di Armando Lancellotti
Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino, 2021, pp. 128, € 13.00
L’ultimo libro di Adriano Prosperi – professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – è la lezione magistrale di uno storico di grande spessore che, in un intreccio di riferimenti che spaziano dalla storiografia alla filosofia, dalla sociologia all’antropologia e all’analisi economico-politica, affronta, in poco più di cento pagine, una materia oltremodo complessa e magmatica, quella delle intricate relazioni tra tempo, memoria, storia, realtà presente e prospettive future. Si parla di memoria, quindi, che innanzi tutto è una funzione psichica umana, incerta e fragile per la sua limitatezza soggettiva, ma è anche la memoria collettiva, fatta di ricordi ed esperienze comuni, di un canone da tramandare alle generazioni successive e poi, ancora, è la memoria del testimone, materia preziosa su cui lo storico è chiamato ad esercitare il proprio accorto lavoro di comprensione e conoscenza, così come sulla memoria intesa come immenso accumulo di dati e documenti che le istituzioni preposte selezionano, archiviano e conservano, salvandolo dagli abissi dell’oblio. Perché il ricordare è sempre necessariamente connesso al dimenticare ed è proprio nell’equilibrata e corretta interazione tra memoria ed oblio che si costruisce un buon rapporto col passato e con la storia. Quella storia – spiega Prosperi – che per lo storico è innanzi tutto historia rerum gestarum, storiografia, ossia narrazione delle vicende umane, che è altra cosa dalla storia intesa come l’insieme di quelle stesse concrete vicende umane, che a loro volta si distinguono dalla realtà naturale del mondo in cui sono sempre collocate, nonostante gli uomini, soprattutto i contemporanei, tendano a dimenticarlo e a trascurarne l’importanza, con conseguenze che la pandemia che stiamo vivendo dimostra al di là di ogni dubbio.
Nel recente passato, alla fine del cosiddetto “secolo breve”, ci fu chi profetizzò la fine della storia, ma la predizione è stata presto sbugiardata dall’unica legge veramente universale della storia stessa: il mutamento ininterrotto ed inarrestabile delle cose. Ma se il divenire perenne degli eventi, avanzando verso il futuro, continua a lasciarsi alle spalle il passato, ciò che sembra emergere come preoccupante cifra essenziale del presente è la crescente incapacità di ricordare il tempo trascorso o la deliberata volontà di dimenticare il passato, remoto e prossimo; è come se una sorta di patologia sociale avesse colto l’uomo contemporaneo, la malattia di Alzheimer patita collettivamente.
La distruzione di una cultura passa soprattutto attraverso la dispersione della sua memoria e il percorso della storia è disseminato di memorie dimenticate e di culture distrutte. Proprio la cultura europea, che per secoli, mettendosi al seguito di conquiste e al servizio dell’edificazione di imperi, si è imposta con la forza, sostituendosi alle altre culture e cancellandole, oggi – osserva Prosperi – sembra richiudersi su se stessa, quasi che desideri fermare la propria storia, dimenticandola o ignorandola. Un’Europa smemorata e dimentica della propria eredità culturale, che abbandona i propri valori migliori per sostituirli con quelli dell’esclusiva produzione di ricchezza e di profitto, mentre la pandemia in corso da più di un anno sta mettendo tutti di fronte all’urgenza di ricordare come valori quali la difesa della nuda vita umana e la tutela dell’ambiente che ci ospita debbano essere anteposti alla produzione di profitto e di ricchezza.
Nell’età contemporanea il problema della conservazione della memoria storica si configura principalmente in relazione al suo opposto complementare: l’oblio del passato. Prosperi trova l’origine e la spiegazione di questo problematico rapporto con il tempo nei processi e nelle dinamiche del sistema di produzione capitalistico, che reifica il tempo del lavoro speso nella realizzazione del prodotto, trasformandolo nel feticcio della merce. Questa dinamica reificante e obliante è stata elevata a potenza dalla finanziarizzazione globale dell’economia neoliberista, che ha condotto a modalità alienate e sbagliate di vivere il tempo, di conservare la memoria e di rapportarsi alla storia. Si vive in un eterno presente dimentico del passato, spesso ignorato o distorto, in un presente immobile, privo di speranza e non più capace di rivolgersi al futuro.
