di Francisco Soriano
Zehra Doğan è un’artista mirabile e incandescente. È curda. Nel 2016 dopo gli efferati crimini turchi contro le comunità curde, Zehra Doğan decise di rappresentare con i suoi disegni la città martoriata di Nusaybin, che si trova in prossimità del labile confine con la Siria, spesso avamposto di violenze inaudite ed esecuzioni mirate anche contro attivisti e giornalisti. L’artista è stata perseguitata e, per la denuncia delle atrocità compiute nei confronti del suo popolo, è stata condannata dalle autorità turche a circa 3 anni di reclusione con una sentenza che l’ha vista imputata per terrorismo. In carcere le è stata riservata la prigione numero 5, quella più dura delle famigerate celle di Diyarbakir. L’imputazione di terrorismo ai dissidenti politici in Paesi come la Turchia, l’Iran, la Siria e l’Egitto, viene utilizzata per i reati di opinione, propaganda e dissenso politico contro le autorità. Tuttavia durante tutta la sua reclusione carcerieri e secondini non avevano fatto i conti con l’indomita Zehra. In prigione la giovane attivista non possedeva materiali e strumenti di lavoro: né pennelli né colori, ma riusciva lo stesso a produrre disegni. La genialità di Zehra non conosce confini: creativa e tenace ha utilizzato capelli, sangue mestruale, caffè, tè, cibo, dalla salsa dei piatti al caffè, alla curcuma, al succo di bucce di melograno e acqua.
Zehra Doğan è giovanissima. Nasce proprio a Diyarbakir, in Turchia, nel 1989. Laureatasi alla Fine Arts Program della Dicle University è stata una delle fondatrici della prima agenzia di stampa femminile turca: la “JINHA”. Dopo sei anni di attività l’agenzia viene chiusa dalle autorità turche durante lo stato di emergenza con l’accusa di sedizione. Proprio in quegli anni la giovane e poliedrica artista riceverà diversi riconoscimenti, fra cui il Metin Göktepe Journalism Award. Giornalista nel conflitto in Iraq e Siria è stata fra i primi corrispondenti di quei territori a parlare con le donne yazidi, vittime degli aguzzini dell’ISIS che le sottoponevano a torture sessuali e compravendita fra bande, proprio nel nord dell’Iraq. La narrazione delle battaglie fra il PKK e l’esercito d’occupazione turco nelle città di Cizre e Nusaybin, le è costata molto cara: detenuta agli inizi del 2016 a Mardin è stata posta in custodia cautelare per 5 mesi. Successivamente è stata rilasciata sotto controllo giudiziario e, dopo la sua prima udienza in tribunale, avvenuta nel dicembre del 2016, ha subito la condanna a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di reclusione per propaganda terroristica e per aver raffigurato, sotto “copertura giornalistica”, il dipinto dell’esercito turco in atto di occupare i territori curdi di Diyarbakir. Zehra è la prova evidente di quanto l’arte e la creatività possano essere elementi di lotta molto incisivi e, soprattutto, di destabilizzazione di ogni potere autoritario.
