di Francisco Soriano
Sono 55 le vittime accertate e 150 i feriti in un attentato, con più esplosioni, davanti a una scuola femminile nella capitale afghana. Si racconta che nel Centro chirurgico di Emergency i feriti arrivavano senza sosta e le vittime erano tutte ragazze fra gli undici e i quindici anni. Questo crimine orrendo è stato causato da ordigni dinamitardi o, addirittura, da attentatori suicidi nel quartiere Dasht-i-Barchi di Kabul, di fronte alla scuola Sayed ul-Shuhada che ospita lezioni mattutine per i ragazzi e classi pomeridiane per le giovani studentesse. Infatti l’attacco è avvenuto proprio alle ore 16:00 dell’8 maggio, secondo quanto ha dichiarato il Ministero degli Interni afghano. Il luogo dell’attentato, dalle poche immagini che ci sono giunte, era cosparso di corpi dilaniati nel mezzo di scene apocalittiche e rivoli di sangue fra ambulanze che cercavano, nella ressa generale, di caricare i corpi martoriati delle ragazze. All’esterno dell’ospedale Muhammad Ali Jinnah di Kabul c’erano persone in fila per la donazione di sangue e, molte altre, per controllare le liste affisse sui muri con i nomi delle vittime riconosciute nonostante lo stato dei corpi.
Prima di questo attentato agli inizi di marzo venivano freddate tre giovanissime giornaliste che non avevano raggiunto neppure i venti anni di età, nella città di Jalalabad. I colpi di pistola alla testa in pieno giorno dimostrano la brutalità e l’ossessione dei talebani contro quelle donne che tentano di superare ostacoli quasi insormontabili con lo scopo di liberarsi da antiche catene. In questi uomini è insopportabile l’idea che una donna possa studiare e, addirittura, svolgere una attività come quella giornalistica. Le tre giovani croniste vanno ricordate per il loro coraggio e per la scelta di aver consapevolmente rischiato la propria vita: Mursal Waheedi, Shahnaz Raufi e Saadia Sadat. Le martiri erano dipendenti della tv e radio privata Enikass, voce dell’informazione in una regione al confine con il Pakistan. Una quarta giornalista, dalle poche informazioni che filtrano sulla stampa locale, sarebbe ancora in lotta fra la vita e la morte. La stessa sorte era toccata 6 mesi fa alla reporter di 26 anni, Malalai Maiwand, con tanto di rivendicazione da parte di terroristi dell’Isis. Un preoccupante documento delle Nazioni Unite del 3 febbraio di quest’anno ci informa della presenza di circa 2.200 militanti dello Stato islamico nella provincia di Khorasan, dove risiede un gruppo affiliato all’Isis nato nel 2015 e fondato da ex membri dei talebani pakistani. Il report chiarisce che gli affiliati sono ben integrati nel tessuto rurale del Paese, in particolar modo nella provincia di Kunar, dove una maggioranza di musulmani salafiti determina il comando della zona. Preoccupati del riacutizzarsi dei fenomeni terroristici nel labirinto afgano è proprio l’Iran, che non vede di buon occhio gli avversari sunniti in maggioranza hanafiti: non a caso ci sono continui attacchi alla numerosa comunità sciita locale, quest’ultima chiaramente sotto l’influenza e tutelata dalla confinante teocrazia degli ayatollah. Le ansie delle gerarchie religiose iraniane sono fondate e lo dimostra ampiamente l’ultimo attentato alla scuola femminile che è avvenuto proprio in un quartiere della capitale con una forte presenza sciita. Il ministro degli Esteri iraniano ha subito condannato le violenze e ha espresso le condoglianze alla comunità sciita di Kabul: “Piangiamo le ragazze in digiuno e innocenti che erano le vittime oppresse degli infedeli dello Stato Islamico; gli infedeli che hanno dimostrato di essere estranei all’Islam e all’umanità. È tempo per tutti coloro che hanno un cuore per l’Islam e l’Afghanistan di porre fine al fratricidio e unire l’arena contro l’apolidia dell’ISIS”.
È dunque legittimo affermare che una nuova strategia del terrore è stata inaugurata in Afghanistan, dove almeno 14 giornalisti sono stati uccisi negli ultimi sei mesi e altri 11 operatori umanitari sono stati trucidati con le medesime modalità in agguati finiti con colpi di pistola alla testa. Si tratterebbe secondo alcuni analisti di una nuova variante del terrore messa in atto dai jihadisti, disillusi dalla notizia del ritiro delle truppe statunitensi voluto da Donald Trump e ora in parte smentita da Joe Biden, pressato dalle richieste di un rinvio per il timore di far naufragare gli sforzi di questi anni in una fosca quanto illeggibile evoluzione delle dinamiche di potere in Afghanistan.
