di Franco Pezzini
Anna Kańtoch, Buio, trad. dal polacco di Francesco Annicchiarico, pp. 183, € 16, Carbonio, Milano 2020.
Di questo romanzo si è parlato parecchio, e giustamente. Definito “storia di formazione al contrario” o anche “libro di anti-formazione”, figura tra le prime opere (2012) di un’autrice giovane (non giovanissima, 1976) che si sta affermando nel panorama della letteratura polacca, ma in Italia non era finora nota al grande pubblico: ed è uno di quei romanzi capaci di fornire al lettore preziose chiavi di suggestione, provocazioni visionarie, soluzioni immaginali brillanti su quel nodo dell’identità (personale e collettiva, psicologica e sociale, persino politica) che rappresenta forse il tema centrale della letteratura moderna e direi certamente della letteratura fantastica. Forte di uno stile elegante, cui il traduttore ha reso splendido servizio, Buio (titolo originale Czarne, letteralmente “Nero”) può definirsi a pieno titolo un romanzo di letteratura fantastica, tanto più che il fantastico – lo sappiamo – non è tanto un contenuto quanto un modo di narrare. L’autrice stessa era partita – ammette – con l’idea di una fantascienza più tradizionale, ma il materiale le è evoluto tra le mani in qualcosa di più simile a un thriller psicologico o a un romanzo di realismo magico, anche se le etichette valgono quel che valgono. Di sicuro una lettura di grande godibilità e di spessore pienamente letterario, che spinge – una volta terminato – alla rilettura: e non solo per meglio sfidare il misterioso finale, ma in generale per gioire del labirinto di dimensioni intersecate a provocare il lettore e il suo mondo di appartenenza. Attenzione, seguiranno spoiler.
“Ho sempre saputo che prima o poi sarei tornata a Buio”. Il punto di partenza, nel 1935, vede la protagonista narrante – opportunamente senza nome, a permettere infinite sovrascritture identitarie – dimessa da un “sanatorio per i malati di nervi” (in realtà psichici) sul Baltico. Già dall’avvio in questa comunità da Montagna incantata ci rendiamo conto che è la classica narratrice inattendibile, tanto più che la sua appartenenza al presente è continuamente messa alla prova da strappi inattesi verso il passato o verso il futuro: “Mio fratello minore sposta indietro il tempo, e quello maggiore in avanti”, il primo perché rimasto indietro con il suo infantilismo, il secondo in quanto espressione di una rampante adultità. Il primo e minore, Staś (“un po’ lento, ma non stupido” e matrizzante), resta così custode di Buio, la tenuta dove la protagonista ha passato le epiche vacanze estive dell’infanzia e dell’adolescenza, fino all’evento traumatico e misterioso che proprio lì ha innescato la crisi psichica di lei: un uomo selvatico come quelli che incontreremo più avanti nel romanzo. Il secondo e primogenito, Franciszek (teso invece verso futuro e novità, “nato per il comando” e patrizzante), resta a tutela della sorella come farebbe un genitore, e le rivela – attraverso il crepitio di un visionario, magmatico trasformarsi di cose, luoghi, ambienti, tutto attorno a lui – quanto accadrà alla Polonia pochi anni dopo. La percezione della realtà da parte della narrante (“Io ero tra i due, la figlia di mezzo e di nessuno”) è dunque liquida e sfuggente, con slittamenti più o meno significativi avanti e indietro: e forse è questo uno dei sintomi per lei meglio avvertibili di una propria diversità.
“Diverso, come te?”
L’ambiguità della domanda resta sospesa tra noi due. Oppure non c’è alcuna ambiguità, forse l’ho solo immaginata.
Però la Nostra è diversa da tanti punti di vista, a partire in fondo da un’omosessualità vissuta in modo estremamente sereno, ma che certo in quel contesto culturale marca un’alterità sovversiva. Diversa anzi, in radice, nel non accettare – già da preadolescente – un modello preconfezionato di donna, ribellandosi alle aspettative familiari (emblematica la figura miserevole e avvilita della madre, che a un certo modello rimane appesa, consumandosi); e diversa, allora, proprio nell’accogliere la propria differenza come un punto di forza.
In ogni caso il rapporto con l’alterità e i diversi corre per tutta l’opera: indicativa è la stessa scelta del 1935, l’anno in cui in Germania vengono varate le Leggi di Norimberga che strappano la cittadinanza agli ebrei tedeschi e impatteranno un po’ ovunque. Ma è anche l’anno della Costituzione Polacca di aprile, confezionata apposta – contro le regole del Parlamento – per Józef Piłsudski, in pectore futuro Presidente della Polonia, considerato padre della riconquistata indipendenza, che però muore nel maggio di quell’anno. A chiusura di una stagione piuttosto breve di libertà del paese, ritagliato fuori dalla Storia di continue ingerenze straniere: e la vicenda della Nostra si articola proprio in quel periodo molto speciale – poco più di vent’anni, tra una guerra mondiale e l’altra – in cui la Polonia libera è terra d’arte, di teatri, di caffè eleganti.
Mi ricordo le vacanze trascorse a Buio e i primi giorni di scuola, le trasferte in città con la famiglia e le gite al parco con la tata. Il Capodanno del 1900 e mio padre che augurava a mia madre “felice nuovo secolo”, il tintinnio dei bicchieri. Per quale miracolo al mondo devo ricordare tutto ciò, io, bambina nata alle soglie del nuovo secolo, che in quel giorno avevo solo qualche mese?