In carcere e in diverse occasioni quando è tornata in libertà, l’artista ha comunicato con i suoi dipinti in modo originale, rappresentando la tragica deriva oppressiva nei confronti dei curdi. In realtà Zehra è finita in carcere e ha subito tortura per aver riprodotto, con un suo disegno, un’immagine diffusa proprio da siti che inneggiavano sui social all’invasione turca nei territori curdi. Le immagini della vittoria turca e della sconfitta del PKK, con tanto di carri armati e bandiere turche sulle rovine di una città devastata, erano apparse anche su Twitter. La voce di Zehra Doğan è autorevolissima nel mondo dell’arte, nel giornalismo, nella lotta contro gli oppressori e per i diritti di genere. Le sue riflessioni partono dai presupposti ideologici e teorici tracciati dal prigioniero politico Apo, Abdullah Öcalan, che non solo combatte per l’autonomia dei popoli curdi ma ha contribuito all’elaborazione e comprensione, anche da un punto di vista antropologico, delle dinamiche patriarcali, maschiliste e autoritarie di una società fondata su antichi equilibri feudali. Il contributo del leader curdo è incommensurabile soprattutto perché le sue intuizioni si sono tradotte in pratiche di governo reali di emancipazione e autodeterminazione, nel tentativo riuscito sotto gli occhi del mondo intero di quanto la condivisione e la propensione all’egualitarismo siano pratiche possibili e perseguibili nella realtà, senza la necessità di cedere il passo alla retorica dell’impossibilità a realizzarle. Inoltre ha elaborato una nuova visione di rivolta femminile, necessaria per la liberazione di tutta la società dai vincoli patriarcali e autoritari imposti dalle tradizioni e gestite dai maschi. La rivoluzione femminile è la conditio sine qua non di ogni progresso che non sia una mera rappresentazione o cosmesi di una società di eguali che, in realtà, è invece la proiezione dell’ipocrisia e del sopruso: “La portata della possibile trasformazione della società è determinata dalla misura della trasformazione raggiunta dalle donne. Similmente, il livello di libertà e di uguaglianza della donna determina la libertà e l’uguaglianza in tutte le aree della società. Quindi la democratizzazione della donna è decisiva per la costruzione permanente della democrazia e del laicismo. Per una nazione democratica, anche la libertà delle donne è di grande importanza, perché una donna liberata costituisce la società liberata. La società liberata a sua volta costituisce la nazione democratica. Inoltre, il bisogno di ribaltare il ruolo dell’uomo è di importanza rivoluzionari”. Questa elaborazione è una vera e propria “ideologia di liberazione femminile” che si definisce come gineologia: “un termine scientifico necessario che si basa sul principio che senza la libertà delle donne nella società e senza una reale coscienza che circonda le donne nessuna società può definirsi libera”.
La magistratura turca con processi-farsa nei confronti di tutti i dissidenti al regime del presidente Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato quanto, questo organo istituzionale di primaria importanza per la sopravvivenza di una democrazia effettiva, possa essere asservito al sistema di un potere repressivo e brutale che ha soffocato con crimini riconducibili a una studiata strategia del terrore, migliaia di dissidenti. La dilatazione dell’interpretazione del crimine di terrorismo nei confronti dei dissidenti è una strategia insopportabile: l’architettura del sistema giudiziario turco ha una peculiare proiezione kafkiana e persecutoria che ritenevamo possibile solo in letteratura. Oltre alla mancanza di indipendenza e l’impossibilità di contestare con mezzi giuridici le decisioni della magistratura, i giudici turchi a più riprese hanno arrestato gli avvocati difensori di quanti venivano accusati di terrorismo, per il solo motivo di aver espresso le proprie opinioni diffondendo il racconto di fatti realmente accaduti o per atti che sono stati reputati lesivi dell’integrità dello Stato. La sentenza che ha condannato Zehra così affermava in una delle sue parti: “L’imputato ha fotografato una scena a Nusaybin e ha dipinto bandiere turche su edifici distrutti. È molto chiaro che questo dipinto è contro le operazioni condotte a seguito della politica di barricate e trincee dell’organizzazione terroristica PKK, che include senza dubbio violenza e forza. Questo dipinto va oltre il limite della critica alle operazioni compiute dalle forze di sicurezza per ripristinare l’ordine pubblico ed è propaganda per la politica delle barricate e delle trincee del PKK”. Il dispositivo contiene delle falsità: Zehra non ha mai scattato foto che ritraessero l’occupazione turca (ma ha tratto dalla foto diffusa dai social turchi l’ispirazione per raccontare con un disegno quanto fosse davvero accaduto nei confronti dei curdi). Inoltre l’aggressione turca non è dovuta alla “politica delle barricate e delle trincee” dei popoli curdi che, in realtà, subiscono un’aggressione sistematica e hanno il diritto di difendersi. È di dominio planetario quale sia la politica militare dei turchi nelle aree di frontiera nei confronti dei popoli curdi e dei dissidenti al suo interno. Nella sentenza si afferma addirittura che il dipinto di Zehra “va oltre le operazioni militari”, sottolineando in pratica che neppure il diritto alla rappresentazione degli accadimenti sia permesso agli occupati. La questione della “propaganda terroristica” riferita come un’accusa all’intervista di Zehra a un bambino colpito dagli scontri di Nusaybin è un’offesa al diritto di cronaca dei giornalisti, un atto di insopportabile mistificazione nel tentativo di confondere le vittime con i carnefici.