Nell’Italia di oggi, è la memoria collettiva che sempre più sembra svanire dietro la fitta coltre delle nebbie dell’oblio, quella che per generazioni è stata concepita come una diffusa consapevolezza di ricordi comuni, presente e circolante nella società, poi trasmessa dalla famiglia, dalle classi sociali, dagli ambienti di vita, di lavoro e studio, mentre la storia vera e propria doveva occuparsi della ricostruzione precisa dei grandi eventi e dei fatti rilevanti. Ma non è più così – osserva Prosperi – perché nella società odierna la trasmissione generazionale della memoria si è interrotta e da dinamica collettiva, che tramandava esperienze e racconti, si è trasformata in una fruizione individuale e personale di contenuti e informazioni resi disponibili in maniera mercificata dai mass media. Anche la scuola, il luogo di lavoro ed altri contesti di vita sociale hanno assunto questi tratti, poiché «la società del capitalismo avanzato è orientata in modo da parcellizzare e individualizzare l’apprendimento e l’esercizio di conoscenze e competenze» (pp. 16-17). La velocità orizzontale dell’informazione in rete ha soppiantato quasi totalmente la lentezza verticale di altre e precedenti forme di apprendimento, così come il fare che domina la nostra società ha preso il posto dell’agire: il primo è indirizzato all’oggetto, alla produzione della merce, ossia del feticcio che diventa l’unico fine sociale, mentre il secondo è orientato al soggetto, all’uomo. Sul piano politico poi la fine della prima repubblica ha causato il tramonto dei partiti tradizionali, portatori di una storia e che ragionavano dandosi delle finalità incardinate nella continuità della durata storica. «L’avvento del nuovo assetto ha coinciso con la liquidazione del senso della durata storica e ideale – fossero l’eredità cristiana o quella delle lotte di classe per la giustizia sociale. Al posto della storia emerse allora una parola nuova destinata a rapido successo: l’identità» (pp.22-23).
Ma l’identità è per definizione qualcosa di statico, immobile ed omologante e pertanto quanto di più lontano dalla storia – che è sempre differenza e mutamento – possa essere concepito; è un falso mito funzionale alla cancellazione della storia e dei suoi conflitti. E così – ricorda Prosperi – gli italiani furono indotti a scoprire un senso identitario, che equivaleva a «muovere guerra contro tutte le lacerazioni passate. Essere italiani doveva dunque prendere il posto dell’essere comunisti o fascisti, cristiani o atei. […] E siccome chi controlla il presente controlla anche il passato, si pensò di poter cancellare i conflitti decretando uguali riconoscimenti a partigiani e caduti fascisti» (p.23). Ebbe inizio in quegli anni una stagione di ideologico revisionismo storico che ha assediato, espugnato e saccheggiato la memoria collettiva, provocando ignoranza della storia ed oblio della memoria, come dimostrano dati statistici quali quelli dell’Eurispes Italia 2020, che contano un 15,6% di italiani per i quali la Shoah non è mai esistita.
Assistiamo ormai da tempo ad una generale perdita del senso della storia e al declino della dimensione storica nella società in generale e in particolare nell’ambito degli studi e dell’insegnamento, che produce i suoi effetti peggiori sulle generazioni più giovani, che vivono, come osservò Hobsbawm, in una dimensione di presente senza tempo, avendo perso la relazione organica col proprio passato storico.
Spiega Prosperi come, nella scuola italiana, l’insegnamento della storia e della lingua abbia rappresentato uno dei più efficaci strumenti di effettiva unificazione nazionale e come la storia abbia fatto da cornice di riferimento per molte delle altre discipline scolastiche; ma qualcosa è mutato, sono intervenuti cambiamenti epocali che hanno investito anche il microcosmo della scuola. Innanzi tutto la rivoluzione informatica e digitale che ha azzerato le distanze e ha impresso una velocità senza precedenti al mondo e che, se da un lato ha esteso in maniera inimmaginabile le nostre potenzialità complessive, dall’altro ha determinato uno stravolgimento della percezione dello spazio e del tempo, del modo di fruire della memoria del passato e di rapportarsi con la storia. Una sorta di cambiamento antropologico che alla profondità della prospettiva storica ha sostituito la simultaneità istantanea della forma mentis informatica.
