di Giovanni Iozzoli
Una pia antica tradizione islamica narra di due becchini che, completato il duro lavoro quotidiano e sepolto l’ultimo defunto del giorno, si accingevano a lasciare il cimitero e tornare alle loro povere case. Improvvisamente si trovarono davanti Munkar e Nakir, in tutto il loro spaventoso splendore. Erano i due angeli destinati all’ interrogatorio dei morti nella tomba, la lunga serie di domande che decidono il primo destino del defunto. I due inservienti, atterriti, protestarono timidamente: ma noi siamo vivi, non è ancora il nostro momento, cosa volete da noi? I due angeli però decisero di interrogarli ugualmente. Allora i becchini allargarono le braccia e si dissero l’un l’altro: non dobbiamo avere paura dell’interrogatorio, siamo due persone semplici e siamo così poveri da non possedere niente; non dovremo rendere conto di nulla. Gli angeli, però, avevano visto in un angolo la vecchia corda che serviva ai due per calare i defunti nella fossa, unico loro strumento di lavoro. – E quella corda? Da dove viene quella corda? – chiesero gli angeli. Al che i due inservienti, sorpresi e impauriti, provarono a spiegare come si fossero procurati la corda; e poi furono costretti a ricordare a ritroso tutti gli scambi a monte che avevano portato a quel possesso. Tutta la notte durò l’interrogatorio dei due becchini su quel pezzo di corda insignificante.
Come sarà l’interrogatorio di Mohammad Bin Salman, quando lascerà con i piedi davanti il suo palazzo principesco di Riad? Lungo. Lunghissimo, immaginiamo. Vaglielo a spiegare, agli angeli, il favoloso reticolo di società, concentrazioni immobiliari, interessi demaniali, fondazioni pseudocaritatevoli, banche shariaticamente corrette, giacimenti e raffinerie, squadre di calcio e fondi di investimento, che stanno nella cassaforte di una fortunata famiglia reale. Arduo sarà anche giustificare l’accaparramento familiare delle risorse naturali, anzi di un’intera nazione ribattezzata, umilmente, con il proprio nome dinastico. Altro che una notte di interrogatorio. Per i Saud – e l’esercito di Emiri e nobili che presidiano le ricchezze della penisola arabica – non sarà facile rendere conto di tutto quel ben di Dio. E se ci aggiungiamo il finanziamento delle guerre, lo sfruttamento in patria dei confratelli immigrati, il tradimento dei palestinesi e la strage degli yemeniti, è facile pensare che si stancheranno persino gli angeli, quando si decideranno a indagare in fondo ai peccati di questa pia cricca waabhita
Come sarà stato, invece, l’interrogatorio post-mortem di Ghazi o di Hafed, morti a Modena in una notte di primavera di un anno fa? Anche loro non avranno avuto molto, da giustificare. Reclusi, magari senza famiglia, tossicodipendenti. Forse possedevano qualcuna delle povere suppellettili necessarie nelle celle, un pentolino, un fornelletto, una confezione di Oki, un pò di mutande e calzini. Forse 100 euro caricati sul conto carcerario, per la spesa alimentare, inviati lì da qualche lontana affannata madre che vive dall’altro lato del mediterraneo. Si muore poveri, dentro un carcere – se non sei un mafioso, un imprenditore o un politico previdente. Si muore miserabilmente come si è vissuto. La malavita può averti dato l’illusione di avere svoltato, in un certo momento della tua storia; hai visto passare tra le tue mani dei soldi che non avresti mai immaginato. Ma è sabbia del deserto che scorre in mezzo alle dita, miraggio, beffa. Nella tua cella torni povero come quando sei venuto al mondo, quel poco che avevi è andato via tra sequestri e avvocati; in carcere, come nella morte, non puoi portare nulla con te, neanche quel paio di scarpe da 300 euro che ti aveva tanto inorgoglito su Instagram, o l’orologio d’oro che amavi esibire al bar. Sei nudo, mentre fai le flessioni di rito nel settore ingressi e le guardie cercano di appurare se qualche cavità del tuo corpo nasconde oggetti proibiti o preziosi. Il carcere è un rituale di morte anticipato: il giudizio, la pena, la cella come una bara. Una sensazione di perdita irrimediabile, i giorni che passano “come falci”. Quella notte feroce di un anno fa, dentro al carcere di Sant’Anna a Modena, tra fumi, urla e sangue, in molti scoprirono l’ebbrezza della rivolta. Per un momento, inconsapevolmente, si riappropriarono di qualcosa – qualcosa di indefinibile, prezioso, che ha a che fare con la nuda esistenza, con una pulsione innata e primordiale di dignità, di libertà. E non è faccenda razionale – di solito finisce male. Finisce in baccanale, finisce a metadone, finisce a sprangate e morte, e autopsie sommarie di corpi gettati dentro fosse precarie. Strati di terra su verbali, sospetti e segreti.
Speriamo che Munkar e Nakir, nel vedere le povere tumulazioni delle vittime della rivolta, abbiano provato almeno un pò di pena, mentre aleggiavano sul settore islamico del cimitero di Ganaceto. Pare che l’interrogatorio abbia luogo proprio là sotto – in fondo alla fossa, in una dimensione astrale, ineffabile, in cui tempo e spazio si dilatano come nei sogni; avranno avuto pietà gli angeli, di quei montarozzi di terra pieni di erbacce, della tabella metallica con le date di morte riportate approssimativamente? Tombe da terzo mondo, com’è giusto e naturale nella rigerarchizzazione feroce che la nostra società sta vivendo, dietro i miti democratici e massificanti. Delinquenti, rivoltosi, stranieri e musulmani: cosa c’è di più sbagliato? I burocrati responsabili di quelle frettolose sepolture, avranno pensato che quella era la tomba adatta a perpetuare la damnatio memoriae, il seppellimento di quelle biografie anonime e colpevoli.