Zehra Doğan dipinge dunque lotta. Dal carcere lo ha fatto scrivendo un vero e proprio reportage sulla tortura, la carcerazione ingiusta e la violenza psicologica: “Prigione numero 5” (Edizioni Becco Giallo, pagine 128). Un’opera commovente, unica e originale che rappresenta l’orrore dell’occupazione e di un genocidio silente, ipocritamente taciuto in Occidente, per mera convenienza strategica vista l’importanza della Turchia nello scacchiere geopolitico del Mediterraneo, soprattutto per il commercio di armi e per le politiche di contenimento all’immigrazione. Questo delitto contro l’Umanità ha un terribile peso storico che sarà difficile occultare. Nessuno lo può privare del suo profondo senso di ingiustizia e disumanità. Zehra lotta in nome delle donne. É protagonista di una voce legittima e autorevole della attuale politica curda: “Il mondo patriarcale vomita le sue guerre su di noi, impone le sue discriminazioni di genere, sociali ed economiche. La guerra che sta conducendo contro di noi non è una semplice guerra dei sessi, di dominio, è anche una guerra ideologica, che detta ancora regole sul modo di comportarsi, di vestirsi, di essere belli, di praticare il sesso, di procreare. Ma le donne lottano. Sono, in diversi angoli del mondo, su più fronti, ma è una lotta. Dobbiamo porre fine al dominio perpetuato dal capitalismo, oltre che dal patriarcato. In Kurdistan il posto delle donne è molto diverso. Perché c’è una resistenza come quella del Rojava, e sono le donne che stanno in prima linea. È la prima volta in Medio Oriente che una rivoluzione è guidata dalle donne”. “Prigione numero 5” è un testo che contiene una enorme carica ideologica, rappresenta un documento storico ineludibile e si riconosce come straordinariamente originale nel panorama del filone della letteratura carceraria e fumettistica.
Zehra è consapevole delle armi che ha a disposizione per la sua lotta e lo dice a più riprese in varie interviste: “Durante l’interrogatorio dopo essere stata arrestata, mi hanno chiesto di continuo, con quel modo di fare tutto maschile: “Perché fai questo lavoro? Perché fai reportage? Perché disegni?” in realtà quando abbiamo iniziato il nostro lavoro a JINHA, che nasce dalla resistenza femminile abbiamo afferrato la penna dicendoci: “Scriveremo senza pensare a cosa ne diranno gli uomini. “E mentre scrivevamo abbiamo imparato che “quando le donne si mettono a scrivere, l’immagine degli uomini allo specchio inizia a sfumare”. Per questo non mi sentivo obbligata a rispondere. Anche rinchiusa dietro sbarre di ferro, non potevano togliermi le mie armi migliori contro gli oppressori: la penna e il pennello”. Proprio l’esperienza carceraria aveva fortificato l’idea della irreversibilità della lotta che Zehra continuava dal carcere aggirando i controlli dei secondini-torturatori, grazie all’intuizione di disegnare sul retro delle lettere lasciate in bianco e speditele dall’amico Naz Oke, che le scriveva su carta kraft per consentire alla nostra artista di continuare periodicamente il racconto del quotidiano carcerario. Una rete di attivisti e amici hanno fatto così emergere questi capolavori narrativi facendo fuoriuscire dal carcere le lettere e dando una dimensione di “cronaca in diretta” alle violenze subite dalle donne imprigionate, come mai era avvenuto fino ad ora. Zehra avrebbe voluto parlare e raccontare di più, dei bimbi imprigionati insieme alle loro mamme, delle prigioniere malate e non curate, delle torture fisiche e psichiche subite sistematicamente: “È la prima volta in Medio Oriente che una rivoluzione è guidata dalle donne. Anche in Turchia, in particolare dagli anni ’90, c’è stata una resistenza molto significativa da parte delle donne. Cito esempi dalla mia terra, ma ci sono casi simili dappertutto. Non è solo una lotta per l’identità. Contemporaneamente alla lotta per l’identità, le donne conducono una lotta di genere. Questo incontra quasi sistematicamente una risposta violenta da parte degli stati, perché la lotta delle donne è vista come una minaccia, perché tutte le leggi sono principalmente patriarcali e maschiliste. E il campo dell’arte non fa eccezione”.
