Matteo Minelli; Partigiani contro. La resistenza oltre la narrazione istituzionale; CR Edizioni; 2021; 15€; 184 pp.
Negli ultimi anni, quello svolto dal collettivo Cannibali e Re/Cronache Ribelli è un lavoro prezioso: un’opera di divulgazione storica al grande pubblico che ha saputo coniugare ricerca storiografica, uso del social media ed autorganizzazione in un’esperienza piccola ma dal grande valore. Nata come pagina facebook che riscopre e racconta vicende e personaggi, spesso rimossi, della “storia dal basso”, in poco tempo è riuscita ad evolversi in un progetto editoriale autogestito ed autofinanziato, ben più che “storytelling”.
Quella di raccontare una storia di parte, di ricostruire una radice comune tanto storica che culturale di un universo di lotte e resistenze è un compito importante quanto fondamentale, tanto più in una fase come quella attuale di sbandamento e confusione generale; un’opera prettamente divulgativa ma con non secondarie ricadute politiche.
La centralità del politico nella narrazione storica emerge in maniera netta e chiara nell’ultimo volume del collettivo: una rassegna di cinquanta storie esemplari di partigiani e partigiane, spesso stranieri ed internazionalisti, altre volte teppisti autodisciplinati, altre ancora militanti di lungo corso o perfetti idealtipi di cittadino piccolo borghese convertiti alla lotta partigiana.
Quando si parla di resistenza e partigiani, si sa, si opera su di un terreno di continua battaglia, attaccato da destra nell’opera di condanna delle forze di liberazione e di riabilitazione dei lasciti del ventennio mussoliniano; da sinistra nell’agitare il partigianato come una bandiera sbiadita, depotenziata fino all’inutilità, per rivendicare una immacolata superiorità morale che basti a coprire la desolante assenza di programma reale.
Dalle interrogazioni parlamentari per abolire il venticinque aprile, a quelle per renderlo inno nazionale, da “bella ciao” cantata dai commissari europei a “partigiani e repubblichini ragazzi che credevano in quel che facevano”.
Se si esclude l’accanimento, anche giuridico, sulla stagione rivoluzionaria degli anni ‘70 non esiste altro passaggio storico della storia nazionale italiana, cui sia toccato in sorte questo triste destino di mistificazione e contesa becera.
Ora, in una fase in cui il reflusso dell’ondata di populismo nazionalista, che solo tre anni fa sembrava il cavallo vincente destinato a gestire le leve del potere, ha lasciato spazio ad una stabilizzazione compatta del blocco liberale, la figura del partigiano torna ad essere mobilitata come custode e garante simbolico della democrazia liberale e, fondamentalmente, apolitica, ovvero priva di soggetto attivo e divisioni sociali.
È tornata in primo piano l’immagine del partigiano lindo e pinto, vestito di bianco e senza mitraglia che sconfigge le forze del male per costruire il regno della democrazia. È quel partigiano pacifista che ieri ha convinto l’invasore teutonico a lasciare in pace il popolo italiano, che oggi invita alla prudenza, alla responsabilità e all’amor di patria.
E invece i partigiani erano gente dura, perché duri erano i tempi, che a militi tedeschi e gerarchi fascisti gli tirava le bombe a mano nei bar e li ammazzava nelle imboscate di montagna e negli agguati cittadini. Gente molto spesso abituata al lavoro di fatica dei campi e delle officine che nelle camice nere, prima di vederci un’abiezione morale della storia, ci vedeva le mani avide del podestà e dell’agrario, della miseria imposta dall’economia di guerra, degli amici sindacalisti ammazzati come cani e dei figli e parenti mandati al macello in terra russa o africana.
Nella resistenza al nazifascismo son confluite etica politica, volontà di riscatto, fuga, senso di insopportabilità, desiderio di vendetta. Sono tante, sfaccettate e contraddittorie le istanze messe in gioco, così come le soggettività che le hanno portate avanti; e se l’egemonia, oggi messa in ombra, è dei combattenti comunisti, non di meno sono operativi socialisti, democratici, monarchici, cattolici.
È questo caleidoscopio di inimicizia politica, con le sue volontà divergenti, a fare della resistenza un caso magistrale di guerra civile, una fratturazione potente dell’ordinamento sociale cui corrisponde una lotta tra i diversi corpi sociali per decidere chi e in quale misura debba ridisegnare la cornice istituzionale della vita collettiva. Qui si inseriscono le storie delle donne che disertano il ruolo di custodi del focolare per vestire i panni di combattenti, qui si creano le repubbliche partigiane come organismi di potere popolare nelle montagne,qui si sviluppa “l’amor per patria nostra” tanto differente da quello della propaganda di regime; qui gli amici si ritrovano compagni di banda, al confine tra banditi ed esercito rivoluzionario.
Riprendendo, come fa Partigiani contro, la lezione di Claudio Pavone, che definiva guerra civile la resistenza, riconoscendo al suo interno le tre differenti linee, a volte intrecciate altre contrapposte, di guerra di liberazione, guerra di classe e guerra patriottica, si può inquadrare correttamente il fenomeno, non solo per restituirlo alla sua complessità storica, ma per riconoscerne la concreta valenza politica.
Valenza che sta, per chi si identifichi come nemico di questo mondo di meschinità capitalista, in una parentesi che molti dei soggetti subalterni hanno inteso come possibilità di un rovesciamento della società in senso socialista, comunista o egualitario che dir si voglia.
Una delle porte aperte del ventesimo secolo, il secolo delle guerre civili e della contesa tra classi antagoniste, sulla frattura storica, sulla possibilità fallita, mancata o tradita, dell’instaurazione di un potere dei lavoratori contro la miseria e la barbarie imposte dal padronato.
Una delle parentesi, quindi aperta e poi chiusa, scivolata via nel solco di un secolo conclusosi con il trionfo della restaurazione neoliberista.
Ed ecco il significato della battaglia della memoria: sottrarre una tradizione di lotta all’egemonia del discorso liberale; perché il partigianato è stato anzitutto rottura violenta con l’esistente e non superiorità morale e bacchettona; partigiano è colui che ha rischiato la propria e altrui vita per uscire da un mondo di barbarie, non un santo laico che a tavolino ha deciso di donare ai posteri una costituzione democratica e intoccabile.
Riprendere allora la questione partigiana come precedente storico politico, depurandolo dall’aura mistica di santità e mistificazione che lo circonda, serve a togliere legittimità a questa democrazia che si vuole “la più bella del mondo”, e a riprendere ancora le fila di una necessità storica interrotta ma ancora necessaria.