Ma la rivoluzione tecnologica non basta a giustificare lo stato di cose presente e per spiegarlo lo studioso prende le mosse dagli incresciosi episodi di odio razzista e antisemita che hanno visto coinvolta, recentemente e ripetutamente, la senatrice Liliana Segre, a cui si accompagnano le bislacche riletture apologetiche di Mussolini e del fascismo o la ripetizione automatica del mito del “bravo italiano”. Per capire l’incerto e scorretto modo con cui il nostro presente ed il nostro mondo si relazionano con così tanta fatica al passato, a tal punto da preferire l’oblio e l’ignoranza al ricordo e alla conoscenza della storia, occorre ripartire dal grado zero della storia del Novecento, da cui ha avuto origine il nostro presente: Auschwitz e la Shoah. Come ha detto Piotr Cywiński, direttore del Museo Memoriale di Auschwitz Birkenau, una buona parte della cultura e della storia d’Europa, comprese la sua religione e le sue chiese, è sprofondata nel buco nero della Shoah. Lo sguardo e il punto prospettico da cui il nostro tempo guarda al passato sono ancora offuscati e distorti dalla difficoltà di fare i conti con questo passato prossimo.
Ma mentre la generazione di coloro che vissero quella tragedia, o che comunque la conobbero da vicino, è stata in grado di guardarla e di raccontarla, le generazioni successive si sono dimostrate incapaci. L’Europa, al termine del secondo conflitto mondiale, ha tentato di riemergere dal proprio abisso, ma alle aspirazioni rivoluzionarie, alle prospettive di progresso, di riscatto ed eguaglianza sociali, si è ben presto sostituita la normalizzazione del benessere prodotto dal trionfo del consumismo capitalistico, che consigliava di dimenticare un passato problematico ed inquietante con cui sarebbe stato estremamente complesso fare i conti. Stanno a dimostrarlo – riflette Prosperi – le vicende della “disputa tra gli storici” degli anni ’80 in Germania, dibattito innescato dagli scritti di quel Nolte che, invocando la consegna definitiva del passato nazista alla storia, in realtà ne auspicava la sottrazione agli studi della storiografia. Si trattò di uno di quei casi in cui l’espressione “consegnare alla storia” equivale a dire “abbandonare all’oblio”. L’Historikerstreit riguardò l’ingombrante “passato che non passa” del nazismo, ma la Germania non è certamente l’unico paese chiamato a fare i conti con una storia difficile da metabolizzare. L’ignoranza del passato prossimo, della dittatura fascista e dei suoi crimini, i vuoti di memoria della coscienza collettiva italiana, le ricostruzioni tendenziosamente apologetiche, le riletture revisionistiche, la ripetizione intenzionale di falsi miti depistanti, come la leggenda degli “italiani brava gente”, sono tutti epifenomeni di un medesimo problema fondamentale: l’oblio della nostra storia.
Nietzsche, in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, invocava l’oblio e la messa a punto di una sana “arte del dimenticare” che devono fisiologicamente accompagnare l’atto del ricordare, affinché il presente non risulti schiacciato sotto l’eccessivo e paralizzante peso del passato e la vita mortificata ed impedita dalla storia. Saper dimenticare è quindi tanto importante quanto saper ricordare, quanto conservare e ricostruire il passato e di ciò è consapevole lo storico, che, scegliendo cosa raccontare della realtà trascorsa, da un lato illumina un insieme di cose, eventi, processi, ma dall’altro getta un cono d’ombra su tutto ciò che si colloca al di fuori di quel fascio di luce. Ma se un’equilibrata e necessaria dialettica tra oblio e memoria consente alla storia di raccontare il passato e di comprenderlo, affinché faccia da base del presente e punto da cui partire in direzione del futuro, l’eccesso di smemoratezza, il travisamento sistematico del passato, l’ignoranza della storia impediscono di vivere il presente in modo consapevole e di aprire una prospettiva per il futuro. Oggi viviamo in un presente che appare senza futuro e che ha dimenticato il proprio passato: è questa la diagnosi infausta che emerge dalle lucide ed interessanti analisi di Adriano Prosperi.