Molte cose vanno chiarite, a cominciare dalle responsabilità americane e degli alleati occidentali. In questo girone infernale del mondo è necessario capire che cosa stia avvenendo e perché, soprattutto per la preoccupante deriva statistica nell’aumento della quantità di attentati avvenuti in questi ultimi mesi. Una cosa è certa: la violenza è sempre di più rivolta contro le donne. I cosiddetti “processi di democratizzazione” che le coalizioni occidentali si erano ripromesse di instaurare e sponsorizzare nella fragile e deteriorata società afghana, dopo anni di integralismo talebano, hanno prestato il fianco al tempo, alla solida cultura tribale del luogo, alle stime errate sulla sedimentazione di strutturali cambiamenti della società afgana. Quello che oggi accade dimostra lapalissianamente quanto sia enorme il fallimento di questa idea ottimistica basata su una retorica dettata da una sorta di determinismo storico, per nulla positivo e addirittura controproducente, nelle dinamiche di un Paese complesso e frammentato da una miriade di equilibri tribali. In molti hanno ormai compreso quanto siano inconcludenti i tentativi di innestare dall’alto schemi culturali, sociali e politici mai riconosciuti dalle popolazioni locali, che continuano a vedere la presenza straniera nella veste di un invasore o, verosimilmente, di un oppressore. Sarebbe stato forse più credibile sostenere, da subito, che il controllo di quei confini doveva avvenire secondo logiche strettamente militari e con motivazioni geopolitiche di un certo tipo. Il dubbio è che siano stati questi gli interessi preponderanti della coalizione occupante, che ha voluto derubricare l’intervento in terra afghana come necessario e “ineluttabile”, al fine di stabilire il totale dominio su uno spazio considerato come una fucina di strategie terroristiche, soprattutto dopo l’ondata di attentati terroristici di matrice jihadista che avevano avuto, come preludio spettacolare e drammatico, l’abbattimento delle Torri Gemelle a New York. Probabilmente nella realtà non veniva considerata con convinzione l’idea, neppure dai suoi più apparenti sostenitori, che questa occupazione territoriale avrebbe instaurato, come per magia, una moderna democrazia occidentale in un Paese sprofondato nell’oscurantismo più bieco soprattutto nei confronti delle donne. È tuttavia necessario ricordare che proprio gli americani avevano a lungo finanziato in Afghanistan alcuni dei gruppi della jihad islamica per fronteggiare il dominio dell’ex Unione Sovietica su tutte le aree dell’Asia centrale, prima del crollo del Muro di Berlino. Il risultato è stato quello di ritrovarsi qualche anno dopo a dover combattere proprio contro gli ex alleati in una dispendiosa guerra con risultati a dir poco deludenti. Questa strategia è stata in un certo senso “sbrigativa” e ha generato traumi e tragedie umanitarie imperdonabili, visto il tributo di sangue versato da tutti gli attori dell’area. L’obiettivo dunque di ridisegnare ex novo un quadro sociale, politico ed economico di quei luoghi ha denotato una superficialità imbarazzante degli “addetti ai lavori”. Con molta probabilità questi ultimi hanno ritenuto che al controllo territoriale sarebbe corrisposto un graduale e ben programmato piano di crescita, senza considerare tuttavia la complessa e monolitica società afghana.
L’azione di “ristrutturazione” invece si sarebbe dovuta basare con forza su un progetto di espansione economica e sociale più credibile e soddisfacente, soprattutto in termini di investimento sulle politiche del lavoro, nel campo dell’alfabetizzazione delle popolazioni soprattutto rurali, nel rafforzamento delle strutture sanitarie e sociali. È notizia di poche settimane fa che un numero considerevole di giovani sono tornati al lavoro nei campi dove si produce l’oppio (dopo il tentativo probabilmente fallito di trasformare questa coltura in altre più etiche ma meno redditizie), che consente guadagni immediati a circa il 70% della popolazione lavorativa. Alla luce di questi risultati è evidente ritenere che gli sforzi nel campo dell’istruzione, della sanità e dei diritti civili e umani sono stati resi obsoleti dalle condizioni oggettivamente complesse di quei luoghi, ma anche da errori imperdonabili nelle strategie improntate da parte degli occidentali occupanti. Barlumi di libertà e diritti avevano mostrato una parvenza di crescita evaporata tragicamente alle prime difficoltà, prontamente alimentate dai talebani, dagli oscurantisti e dal potere di una cultura regressiva. In questa ottica le donne che accennano a una propria autodeterminazione sono il primo nemico da combattere e colpire.
