai custodi. Non ha più dato problemi per tutto l’arco della giornata. L’educatore mi ha messo in guardia dal Beota, dicendo che a volte potrebbe essere veramente pericoloso. Davvero, mi sono un po’ allarmato. Ho trascorso poi il pomeriggio a studiare il volume di psichiatria criminale che mi ha passato l’educatore, ha detto che è un testo fondamentale. La sera mi sono recato alla mensa, avendo un po’ di fame; per me la solita minestra col pane vecchio. Poi, dopo cena, ho finito di leggere il volume, molto interessante ed istruttivo. Poiché non riuscivo a prendere sonno sono poi uscito per fare quattro chiacchiere con Gesualdo…
Purtroppo, da Matter Island, non ho molta facilità nell’accesso al web, solo ogni tanto nella stanza degli educatori, come sto facendo adesso. Continuo comunque nel narrare le vicende legate al mio impiego di categoria Z che continuerà, almeno, per tutto il prossimo mese, di più non sono riusciti a dirmi, anche noi sottoeducatori siamo fra i precari più destabilizzati. Oggi ho fatto un giro per le celle, Paco, Tico e Beota erano abbastanza tranquilli e ho conosciuto qualche altro ospite della struttura. In un altro settore vi sono coloro che si credono piloti di razzi: sì, avete capito bene. Credono che la cella sia la cabina di pilotaggio di un razzo interplanetario diretto verso nuovi mondi. Nella cella di un tale Brisaldi, ho trovato volumi su volumi sullo spazio e sui viaggi spaziali; sembra un controsenso, infatti nelle celle dei critici letterari non ci sono libri mentre in questa sì. Ma Brisaldi, tutti i volumi che possiede, se li è accumulati negli anni, anche in altre strutture manicomiali dove era più facile comprare materiale dall’esterno. Mentre i critici e i saggisti, invece, sono pochi anni che sono nella struttura e sono stati solo qui, a Matter Island. Insomma, Brisaldi mi ha narrato di un suo viaggio nello spazio: è durato diversi mesi – mi dice – perché la navicella doveva allinearsi ad un altro spazio-tempo, completamente diverso dal nostro. Nei viaggi ha incontrato altre navi spaziali, come quella agli ordini dell’ammiraglio Nemos, una nave gigantesca, che portava aiuti materiali per le colonie di Alfa Centauri. Mi ha anche descritto gli abitatori del pianeta Strinzo: del tutto simili ai terrestri ma con una intelligenza sviluppata miliardi di volte più della nostra. Ho chiesto a Brisaldi come mai non ha mai scritto nulla sui suoi viaggi; in altre celle ci sono critici che, su idee astratte, scrivono migliaia di pagine mentre lui che, almeno a quanto dice, queste vicende le ha vissute veramente, non scrive nulla. Brisaldi mi ha risposto con pacatezza che non vuole scrivere nulla perché ha paura che possano rubare i suoi segreti. Solo quando uscirà confiderà a un suo amico che abita sugli Scali Barbeglio, tale Leopoldo Barboni, tutte le sue avventure e , con l’aiuto del Barboni, ha intenzione di scrivere un libro di memorie. Il Brisaldi mi ha dato l’idea di una persona posata, quasi esente da crisi. L’educatore mi ha confermato la mia idea. Adesso sto scrivendo per gentile concessione dell’educatore, il dott. Smilzi, che mi sta sedendo a fianco. La cena è finita da poco e dopo cena ci siamo recati subito qui, essendo il suo ufficio molto vicino alla mensa (per motivi strategici, come ho già detto). Fra poco mi recherò nella mia stanza. Poco fa ho visto Gesualdo che già dormiva, forse a causa della cena abbondante (io invece ho mangiato solo una scatoletta di tonno e acqua di fonte). Probabilmente, allora, stanotte non sentiremo la sua voce.
