Robert Aickman, Brividi crudeli, Edizioni Hypnos, pp.440, 24,90 €.
Robert Aickman (1914-1981) è assai poco conosciuto nel nostro paese e non è certo famoso – ad esclusione di un relativamente ristretto gruppo di cultori devoti – neanche nella sua nativa Inghilterra. Eppure la sua prosa ellittica e sinuosa è probabilmente una delle più raffinate del Novecento britannico, almeno per quanto riguarda la narrativa fantastica. E’ infatti quasi interamente nel campo del fantastico che lo scrittore ha da sempre esercitato il suo talento, ma per stile e tematiche le sue short-stories (ha praticato anche il romanzo ma sono i racconti il suo pezzo forte) restano fuori da ogni comoda classificazione. E’ questo il bello dei testi di Aickman: non possiamo definirli horror, per quanto l’orrore – sempre sussurrato, sempre allusivo – ne faccia spesso parte; non possiamo del tutto chiamarli ghost-stories, per quanto la spettralità ne sia elemento presente e decisivo. Oggi il termine Weird ci fornisce un’etichetta più ampia che con minor grado di approssimazione appare sufficientemente adeguata a circoscrivere le sue narrazioni, anche se l’autore, aggirando con saggezza ogni ostacolo tassonomico, le chiamava semplicemente strange stories.
Un ritratto generale della figura e dell’opera di Aickman l’ho già tracciato su Pulp libri al seguente link: https://www.pulplibri.it/le-strane-storie-di-robert-aickman/ pertanto non mi dilungherò a ripetere dettagli biografici o notazioni critiche per i quali rimando direttamente all’articolo: invece mi soffermerò qui unicamente sulla silloge di racconti appena pubblicata da Hypnos Editore, quarto volume dell’ambizioso progetto che il bravo Andrea Vaccaro sta, con pazienza e determinazione, portando a compimento (ne dovrebbero mancare ancora tre): la pubblicazione integrale di Tutti i racconti fantastici dello scrittore londinese.
Dopo Sentieri Oscuri (comprendente le tre storie di We Are for the Dark, 1951 e Dark Entries, 1964) uscito nel 2012, I poteri delle tenebre (Powers of Darkness, 1966) uscito nel 2014, e Sub Rosa (1968) uscito nel 2019, è ora la volta di questo Brividi crudeli che traduce la raccolta forse più rinomata dell’autore, uscita nel 1975 con un titolo bellissimo che non è stato reso al meglio: Cold Hand in Mine. Un titolo che mai ha trovato una trasposizione italiana ugualmente evocativa: non lo fu nel 1990 quando – allora prima e unica opera di Aickman tradotta – Giuseppe Lippi tentò di inserirlo negli Oscar Horror Mondadori passandolo come Suspense, ma la promessa di orrore e di tensione – almeno nel modo diretto e manifesto a cui i lettori della collana erano avvezzi – nei racconti che componevano il volume non veniva mantenuta, collocando di fatto l’antologia che avrebbe dovuto introdurre un nuovo autore inevitabilmente fuori contesto. Non risulta soddisfacente nemmeno Brividi crudeli, per quanto sia una ben più rispettosa approssimazione alla multiforme unheimlichkeit prospettata da Aickman: l’improvviso, carezzevole tocco di una mano gelida, inaspettatamente gelida.
Titolo a parte, l’edizione Hypnos mantiene le ottime traduzioni di Lippi e aggiunge agli otto racconti della raccolta originale un ritrovamento recente, la novelette – inedita fino al 2015 – The Strangers, tradotta da Elena Furlan.