L’artista curda rivendica il ruolo delle donne ed è consapevole del retaggio millenario nella gestione del potere, con i suoi soprusi, del sesso maschile: analizza ed espone le dinamiche di potere, afferma con sagacia che è necessario “estirpare il maschile in noi”, penso a questo dettame considerato naturale, come una norma, che è presente negli uomini come nelle donne, ma penso che le donne – con la loro lotta – stanno marcando questa epoca e che saranno loro a cambiare il mondo”.
Nella prigione numero 5, nata dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, i dissidenti trovano il dolore e la violenza pensata dalle autorità per svuotare le loro anime, denigrarli, deturparli, mutare addirittura i corpi, espugnare l’orgoglio e la dignità tipici del popolo curdo. Ma come per Zehra, alla repressione più subdola e profonda, corrisponde necessariamente una reazione uguale e contraria. Fra immagini tragiche e racconti straordinariamente dolorosi, il fumetto-racconto-testimonianza-memoria scorre come un fiume in piena, attivando in noi per la sua unicità, consapevolezza e convinzione di lotta. Questo testo è una esperienza letteraria e figurativa che imprime e sedimenta conoscenza, indagine, riflessione, rivolta. L’opera si innesta sul genere del fumetto carcerario: nel ricordo delle opere di Mana Neyestani testimone fedele dell’esperienza carceraria iraniana e di Marjan Satrapi che, a lungo, quest’ultima ci ha fatto conoscere gli eccidi della rivoluzione khomeinista di dissidenti e comunisti, narrando anche la quotidianità delle giovani iraniane in un vissuto di oppressione e maschilismo. È nell’ultima pagina della Prigione numero 5 (l’unico foglio di carta che non è riuscito a “evadere” dal carcere di massima sicurezza, testimoniato dal timbro della commissione di censura) che Zehra ci trasmette l’immagine-metafora di una libertà dalle ali tarpate: quella di un uccello alato con le ali impigliate nel filo spinato della finestra di una cella da cui si sporgono altri uccelli-compagne di lotta: Quando attraversi // la porta, se ti giri, // attraversi lo sguardo di quelle // che restano. In un istante ti // senti ferita, come l’uccello // la cui ala si è impigliata nel // filo spinato. Né del tutto libera // né più prigioniera // dopo tutto // che cos’è la libertà?
Per i curdi lingua e poesia, voce e silenzio, sono il grande filo rosso che lega le comunità curde disperse nel Vicino oriente e nel mondo. La poesia è afflato, è parola e, come sostiene Zehra Doğan, arma e non solo metafora della lotta. La poesia è incisione, immediatezza, voce e scritto, rappresentazione artistica, è senza tempo ma nella storia. La poesia è soprattutto sincerità, onestà e sentimento: “Penso che l’arte plastica e la poesia procedano di pari passo. Nei miei disegni, ciò che orientava e canalizzava le mie emozioni era la poesia. Questo è il motivo per cui le poesie di Ahmed Arif, Didem Madak, Nilgün Marmara, Forough Farrokhzad sono importanti per me. Mi hanno sostenuta”.
Zehra Doğan è un’artista mirabile e incandescente. È curda: “Non capisco perché veniamo gettati in prigione. Ne usciamo ancora più forti”.