Vorrei adesso raccontarvi il mio viaggio di ritorno da Matter Island, poiché è scaduto il mio contratto di aiuto-sottoeducatore di categoria Z. La barca che collega Matter Island alla terraferma (che passa una volta ogni due mesi) è arrivata lo scorso 10 aprile alle 6 di mattina. Alle 5 venni svegliato dalla voce meccanica del cane Gesualdo che già stava gustando la sua succulenta colazione: dolci tipici dell’isola, caffellatte insaporito con crema alla nocciola, biscottini isolani, nonché il famigerato, burroso “pane del mozzo sottopagato”, vanto della panificazione locale (proveniente dall’unico panificio dell’isola gestito da un ex internato di origine greca, Troglos Ditas). Quindi mi svegliai: per me il bar della struttura offriva solo un caffè corto e una scatola di gallette di due mesi fa. Mi preparai al lungo viaggio con questa robusta colazione. Il barcone che faceva la spola bimensile fra Matter e la terraferma era una vecchia, piccola imbarcazione norvegese della fine dell’Ottocento, riadattata con un motore a scoppio e un funzionamento a pedali qualora il motore si fosse guastato. Era comandata dal capitan Barbaccia, un vecchio lupo di mare che ne aveva viste di cotte e di crude. Quel giorno non entrai a visitare i miei assistiti. A tutti avevo detto che mi sarei assentato per un periodo non lungo, per evitare che dessero in escandescenze. Tico, Paco, Beota mi avevano fatto un mucchio di richieste: libri di critica letteraria, videocassette (poiché ignoravano i supporti dvd), manuali di critica cinematografica, nonché trecento televisori. Assurde richieste che non avrei mai potuto esaudire. Il Brisaldi mi diede il suo libro di memorie. Mi disse che dovevo portarlo al suo amico Leopoldo Barboni che abita sugli Scali Barbeglio, nella città di Citorno, lontana meta del mio viaggio. Spero che il Barboni riesca a farlo pubblicare.
Sono salito sulla barca del capitan Barbaccia e ho cominciato la mia avventura. il mare era calmo, quindi il barcone è partito senza problemi. La traversata durò 12 ore durante le quali ho potuto bere solo un bicchiere di acqua riciclata, poiché il Totano II, la barca del capitano, non aveva provviste perché le aveva lasciate tutte a Matter island. Inoltre, durante la traversata, il motore si ruppe e dovetti pedalare per almeno tre ore insieme all’equipaggio composto da marittimi indonesiani. Arrivammo a terra alle 18 dello stesso giorno (per fortuna, con l’avvento della primavera le giornate si erano allungate). Il luogo dove approdò la barca si chiamava Port Metal: vi era un solo barraccio per marinai e sbandati e una stazioncina solitaria. Entrai nel locale e un personaggio del luogo, tale Zoro, mi apostrofò con queste parole: “dove credi di andare, non sai che a Port Metal finisce il mondo? Da qui puoi andare solo a Matter Island”. Spiegai a Zoro che io provenivo proprio da lì e né lui né qualsiasi altro losco figuro di quel localaccio sarebbe riuscito a intimidirmi.