Si parte con Le spade – il cui adattamento filmato del 1997, sotto la direzione di Tony Scott, costituì l’episodio pilota della serie antologica horror The Hunger – storia di erotismo morboso, ambientata fra alberghi di malaffare e scalcinati luna park in cui il freak-show sconfina con l’esibizione pornografica. In un baraccone isolato una fanciulla, insieme attraente e ripugnante, si lascia trafiggere senza danno con una spada da un componente del pubblico alla volta: dopo aver sferrato il colpo e constatato l’inspiegabile mancanza di ferite sul corpo della giovane, lo spettatore ha il diritto di baciarla. La ragazza, sotto la protezione dell’impresario-magnaccia, non disdegna di concedere, a congruo prezzo, appuntamenti intimi per spettacoli privati agli habitué e il giovane protagonista non resisterà alla tentazione. Il racconto è un esempio perfetto della prospettiva particolare da cui Aickman guarda al sesso: in modo sempre assolutamente diretto senza tuttavia essere mai del tutto esplicito. Non c’è bisogno di Freud per vedere nella spada la metafora della penetrazione: coito e stupro coincidono, ogni carnalità è intrinsecamente sadomasochistica, ogni intimità sessuale dolorosa e crudele.
La vera strada della chiesa è invece un esempio dell’Aickman più mistico ed esoterico: certe soglie – da cercarsi in luoghi isolati e periferici del mondo, come il minuscolo arcipelago franco-britannico sul Canale della Manica, scenario del racconto – certe linee di energia che serpeggiano oltre il tempo e lo spazio, oltre la vita e la morte, verso un indefinibile ed enigmatico Altrove, si celano dietro l’ingannevole paravento della sacralità pagana ancestrale e delle sue sopravvivenze nelle credenze popolari dell’ugualmente ingannevole religione cristiana.
Niemandswasser ci trasporta in un ambiente mitteleuropeo, nell’atmosfera Biedermeier di uno degli stati della Confederazione germanica prima della guerra del 1866 fra Austria e Prussia, mentre principi asburgici e nobildonne berlinesi intrecciano amori, destini e misteri sulle rive infestate del lago Bodensee.
Diario di una ragazza inglese è un classico del vampirismo, pubblicato nel 1973 su The Magazine of Fantasy & Science Fiction e insignito nel 1975 del World Fantasy Award per il miglior racconto. Considerata da molti la sua storia più perfetta, è la relazione puntuale di un’inquieta adolescente britannica che registra (pregiudizi etnici inclusi) le tappe del Grand Tour italiano che sta percorrendo con la sua facoltosa famiglia lungo gli itinerari di Byron e Shelley: la fanciulla non riuscirà ad incontrare i due mitizzati poeti, li vedrà solo passare fuggevolmente a cavallo, ma ad una festa nell’antico palazzo di nobili conoscenti italiani farà un incontro ravvicinato assai più eccitante e sanguinoso.
L’ostello è un altro dei racconti più enigmatici e meritatamente famosi della produzione aickmaniana. A rigor di termini non vi si può parlare nemmeno di soprannaturale, eppure il Weird&Eerie di questa storia è ai massimi livelli. Un viaggiatore di commercio a corto di benzina trova casualmente rifugio per una notte in un albergo-pensione: l’accumulo di inquietanti e incomprensibili bizzarrie (l’aspetto e la disposizione degli ospiti durante la cena; la quantità del cibo e le condizioni del servizio; gli espliciti inviti erotici ricevuti da parte di una perfetta sconosciuta; le reticenze ambigue del direttore; il polimorfismo inspiegabile del compagno di stanza, ecc.) daranno i brividi al povero protagonista: un urlo lancinante nel cuore di una notte quasi insonne lo sconvolgerà definitivamente. Il giorno dopo il direttore dell’albergo, dopo avergli comunicato la tragica e improvvisa dipartita di uno degli ospiti, gli procurerà gentilmente un passaggio fino all’autobus per il centro abitato più vicino dove cercare un meccanico per recuperare l’auto: viaggerà insieme ai becchini sul carro funebre che porta via la salma del deceduto. Come ha commentato un critico: “una storia horror sull’orrore di gente così terrorizzata dall’orrore da essere disposta a tutto pur di evitarlo”.
Lo stesso cane è di nuovo un’eccentrica ghost-story senza fantasma, o piuttosto il fantasma c’è ma (quasi) non si vede: un minaccioso cane, guardiano di una villa apparentemente disabitata, esercita una sorta di possessione sulla compagna di giochi e primo amore del protagonista, misteriosamente riuscirà a portagliela via e, forse immune al tempo, a imprigionarla fra la vita e la morte.
