di Alberto Prunetti
[Questa pubblicata su Carmilla è la versione originale di un articolo che è stato pubblicato su Il Manifesto in forma ridotta lo scorso sabato 8 giugno]
Martedì 4 giugno. Sono in un angolo di piazza Castello, davanti alla sede dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto, a Casale Monferrato. Cammino con Luca di Voci della memoria, attivista del movimento, nipote di un lavoratore Eternit morto per l’asbestosi: “Mio nonno era uno duro, non si fermava mai nonostante la tosse”, dice, “leggeva la Gazzetta dello Sport, che teneva nascosta dentro l’Unità, per non sembrare uno che sprecava il tempo”. Provo a immaginare un involto rosa dentro al giornale del Partito, ridiamo fino a quando ci taglia la strada un pensionato in bicicletta con un fascio di volantini che annunciano la convocazione di un’assemblea pubblica per fare il punto sulla vertenza nei locali dell’ex-Dopolavoro Eternit, perché loro lo chiamano ancora così, senza giri di parole, il “circolo ricreativo comunale”. Il vecchio operaio ha una vocina flebile, è minuto, pedala stando in piedi, senza sedersi sul seggiolino. “Come sto? Meglio, dicono che si è un po’ ridotto…” Il pronome indica quello a un tempo chiamavano “il mal di Casale” e che oggi è ormai conosciuto col termine più scientifico di “mesotelioma”.
Qui te ne parlano con naturalezza, senza drammi. Non è neanche compostezza, è il fatto che la scorza di questi piemontesi è coriacea: gente che non fa storie e lotta fino all’ultimo respiro, a testa alta e con un sorriso sul volto. “Com’è andata ieri?” Scuote la testa, “no, non c’era il mio nome”. È anche lui uno dei tanti che sono rimasti fuori dalla sentenza. La morte del “belga” De Cartier, oppure la riduzione del periodo di responsabilità” dello “svizzero” Schmidheiny, li hanno lasciati senza una riparazione economica. “Ma io ero uno di quelli che aveva provato con lo stress”. Ovvero che è uno di quegli ex lavoratori che avevano provato a entrare nel processo Eternit, non ammalati, sostenendo di aver sofferto un danno psicologico per la paura di ammalarsi, per ogni dolore alla schiena provato al risveglio, per l’ansia di fare le lastre a ogni colpo di tosse. Il test per lui è fallito: non è stato riconosciuto il suo disagio. Peccato, perché intanto si è ammalato anche lui, davvero, a dimostrazione che quel disagio non era un rischio statistico ma un danno reale. È una delle prove “delle luci e delle ombre” della sentenza d’appello eternit. Eppure non si lamenta e ci regala un sorriso, quando arrivano alcuni membri dell’Andeva, l’associazione francese di familiari e vittime dell’amianto. Chiedono dov’è la conferenza stampa, io do qualche indicazione in un francese approssimativo, lui salta sui pedali e fa segno di seguirlo, poi si infila nel mercato coi volantini che gli escono di tasca quasi impennando la ruota anteriore, con i francesi che arrancano per seguirlo.