Dopo il massacrante viaggio per mare mi sono ritrovato nell’unica locanda della località denominata Port Metal. Dopo l’incontro con Zoro (un losco figuro con un mantello, che appariva al calar delle tenebre) mi recai nella stazioncina ad aspettare il treno. Zoro, biecamente, da lontano controllava i miei movimenti. Il treno arrivò dopo 45 minuti. I viaggiatori erano proprio pochi: chissà, forse oscuri viandanti che cercavano un varco per l’inospitale Matter Island, magari da raggiungersi con mezzi di fortuna, o forse, semplicemente, per fermarsi a Port Metal e bearsi della sua malinconica inquietudine, per girovagare sotto le strutture metalliche e scure, forse mostri industriali di qualche attività perduta di catena di montaggio postfordista, che ergevansi intorno. Il locomotore che trainava il trenino era infatti un Ford Canivacci del 1956, ed emetteva digrignanti sbafature di grigio da elucubranti ciminiere che si trovavano sopra la sua struttura. Salii in un vagone centrale: i seggiolini erano di legno e i pochi viaggiatori avevano un’aria malandata e stanca, vestiti come lontani cow boys di spaghetti western; ma non mangiavano spaghetti: avevano bensì con sé dei portavivande dove si trovavano succulenti fagioli all’uccelletto. Essi mi guardarono biechi, sfregando le ossute mani sui cinturoni sui quali si celavano forse armi da fuoco. Fra di loro vi era anche il famigerato Tom Eis, al quale Bob il Dritto regalò la sua chitarra per una pizza ed un fucile. Dopo venti minuti il treno giunse al capolinea: una piccola località con tre case e una stazioncina perduta in una campagna sterminata, chiamata Camp Ilias. Gli oscuri personaggi che viaggiavano con me si fermarono in attesa di altri treni, forse verso nord o verso il sud del mondo. Fra i personaggi in attesa del treno notai un fumatore di pipa, una pipa lunga come quelle fumate un tempo dai secessionisti e una giacca di velluto color pisello come se volesse giocare con se stesso al tiro al piattello. Non gli rivolsi parola, anche perché era impegnato a conversare con un lavoratore che puliva escrementi dai binari. Un altro personaggio era chiamato L’Olandese viaggiante ed era proprio inquietante: allampanato, lumperproletarizzato, forse di altezza oltre i due metri; pare che egli si aggirasse quotidianamente sulla linea fra Port Metal e Camp Ilias. Dopo due ore di attesa arrivò un altro treno diretto a nord. Era quello che dovevo prendere io per recarmi a Citorno. Salii e mi sedetti fra i magri cavalieri dell’irreale dagli occhi perforanti di nostalgie feroci. Zigani suonavano mandolini e cetre azzurre mentre praterie e colline di smalto verdastro come il mare il treno attraversava. Dopo due ore giunsi a Citorno e scesi: mi trovai solo, solo con la mia sacca da viaggio, sul binario, all’interno della stazione.
Quest’ultima era gigantesca. Una sorta di gabbia metallica da cui si dipanavano immani braccia di ferro sovrastava i binari che saranno stati oltre cinquanta; a est, perdutamente, si perdeva lo sguardo in una miriade di campi sui quali si vedevano le striature nere dei binari. Nonostante l’ora tarda migliaia di viaggiatori si incontravano e salutavano nei luoghi della stazione, elegantemente costruiti in un liberty primo novecento, stile bombardier, illuminati da diverse lampade a gas. I passeggeri erano vestiti in fogge antiquate, le dame avevano ombrelli e i signori cappelli a tuba lunghissimi e fumavano sigari nostrani dalle etichette dorate. Sulla soglia della stazione si apriva un enorme vialone luminescente, circondato da entrambi i lati da palazzi stile liberty. Nonostante fosse tardi, vi era un via vai incessante di veicoli, anche corriere pubbliche. Mi dissero di prendere la corriera della sera, il 28 barra N. In venti minuti arrivai a destinazione, sugli Scali Barbeglio. Questi ultimi erano bellissimi: un lungo canale correva a fianco della via che dovevo percorrere, una via costellata di palazzi di pregio, illuminata da eleganti lampioni a gas. Uomini con tuba, mantello e pince-nez camminavano avanti e indietro, persi in un’incessante allegria, accompagnati dalle loro elegantissime dame. Cocchi e carrozze sostavano ovunque e vicino al lungo canale degli Scali si intrecciavano altri canali più piccoli, disseminati di eleganti viuzze, mentre un vento primaverile si sollevava dal mare. I cavalli che conducevano i cocchi nitrivano allegramente e io avevo già dimenticato Matter Island. Cercai il palazzo del Barboni, quando ripensai all’odore del mare in primavera; mi ritrovai davanti all’elegante portone e rabbrividii per la frescura di quella sera di primavera e per il suo meraviglioso, gioioso silenzio. Rimasi lì finché non mi guardai intorno. C’era soltanto la mia cameretta di Matter Island, gli appunti per i miei assistiti e un solo rumore: la voce del cane Gesualdo. Non ero mai partito.