Io e Mr. Millar è una storia di inquilini ed appartamenti; il racconto di formazione e di crescita di un giovane protagonista e della sua relazione clandestina con la bella vicina di casa, sposata e madre di diversi bambini; ma è soprattutto la storia di un’infestazione, un’infestazione provocata da un solo uomo e vivo: il misterioso e inqualificabile Mr. Millar, che trasferitosi nel palazzo vi innesca un crescendo di comportamenti, eventi e situazioni sempre più bizzarri e l’insorgere di un’atmosfera sempre più cupa e sgradevole che ostacolerà il love affair fra i due giovani conducendo a un climax presumibilmente soprannaturale e ad uno scioglimento cruento che libererà però finalmente l’ambiente, ripristinando l’(apparente) equilibrio iniziale.
L’uomo degli orologi è forse, di tutti, il racconto più allegorico. Ogni amore è soggetto al tempo, tutto finisce, anche la passione più divorante si consuma e si esaurisce attraverso le ore e i giorni. Nell’immediato dopoguerra inglese il protagonista si è portato in patria dalla Germania sconfitta la bella Ursula, che ha sposato: nata nella Foresta nera, tra gli orologi a cucù, la donna si circonda di strani e impensabili congegni meccanici e intrattiene una segreta relazione con un uomo misterioso che furtivamente viene di tanto in tanto a regolarli. Il marito geloso non riesce a superare la cortina di mistero e di riserbo della compagna ma scopre, al di là delle sue bugie e reticenze, che quando gli orologi si fermano, si rompono o si guastano, anche la bellezza e la gioventù di Ursula vengono meno. Ancora una volta la forza estranea e irrazionale, il “soprannaturale”, sarà il veicolo del disamore, della disarmonia, della fine di ogni rapporto di affetto e di unione.
Al di fuori della raccolta originale anche il lungo racconto aggiunto a questa edizione e ritrovato in una stesura non ancora definitiva, Gli stranieri, conferma, quasi fosse un’ossessione, quanto appena detto: qui la relazione fra il protagonista e la donna amata viene improvvisamente, e in questo caso anche tragicamente, interrotta dall’irruzione dell’Oscuro e dei suoi grotteschi alfieri che, durante un’assurda e angosciante festa di beneficienza, prenderanno possesso dell’amico “sfigato” trasformandolo in un temibile rivale, pericoloso ormai non solo sul piano erotico ma anche e soprattutto su quello metafisico. Ognuno degli attanti in realtà, innamorata fedifraga compresa, non è che la pedina di un gioco molto più grande e del tutto impenetrabile.
Aickman con tocco ineguagliabilmente allusivo, senza mai dare l’ombra di una spiegazione, quando non delinea scenari storici credibili, descrive l’Inghilterra depressa e cadente di un immediato dopoguerra (sia il primo che il secondo) che spesso persiste e si prolunga eternamente nei quartieri periferici degli anni ’60, remoti dalla swinging London, dalle minigonne e dalla musica beat. I suoi personaggi raccontano, quasi sempre in prima persona, e talvolta a distanza di anni ricordano eventi della gioventù, sepolti nel loro passato. Personaggi che non corrispondono affatto al tipico protagonista del dark tale anglosassone: l’esteta solitario alla Machen o alla Lovecraft, l’erudito antiquario alla M.R. James, l’intellettuale in fuga dal mondo alla Hodgson o alla Blackwood, personaggi diversi dallo stesso Aickman, che ben avrebbe potuto collocarsi egli stesso entro tali tipologie letterarie. I suoi protagonisti sono invece giovani piccolo borghesi in cerca di occupazione, editor di romanzetti pornografici, broker, commessi viaggiatori, impiegati della City; un campionario assolutamente non scontato di umanità minuta, la cui vivida descrizione ricorda la precisione analitica dei bambini e degli adolescenti ritratti da Walter de la Mare, l’unico letterato la cui voce si possa comparare alla sua.
C’è dunque sempre una buona ragione per leggere Robert Aickman e ce n’è una ancora migliore per cominciare proprio da questa magistrale raccolta, Cold Hand in Mine, o, se preferite, Brividi crudeli.