Questa è una scena che le telecamere che lo scorso 3 giugno hanno occupato l’aula 1 del tribunale di Torino si sono perse. Tante storie minute, volti anonimi che sostengono i locomotori della resistenza casalese: la signora Romana, con i suoi occhi azzurri, di cui un giornale si inventa un preteso malore (quando l’unico malore è quello che ho io nel momento in cui lei mi stringe le mani con un’implacabile forza carsica e non me le lascia fino a quando non ha finito il suo discorso); poi Nicola Pondrano, l’uomo che per primo ha sfidato l’Eternit incollando i fogli mortuari dei dipendenti sui muri dello stabilimento; infine Bruno Pesce, che muove le mani come in un film muto di Ejzeinstejn tagliando lo spazio davanti a sé con mani e occhi magnetici. Le telecamere raccontano il processo, ma non riescono a raccontare lo sbigottimento dei primi due minuti, quando il presidente Alberto Oggè ripete continuamente “assolve” e il “fatto non sussiste”. I pugni si stringono, qualcuno mormora, ci si guarda sbigottiti. Poi arriva la parola colpevole, “18 anni” (“più del primo grado”, dice qualcuno), e poi soprattutto una parola importantissima “con dolo”). Infine una lista di nomi, lunghissima, eterna, come il danno provocato a Casale. Prima nomi di vivi, segnati dalla perdita dei familiari. Poi i nomi dei morti. Un genocidio. Mi colpisce un uomo che scandisce ogni nome con un martello immaginario che simula di impugnare, percuotendo l’aria. Intanto fuori comincia la macchina delle interviste, che Pesce e Pondrano gestiscono con abilità strategica, da sindacalisti di valore, quali sono. Ascolto Pondrano, e mi rendo conto che alcune cose vanno bene, altre non tornano. Vado da Pesce, e realizzo che sta già iniziando la mobilitazione per sistemare anche quelle cose che non vanno. La lotta continua: c’è da far pagare i padroni, non sarà facile, ora che importanti organi di diritto pubblico come l’Inps e l’Inail sono fuori. Ci vorranno traduzioni giurate, soldi, c’è un sistema svizzero che è fatto proprio per non farli pagare, i padroni. Con arroganza sembrano dire: “venite a prenderveli, questi soldi, se siete capaci”. Verranno. Sono sicuro. Quelli di Casale arriveranno in Svizzera, arriveranno anche in Costarica, dove “lo svizzero” risiede spesso, ma arriveranno. Camminano da decenni e non si sono mai fermati in questa battaglia. Ormai la seduta è tolta, la gente esce, i giornalisti continuano a intervistare, la Romana parla, si appoggia col braccio e racconta la sua rabbia.
Basta, ripartiamo, è un caos, la gente cerca i capi-pulman, i capi-pulman cercano gli autisti… è l’allegra brigata dell’Afeva, donchisciottesca ma anche efficace. Hanno l’impatto simbolico delle Madres de Plaza de Mayo, ma in quei volti c’è anche la forza dei vitigni del Monferrato. C’è la gioia di vivere che dà la lotta, che ti restituisce l’orgoglio e il sorriso anche in mezzo alle tragedie. Non ci sono troppe lacrime tra i casalesi, qualche momento di commozione che dura un secondo, ampiamente giustificato, poi si ride, ci si sbraccia. Nel pulman girano volantini di gite di pensionati, si accumulano i ricordi lavorativi. Un signore dichiara con entusiasmo di aver rinunciato a una carriera ecclesiastica “immensa” per fare il ferroviere. Adesso è in pensione ma si ricorda degli anni di formazione in seminario, dove ha fatto in laboratorio anche falegnameria. “Tenoni, mortase, incastri. Più che mobili facevamo bare”, e vorrebbe prendermi le misure, ma io mi nego. Cominciano le risate. È la cultura popolare: queste donne hanno fatto le mondine da giovani; questi uomini hanno lavorato nel peggior cementificio, quello in cui il cemento era mescolato con l’amianto. Eppure si ride, perché si è orgogliosi della propria lotta. Sfiliamo un pulman uno dopo l’altro, sembra Convoy di Peckinpah, abbandoniamo i capannoni industriali di Torino ormai abbandonati ─ l’immagine della crisi, con i vetri rotti e l’amianto usurato ─ ci infiliamo in una striscia d’asfalto circondata dall’acqua delle risaie che riflette il cielo. “Quella era una centrale nucleare”, mi dicono, “là ci sono le scorie radioattive”. “Quello è un cementificio, è pieno d’amianto, guarda”. “Adesso ti facciamo vedere la raffineria”. Eccola, la raffineria Maura, o quel che ne rimane: non c’è niente, hanno smantellato tutto, ci sono solo bidoni di veleni abbandonati e un