In questa miriade di condizioni territoriali dominate da dinamiche tribali, l’universo jihadista ha creato ancora più frammentazione. L’unica unanimità sembra essere stata trovata quando si è trattato di impedire, scongiurare e cancellare qualsiasi possibilità alle donne di affrancarsi dallo stato di sottomissione feudale. Gli omicidi nei confronti delle donne vengono studiati con raziocinio e con strategica efficienza: si scelgono luoghi simbolici come scuole e redazioni di giornali. Le uccisioni vengono perpetrate a carico di persone impegnate nel sociale e nell’informazione.
La crudeltà è un atto di intimidazione e, soprattutto, di “promessa” di un ritorno ineluttabile e incontrovertibile al passato. Questa vendetta-promessa dei talebani e jihadisti toglie ogni speranza di stabilire un seppur embrionale stato di diritto dove vengano garantiti i più elementari diritti di opinione e di espressione. L’ONU riporta, in un recente rapporto, dati raccapriccianti sulla pericolosità del mestiere di reporter in Afghanistan: ne sono stati trucidati 30 dal 2018. Inoltre l’Isis ha ufficialmente rivendicato le operazioni terroristiche contro i campus universitari di Kabul, con l’uccisione di circa 20 persone tra professori e studenti.
Le riforme nel Paese non hanno evidentemente una forma strutturata e profonda e cedono immediatamente il passo alle vecchie dinamiche, quelle che hanno condotto l’Afghanistan in questo baratro senza vie d’uscita. La speranza dell’attuale presidente Ashraf Ghani si riassume nelle sue ultime dichiarazioni (dopo l’annuncio dei risultati alle elezioni presidenziali avvenute il 18 febbraio di quest’anno): “il prossimo governo sarà espressione della volontà di tutto il popolo afgano”. Più che una speranza la dichiarazione del presidente sembrerebbe un auspicio piuttosto improbabile, visto che i talebani sono già pronti a un’offensiva per riconquistare il potere che sembrava irrimediabilmente perduto. Ai buoni propositi di Ghani si contrappone una situazione di stallo politico dovuto anche alle rivendicazioni di vittoria dello sfidante Abdullah Abdullah, che sostiene a sua volta di aver vinto le elezioni, opponendosi a quanto annunciato dalla Commissione elettorale del Paese. In questa situazione surreale le Nazioni Unite hanno già asserito di sentirsi in dovere di provare una mediazione che, si spera, non finisca per contribuire all’ulteriore deterioramento della già fragile pace interna in Afghanistan. Nonostante l’incertezza della situazione il presidente Ghani ha firmato un decreto di liberazione di 1.500 prigionieri talebani, al fine di creare migliori condizioni per i futuri colloqui di pace. In pratica i talebani liberati dovranno firmare un documento, all’atto della loro liberazione, che li impegnerebbe a non tornare in combattimento. Nonostante questo gesto di buona volontà, proprio le gerarchie talebane hanno dichiarato subito la loro contrarietà al provvedimento, sbandierando l’illegittimità della “liberazione condizionata”, in quanto contraria all’accordo di pace fra gli USA e i talebani. Il portavoce talebano, Suhail Shaheen, ha infatti tuonato: “È correttamente spiegato nell’accordo di pace che i primi 5.000 prigionieri sarebbero stati liberati e poi sarebbe stato avviato il dialogo afgano”. […] “Non abbiamo mai accettato alcuna liberazione condizionata dei prigionieri. Se qualcuno lo sostiene, va contro l’accordo di pace che abbiamo firmato il 29 febbraio”. Queste sono le ultime drammatiche dichiarazioni diramate il giorno dopo l’inizio del ritiro delle truppe americane, cominciato il 10 marzo di quest’anno.
Lo sradicamento della violenza, determinata dalla cultura rurale e patriarcale che le donne afghane sono costrette a subire, deve essere un obiettivo della comunità internazionale: ineludibile e improrogabile. Lo stato di oppressione simboleggiato dalla “grata” del burka dietro la quale si cela una reale e inaccettabile condizione di prigionia, è solo uno degli aspetti della propensione alla tortura nei confronti delle donne afghane. La violenza è attuata dal regime dei padri, da quella dinamica sociale, culturale e politica che stabilisce la riduzione delle donne a un ruolo semplicemente biologico e di schiavitù in seno alla società. Lo studio, l’affrancamento dal focolare domestico, la possibilità di essere parti attive nelle dinamiche sociali sono, per i talebani e i jihadisti islamici, l’inizio di una deriva morale ed etica contro il costume e la tradizione. Da eliminare a ogni costo e in qualsiasi modalità