di Mauro Baldrati
THE AMERICAN
È un noir del 2010, ambientato in Italia, a Castel del Monte. Quindi niente metropoli tentacolari, niente luoghi esotici sfigurati dalla guerra, niente gangsta rapper papponi con cinque chili di collane d’oro, ma un tranquillo paesino arroccato sui monti abruzzesi. Ma l’atmosfera è quella del noir duro e puro: cupo, violento, spietato. E non manca il risvolto romantico con interfaccia disperata, che resta pur sempre una qualità del noir. D’altra parte il killer Jack, magistralmente interpretato dall’americano italianizzato George Clooney, si porta dietro un fantasma col quale non si viene a patti: durante una vacanza con una ragazza che forse ama tra le romanticissime nevi della Svezia viene attaccato da una coppia di killer. Riesce a ucciderli, ma si è comunque bruciato nei confronti della ragazza. Così è costretto a piantarle una pallottola nella nuca, a tradimento. Poi si nasconde a Castel del Monte, in solitudine, morto dentro, senza mai sorridere, parlando a monosillabi, quasi esclusivamente col prete, che ha anche lui i suoi segreti, e sembra leggergli dentro. Intanto il suo intermediario gli manda un’affascinante assassina che ha bisogno di un fucile speciale di precisione. E qui inizia l’intrigante capitolo dell’assemblaggio dell’arma, della ricerca dei materiali, dei gesti calmi e precisi del professionista. Nel frattempo soddisfa i suoi impulsi sessuali con la prostituta di un bordello (Violante Placido), con la quale, lentamente, ritrova la sua perduta affettività, riuscendo, forse, a sfuggire all’abisso mortifero del suo passato. Ma è un noir, non una commedia edificante. Così arrivano altri due “svedesi”, che l’hanno di nuovo scovato, e la sezione “crime” riprende vigore. A ciò si aggiunge che, dopo avere comunicato all’intermediario la sua intenzione di ritirarsi (per rifarsi una vita con la ragazza – una speranza incompatibile col karma negativo dell’eroe Jack), l’assassina riceve il nuovo incarico di farlo fuori. Perché è noto che nel mondo noir dei killer il ritiro non è ammesso. Dunque ci può essere redenzione? Forse sì, ma alla sua maniera. Siamo in piena epica degli eroi, e difficilmente un appartenente alla categoria può concludere il suo percorso camminando verso il sole che sorge… Bello, classico e avvincente. Su Netflix, voto 8.
THE SERPENT
Imperdibile questa miniserie inglese (8 episodi), ambientata in un luogo e in un tempo che più fascinosi non si può: gli anni Settanta lungo gli itinerari del turismo studentesco hippy, Bangkok, Katmandu, Goa. Anni e luoghi di avventure un po’ maledette, voglia di libertà e di sfide, di amori occasionali, ma anche autodistruzione, follia e morte. È tratta da una storia vera, e non è un docu-film, ma un’opera romanzata quanto basta. Nel variegato, multicolore popolo giovanile undergroud sempre un po’ allo sbando si annida una coppia di mostri, Charles Sobharaj e la sua compagna Marie-Andrée Leclerc, che seducono, letteralmente, i turisti in difficoltà (Charles è The serpent, per il suo trasformismo e la sua potenza ipnotica). Lui li individua immediatamente, col suo talento di predatore; poi li circuiscono, li strangolano e li bruciano. Rubano i loro passaporti, forse il bene più prezioso, perché permettono ai due di mimetizzarsi con identità pulite, i soldi e gli oggetti di valore. Il film si prende le sue libertà narrative, per esempio il veleno: i due serial killer lo usano regolarmente per stordire le vittime, ma nella realtà questa modalità era utilizzata solo raramente; poi i dialoghi, che sono inventati, e i luoghi adattati per esigenze scenografiche. Ma il tutto è credibile, verosimile e avvincente. Per esempio, nel film la cattura del serpent avviene per la tenacia di un impiegato dell’ambasciata olandese, Herman Knippenberg, che, sfidando come un vero eroe senza macchia e senza paura l’indifferenza pelosa del suo ambasciatore (non sono fatti nostri, ci deve pensare la polizia – che ovviamente è ancora più menefreghista e anche corrotta) continua a indagare, spinto dalla tenacia dell’anima pura, mettendo a rischio la sua carriera. Nella realtà la cattura è avvenuta perché tre studenti francesi hanno resistito al veleno e sono riusciti a bloccarlo e a farlo arrestare. Tutt’ora Sobharaj è in carcere in Nepal. Gli episodi scorrono con un’ottima sceneggiatura, attori adeguati, e soprattutto una fotografia perfetta, coi colori slavati anni ’70, le location caotiche e colorate. Solo verso la fine si fa un po’ convulso, ma di capolavori che non cedono mai fino alla parola fine ce n’è… quanti ce n’è? Su Prime video, voto 9.