divieto d’ingresso. È qui che ha lavorato mio padre nove mesi prima che nascessi io, nel 1972. Con la crisi del petrolifero, l’hanno chiusa negli anni ottanta. La Maura sta a Coniolo, a cinque minuti da Casale. Attraversiamo il Po, siamo arrivati. Troviamo a Casale tante bandiere tese dalle finestre: il tricolore con sovrimpresso la scritta “Eternit Giustizia”. Davanti all’Afeva, ci disperdiamo per darci appuntamento per la cena. Di corsa perché i tempi stringono. In albergo incontro un membro della’associazione di vittime francesi. Ha un nome italiano e la coincidenza vuole che suo nonno fosse un minatore di Gavorrano: uno delle mie parti, la Maremma della pirite e del ferro. Mi racconta che il nonno i fascisti l’avevano purgato con l’olio di ricino e poi pestato. Era un antifascista ma le ragioni del suo esilio erano più sentimentali. “La nonna era bella”, mi spiega, “e i fascisti le si avvicinavano troppo”. Annuisco. Lui continua: “Il nonno allora prese uno squadrista e gli staccò un pezzo d’orecchio con un morso”. Ovviamente dovette scappare in Francia. Ridiamo. La sera continua con i gruppi che si dividono in tante tavolate. Scorrono i vini del Monferrato, le risate si alternano ai ricordi più tristi. Immagini di ristoratori che mai hanno lavorato all’eternit, emigrati magari dal meridione, che poi sono “mancati”, come si dice spesso con un eufemismo diffuso da queste parti, per il solito male. “Anche i comignoli dei forni a legna erano in eternit”, mi dicono. Anche a me vengono a galla ricordi di bombole d’ossigeno e respiri affannosi. Poi basta, torna l’umore, si riempiono i bicchieri, domani c’è la conferenza stampa e venerdì l’assemblea pubblica.
La mattina, fuori dall’albergo, il mondo sembra piccolo: ci sono i francesi dell’Andeva, tra cui spicca un vecchio operaio con le gote rubizze e i baffoni; i belgi, gli spagnoli dell’Avida, un rappresentante dei lavoratori dell’amianto dell’America Latina. L’internazionale della resistenza contro il minerale assassino, contro chi ha incassato i dividendi della polvere, del sudore, della tosse e della morte. Il passo successivo è un documento congiunto letto durante la conferenza stampa. Si comincia a fare il punto della situazione. Pondrano dà alcune cifre e riesce a rivestirle della forza della vita. Sono statistiche piene d’amarezza. Ora bisogna andare avanti, evitare guerre tra poveri, rilanciare: serviva la condanna penale perché pagare non è un problema per chi è ricco; serviva la sanzione pecuniaria perché i soldi vadano nelle bonifiche, nella ricerca, nelle indennizzazioni. Partirà l’Eternit bis e forse un processo civile. Ricominciano le interviste, le mani si cercano, ci si saluta, si parte. Ma poi il gruppo si ricompone, un’ultima pizza dal “pizzaiolo solidale”. Il pizzaiolo è uno giovane, arrivato come tanti dal meridione, ha aperto una pizzeria a Casale, non ha mai visto l’Eternit in funzione eppure il lunedì, quando la pizzeria è chiusa, è andato a presenziare a tutte le udienze del processo. Ogni lunedì. È questa la forza dei cittadini di Casale. Mangiamo, la signora Romana è proprio davanti a me. Manda i saluti a mia mamma, si rimpallano i saluti da due settimane, da quando sono venuto pochi giorni fa a Casale, a presentare Amianto, spiegando che quello era quasi un ritorno, perché i miei genitori a Casale ci si erano trasferiti nei primi anni Settanta per alcuni mesi, quando mia madre era rimasta incinta di me. Intanto si confabula in tante lingue. Si commenta la dichiarazione incredibile dell’avvocato dello svizzero. Dopo questa sentenza gli imprenditori stranieri non investiranno più in Italia. Penso: meno male. Perché se un’idea d’impresa produce un genocidio, un disastro ambientale che perseguiterà per generazioni gli abitanti di un posto… meglio così. Pensieri che non tardano a essere condivisi, prima del caffè. Ci si risaluta ma solo per darsi un nuovo appuntamento. Finalmente svolto e mi avvio verso l’auto. Mentre mi allontano continuo a sentire l’eco di Bruno Pesce che organizza un’assemblea parlando dentro al telefonino in vivavoce. Parto col rammarico di non aver stretto la mano del pizzaiolo solidale che ci ha dato da mangiare. A quell’ora Casale è vuota. Intravedo solo un uomo in bicicletta, con un mazzo di volantini che escono dalla tasca: spinge sui pedali in piedi e ogni tanto dà un colpo di tosse.