di Franco Pezzini
Lorenza Ghinelli, Bunny Boy, pp. 256, € 17, Marsilio, Venezia 2021
Scrivere un sequel espone a parecchi rischi: sia quelli generali legati al delicato rapporto tra riproposta e originalità – soprattutto ove non si faccia riferimento a un meccanismo apertamente seriale, che fa scattare un diverso patto col lettore – sia quelli peculiari delle potenziali trilogie, dove la seconda parte rischia d’essere recepita quale mero snodo tra inizio e gran finale. Eppure la scommessa è superata in modo brillante da Lorenza Ghinelli con Bunny Boy, magnifico seguito delle avventure di Nina, la bimba sorda che abbiamo conosciuto in Tracce dal silenzio (Marsilio 2019, Feltrinelli 2021): le sue capacità di ascolto di ciò che in teoria non potrebbe avvertire – un ascolto paranormale, a voler trovare un aggettivo per definirlo – si fanno sempre più impressionanti, e il risultato è un romanzo thriller/horror di grande forza, persino più compatto dell’ottimo precedente. Tanto più che lo stile è quello controllatissimo, polito e insieme vivido che conosciamo dai precedenti dell’autrice, nell’ambito di una scrittura che gioca col genere, ma di spessore genuinamente letterario.
Però il passaggio a questa seconda avventura costringe a modulare meglio gli aggettivi: più che paranormale (termine legato a una lettura del tutto esteriore dei fenomeni, senza accedere al livello più profondo di un’esperienza dell’interiorità) dovremmo dire sciamanica. Sia nel senso di una partecipazione personale, interlocutoria, simpatica, di Nina al dramma che ha schiuso la porta al Male, in questo caso il dramma di un bambino assoggettato per troppo tempo a forme abiette di violenza e a un abbandono/tradimento da parte dello spregevole padre; sia in quello di un intervento medicativo della realtà. La realtà è rimasta ferita, e dunque suscita lo sciamano a correggere il tiro, attraverso il passaggio su e giù per l’asse della Vita. Dove l’analisi del recensore – confortata da indizi e da discorsi dell’autrice nel corso d’interviste – rischia però di ridurre un tessuto più complesso, visionario e insieme umanissimo sul tema della crescita, nell’ambito di una storia tesa, incalzante, appassionante: e tento di limitare al massimo gli spoiler.
Bunny Boy, “ragazzo coniglio” può certo fotografare la situazione di una bocca in cui la dentatura sia cresciuta in modo poco armonico, ma richiama anche ad alcune figure mitiche. Personaggi umani con teste di coniglio – come taluni che zampettano nelle visioni di Nina – o invece conigli di statura antropomorfa hanno costellato l’immaginario moderno: per ricordare solo due casi emblematici, l’Harvey della deliziosa pièce di Mary Chase, vincitrice del premio Pulitzer 1945 (in Italia per Tre Editori 2011), da cui il film di Henry Koster 1950 con James Stewart, provoca sui limiti della salute mentale attraverso la presenza (?) del pooka conigliforme Harvey visibile solo al candido protagonista; ma non manca una sua nemesi sinistra nell’apocalittico Frank di Donnie Darko di Richard Kelly, 2001, evocante dimensioni parallele e il senso di una crisi epocale della realtà. D’altra parte, in radice, è impossibile non pensare a un’altra bambina che seguendo un coniglio finisce in una sorta di pozzetto – come alcuni qui evocati – e si ritrova nella terra della Meraviglia. Gli interlocutori conigliformi di Alice – Lepre marzolina compresa, anche quella con gli stigmi della follia – hanno più o meno le sue dimensioni, e suggeriscono nel dialogo e negli atteggiamenti un che di antropomorfo. Se aggiungiamo che spiriti coniglio sono presenti un po’ ovunque nel folklore, a partire idealmente da una certa tipica maschera Dogon con orecchie da coniglio, lungo naso e bocca protrusa che pare richiamare il devastatore cosmologico dei raccolti – fin dai primi, piantati dalla volpe in età ancestrale –, ci rendiamo conto che nello spazio interiore un simile trickster si trova benissimo. Assai meno nella vita concreta, e Nina per interagire dovrà calarsi nella paradossale Wonderland di sofferenza e atrocità in cui Bunny Boy è imprigionato. Non solo affrontando con gli amici – come Hänsel e Gretel che seguono la pista di sassolini – quel bosco oscuro che è un luogo fisico e insieme abbiamo dentro, ma calandosi poi nel pozzetto di Ragazzoconiglio per chiudere la partita come può farlo una piccola sciamana.