ULTIMA NOTTE A MANHATTAN
L’ultimo romanzo pubblicato di Don Winslow (Einaudi stile libero, Torino 2021, pagg. 346 € 18.50) non si può definire bello. Ma neanche brutto. C’è da aspettarselo con Winslow. Accanto a grandi libri ci ha rifilato patacche come I re del mondo (che sarebbe il prequel dell’ottimo Le belve), o il meno che mediocre Corruzione. Per cui, attenzione. Ma io, da perfetto italiano medio che non impara mai dagli errori, ci ricasco sempre. Intanto non comincia come un noir, e non prosegue neanche come tale. C’è un lungo dialogo iniziale tra il protagonista, Walter Whiters (il libro fu pubblicato nel 1996, quindi la quasi anonimia con Heisenberg è una coincidenza?) e la fidanzata, che in gergo si definisce telefonato, o chiacchiericcio: romanticume che sembra costruito dal più aprovveduto dei dialoghisti. E le pagine 172-73 sono a dir poco imbarazzanti: una passeggiata sdolcinata per l’adorata Manhattan durante le feste natalizie, un innesto di romanzo rosa stile Harmony piuttosto stucchevole. Poi, per due terzi del romanzo, non succede mai un tubo. Walter Whiters è un ex reclutatore della CIA che si è ritirato e ora fa il private eye per un’agenzia di security. Viene assegnato a un senatore, promettente futuro Presidente, come guardia del corpo. In gergo, un gorilla. Beh, diventa immediatamente un pari del senatore. Così, di punto in bianco. A un party il senatore, e soprattutto l’avvenente moglie, non parlano che con lui, con brillanti battute upper, pura ironia all’americana in una inverosimile simbiosi tra classi sociali che fa sorridere, per dire di peggio. Ma siamo pur sempre italiani, dotati di una pazienza infinita e sempre disposti a incassare calcioni nelle gengive senza battere ciglio. Così, avanti, sempre avanti.
Però. Però.
Salta fuori una minuscola ancora di salvezza. Al party fa irruzione una banda di beat ubriachi. Ah, già: siamo negli anni Cinquanta, anche se il decennio non si “sente” nel testo. Non si spiega, alcuni romanzi trasudano l’epoca in cui sono ambientati, altri, come questo, sono calati in un’era standard con alcuni dettagli posticci che non richiamano alcuna fusion. La masnada è guidata da uno scrittore diventato famoso per la pubblicazione di un romanzo beat. Costui, McGee, è chiaramente Jack Kerouac. E’ una sorpresa carina. Ma all’inizio l’autore, attraverso il suo protagonista, che è un americano old fashion di tipologia repubblicana anche se è solidamente posizionato nel campo democratico, lo prende in giro; diciamo pure che lo prende per il culo abbastanza pesantemente. E questo non è per nulla carino. Però poi si riprende, si redime, facendone un amico prezioso, sempre sballato ma generoso che lo aiuterà addirittura a risolvere l’oscuro, ragnateloso intreccio in cui si ritroverà impigliato. E così, finalmente, l’ultimo terzo prende il volo e si tuffa nel ritmo del vero thriller, avventuroso, ben calibrato, condotto con mano ferma dall’ottimo artigiano, con dialoghi brillanti e descrizioni riuscite. Con qualche problema però: a un certo punto, poiché la vicenda è parecchio intricata (e qui il lettore deve stare attento, perché alcuni dettagli precedenti che sembrano inspiegabili vengono chiariti col rischio di averli dimenticati), il nostro eroe si trova impantanato e non sa più come cavarsela. E allora il vecchio marpione che fa? Come si disimpegna? Come fanno molti autori di thriller quando finiscono nella cacca: ricorre al caso. Di lì passa un suo amico che ha addirittura un fucile a canne mozze sotto il soprabito col quale neutralizza i due scherani che l’hanno catturato. Ma guarda un po’ che colpo di fortuna eh? Così Whiters può concludere l’indagine, mettere a posto i tasselli mancanti e chiudere il caso, a dire il vero un po’ troppo complicato. Insomma, si può consigliare un libro con due terzi di zavorra? E per lo stesso motivo lo si può stroncare se ci offre un terzo di testo che scorre e diverte? Scelta difficile. Voto: NC