Secondo alcune opinioni teologiche, di oriente e di occidente, gli angeli sono come automi; non provano emozioni, non hanno il libero arbitrio; sono programmati per eseguire ordini e volgere a Giustizia e Verità; quindi non si saranno commossi più di tanto, nel cimiterino di Ganaceto, in mezzo ai campi della prima periferia modenese. Avranno svolto il loro lavoro di indagatori inflessibili. Più o meno come assessori e funzionari del Comune che, con gli angeli, condividono una evidente mancanza di “umanità” – pur non godendo della pienezza degli attributi angelici. Infatti, le fosse dei rivoltosi dell’8 marzo, non tradiscono alcuna idea di pietas; si mostrano esattamente per ciò che sono e per il messaggio che vogliono veicolare: guai ai vinti; guai ai ribelli; guai ai perturbatori dell’ordine sociale. C’è stato un tempo in cui la cura delle tombe era imperativo morale, soprattutto per le autorità. La sepoltura ritualizzata è stato il primo segnale della civilizzazione, in epoca pre-neolitica – offrire ad un corpo senza vita la dignità di una storia e il riconoscimento di una comunità. Chissà, forse il cammino a ritroso della civiltà verso le nuove barbarie prossime venture, ripartirà proprio da lì, dalle tombe, dal disprezzo e dal disconoscimento dei corpi.
Un bel sabato mattina, una pattuglia di volontari della Comunità Islamica e del comitato di controinchiesta modenese – che sta cercando, piuttosto in solitaria, di tenere viva la memoria della strage dell’8 marzo -, è andata a dare l’ultimo saluto ai morti del carcere di Sant’Anna, sepolti nel piccolo cimitero di Ganaceto. Un evento apparentemente poco “politico”, che sta nella dimensione dell’umanità, della testimonianza silenziosa. Le comunità islamiche, si sono fatte carico della risistemazione di quelle tombe abbandonate e, già che c’erano, hanno rimesso a posto tutto quel settore in cui, in massima parte, finiscono i senza famiglia, o chi non ha nessuno che può permettersi di pagare il costoso rimpatrio della salma al paese d’origine. E’ il cimiterino dei poveri. Nel dubbio sugli eventi delle ore convulse (ad oggi ancora avvolte da molti misteri) che seguirono quei decessi – anche in tema di conforti religiosi forniti ai corpi delle vittime -, un Imam ha celebrato un piccolo rituale religioso. Nel cimitero è risuonata sommessa la Fatiah – l’Aprente -, la sura che consola e lenisce le ferite. E poi c’è stato un breve discorso rivolto alla piccola platea di solidali.
Questo evento fa bene a queste persone, loro lo stanno sentendo e sono felici – ha detto l’Imam. E anche qualche bestemmiatore incallito, presente al cimitero, si è commosso e ha sperato ardentemente in cuor suo che fosse così: che ci stessero davvero sentendo, quei ragazzi, a parziale compensazione delle loro vite stroncate, della solitudine, del dolore di chi muore dalla parte sbagliata; eravamo lì per loro. Quando vai in modo consapevole su una tomba sconosciuta, stabilisci una connessione con quella vita. Lo raccontano spesso quelli che tornano da Auschwitz, e sono convinti, con la loro presenza, di aver reso un pò di giustizia a delle anime in pena, morte tanto tempo prima eppure, in quache modo, ancora viventi, misteriosamente presenti. Perchè la storia, soprattutto quella delle tragedie e delle infinite stragi impunite, ha una sua terribile densità, non si lascia vaporizzare tanto facilmente; e la vita è l’energia più potente e indistruttibile dell’universo, e se Lavoisier aveva ragione, nessuna storia nasce dal nulla e nessuna muore definitivamente. Ma queste sono affabulazioni consolatorie. La realtà visibile con cui fare i conti è il tumulo di terra. Poi ognuno vede quel che può.
A proposito di tombe. Il 7 giugno c’è stata la prima udienza davanti al Gip di Modena sulla richiesta di archiviazione proposta dalla Procura per otto dei nove decessi. Il nono morto, Salvatore Piscitelli, è di competenza territoriale ascolana – ma nessuno si aspetta dall’inchiesta marchigiana grandi sorprese. In tal caso, la versione ufficiale, quella avallata persino dalla Procura, risulterà più o meno identica a quella fornita fin dalle primissime ore dalle autorità carcerarie. Un anno di indagini non è servito a nulla – si poteva anche chiudere l’inchiesta una settimana dopo la strage. E questo soprattutto perchè le contraddizioni e i buchi neri della ricostruzione di Stato – quelle rimarcate dagli avvocati delle vittime e dal giornalismo indipendente – vengono semplicemente ignorati, come dettagli o intralci fastidiosi. Lo status delle vittime non merita troppi approfondimenti investigativi. In questo caso, continuando nelle metafore cimiteriali, potrebbe essere l’ufficio del Gip ad assumere un ruolo tombale: l’archiviazione diventa la definitiva rimozione dal dibattito pubblico di un evento scomodo ed eclatante e alla morte fisica segue la morte civile delle vittime e del senso del loro morire. Un rituale laico di purificazione, dal carattere quasi esorcistico: le lotte nelle carceri, come quelle nelle fabbriche e in qualsiasi altro luogo di questa società attonita e instupidita, vanno sepolte sotto terra e dimenticate in fretta.