Il trickster permette di udire le ragioni del misrule, quel disordine che trova senso su un piano cosmico più ampio. Attraverso Bunny Boy, l’autrice ascolta le ragioni di una ribellione ai padri indegni, con un equilibrio straordinario tra infinita dolcezza e una rabbia che diventa ferocia e sparagmòs: a evidenziare senza facili giudizi i nodi critici attraverso l’esperienza di chi soffre, mostrare la Bellezza e il respiro pieno dell’essere umani – certo con conflitti, dolori, faticosi perdoni anche a se stessi – e a ricordare che il tempo è una dimensione costitutiva di noi. Cioè che si cresce – o almeno si può crescere – soltanto poco per volta, a strappi, e ciò comporta perdite di sangue: come il ciclo che arriva a Nina, o come la sghemba e malsana reazione (in fondo frutto di un tentativo di crescita e attribuzione di senso alla vita) di Bunny Boy. Certo è diversa la violenza di chi ha patito tanto, fino a scivolare nella follia, e quella che invece si fa abuso, predazione, egoismo in caduta libera – e questa non ha diritto di parola. Nella vita quotidiana come – vorremmo dire, di fronte a certi lamentosi revisionismi reclamati da ex-persecutori – nella Storia.
Molto belle, come sempre nei romanzi di Ghinelli, le altre figure. In particolare i ragazzi attorno a Nina (il fratello Alfredo, Nur e Rasha già incontrate nell’avventura precedente, Giaime per cui Nina impara a provare qualcosa di grande) che scoprono l’amore, l’avventura, il combattere fianco a fianco – che è un modo di amare –, ma anche la delusione, quello strappo doloroso che è la separazione o il non essere scelti; Sara e Marco, i genitori di Nina e Alfredo, che hanno superato le precedenti crisi e stanno riscoprendo il proprio rapporto al di là di paure e minacce; Luca, l’educatore di Rasha e Nur, alle prese con il fratello Ricky che mette a soqquadro tutto attorno a sé; lo stesso “Bunny Boy” e sua madre. Le famiglie possono essere luoghi di forza – anche se non necessariamente di utile ascolto – o di dannazione, e la buona volontà non basta: la speranza, nelle storie di Ghinelli, non è mai ottimismo becero o buonismo facile, e come a scongiurare tali vie banalizzanti l’autrice lascia mano libera alle mattanze di un ex-bimbo vessato. Senza orrori gratuiti, le scene atroci non mancano, rette sempre con assoluto controllo narrativo: ma c’è qualcosa in più di un’eccellente scrittura letteraria e una delicata ed empatica sensibilità. L’autrice si muove su una traccia autenticamente sciamanica, in un senso che è visione, capacità di analisi interiore e di accoglienza/valorizzazione della sorpresa, dello spazzamento, di un tremendum prezioso e minaccioso insieme: e qui la latitudine di un’interiorità si abbina a un profilo autorale dalle doti particolarissime. Che di certe dimensioni umane ha fatto non solo competente approfondimento ma – si direbbe – esperienza profonda.
Come per Hänsel e Gretel, il romanzo aiuta a riflettere sull’utopia di segnare piste nel buio – anche quello del logorio della quotidianità; e, come spesso nei romanzi di Ghinelli, vede un ripartire vitale – fuor d’ogni retorica – proprio dal limite, in questo caso la sordità. Quel limite che, nell’impasto insemplificabile e mai moralistico delle vite, può divenire la porta d’accesso al Male se vissuto in disperato abbandono, può all’opposto permettere di esperire il mondo da prospettive non usuali, battendo strade nuove nel segno della complessità, in presenza di doti personali e affetti che credono in noi.
Nina qui prende finalmente consapevolezza del proprio potere – e una prossima puntata, già si annuncia, dovrebbe vederla adolescente. Per cui la ragazzina esplora le proprie capacità lungo le vie sottili, un po’ come l’autrice che, in una recente intervista, risponde: “Vivo (e scrivo) in uno stato di perenne esplorazione”, anche attraverso le vie sottili della letteratura. Che può divenire, in qualche modo, buona prassi sciamanica, laddove ci aiuti a calarci nei pozzetti tra i morti – guidati magari da una bestia infera – per poi recarne qualche provocatoria medicazione alla realtà che ci sta intorno.