In un clima da grande romanzo mitteleuropeo, la protagonista abbandona dunque il sanatorio di cui Franciszek (quello che sposta il tempo in avanti) non intende più pagare la retta e rientra a Varsavia, ospite di lui e della scipita cognata, restando alla deriva di un proprio tempo interiore: una risacca confusa dove nostalgia ossessiva del passato, e forse prescienza di un futuro incombente e ben più ingombrante, rendono impossibile qualunque lucido appiglio alla realtà.
Ci ho provato a vivere normalmente, ma ogni volta sentivo che l’irreale non spariva, si spostava soltanto di un po’. […] A volte ci riuscivo, altre no, e c’erano giorni in cui possibile e impossibile si sovrapponevano, entrambi concretissimi.
Ora credo che l’impossibile abbia vinto, ed è il momento di affrontarlo.
Ma quanto questo irreale o impossibile è tale davvero, e quanto invece appartiene semplicemente a un linguaggio di tempi interiori? Gli eventi si mischiano, e il rovello della Nostra di tornare nella casa di famiglia in campagna, ormai in piena decadenza nelle mani dell’inselvatichito Staś, rappresenta la svolta chiave: indicativo che la tenuta si chiami Buio (appunto Czarne, Nero, autentico toponimo polacco), e questa volontà di un ritrarsi umbratile che offra riposo ma anche risposte sembra paradossalmente ostacolata dal luogo, fin dal nome che la vela di mistero e di lutto.
Quella casa era il nido delle vacanze di famiglia, l’arca dei ricordi di giochi d’infanzia e prima adolescenza, normale che per capire il proprio passato lei sgatti lì: laggiù dov’era iniziata “l’alleanza dei maschi contro la femmina” quando i fratelli avevano ricevuto un libro sugli indiani dal padre. “Io ne sono esclusa: sono una bambina e quindi mi regalano una bambola, che non voglio, preferisco il libro”, e i fratelli si risolvono infine a prestarglielo. Ma quando come gli indiani prendono a usare l’arco, inopinatamente feriscono a morte un capriolo. Il quattordicenne Franciszek decide di finirlo per non farlo soffrire, ma invece di sgozzarlo lo sventra, e “nell’intreccio di quel groviglio grigio vidi due cuori, che ancora battevano” (più avanti scopriremo che questa dei due cuori è la versione offerta dai fratelli, a cui la Nostra ha finito col credere). È tale sorta di peccato originale legato a una dialettica identitaria – due cuori da un solo petto, conserviamo a mente l’immagine – e a una finzione affabulatoria, a introdurre l’evento chiave che poco dopo segnerà la crisi della Nostra, un episodio tragico e misterioso consumatosi nel 1914: la morte violenta della bella attrice teatrale Jadwiga Rathe, ennesima musa che il padre oculista Tadeusz Rec aveva rimorchiato a Buio davanti alla smontata consorte Janina, quale modello per i suoi ritratti da pittore dilettante e per qualche attenzione più equivoca. Il fatto è che
I miei ricordi sono così volatili. Più mi sforzo di descriverli precisamente, più mi sfuggono, non trovo le parole, il significato scivola via come acqua tra le dita. L’irreale, la sensazione di soffocare, l’ombra: non è questo, assolutamente, anche se forse si tratta di una percezione affine. Nessuno dei cinque sensi può avvertirla, è rilevabile solo con qualcosa che non esiste nella lingua degli uomini. Forse.
Altre volte, invece, mi sveglio al mattino e il ricordo per qualche secondo si fa acuto, come se guardassi una vetrata illuminata dal sole. È allora che capisco tutto, il senso di quel segreto e chi sia io, veramente. Poi la comprensione sfuma, e resto a letto con la testa piena di residui dei sogni svaniti, e col corpo leggero, svuotato come una muta abbandonata.
“[…] e chi sia io, veramente”. Assediata dai ricordi che pure incalza per recuperare “quella creatura bambina che ero un tempo [e] sfugge ogni giorno un po’ di più”, la Nostra viene avvicinata da un altro diverso, “uno straniero a questo mondo”, tale Piotr Staszkiewicz, che ha notato in lei una sua strana somiglianza con Jadwiga (tale somiglianza, di cui la protagonista sembra compiacersi, viene rilevata di continuo – o almeno ci riferisce che così avvenga); e la mette in contatto con la propria associazione di spiritisti, cui Jadwiga stessa era stata affiliata. Da loro caldamente sollecitata, la protagonista decide di tornare a Buio per indagare su quella morte che in qualche modo la ossessiona: in apparenza proprio il trauma dell’assassinio di Jadwiga ha fatto precipitare la sua crisi psichica, spalancando un buco nero della memoria per i due anni successivi. Ma c’è un motivo persino più puntuale per cui gli spiritisti vorrebbero conoscere la verità, visto che Jadwiga aveva accettato l’invito del galante e spudorato Tadeusz per ragioni ben diverse da quelle da lui auspicate. “Chi siamo noi?” scriveva l’attrice in una lettera fortunosamente riemersa.
Ma soprattutto, chi sono loro? Perché il mondo non funziona come dovrebbe? Ci avrai sicuramente riflettuto anche tu, più di una volta. Conto di trovare una risposta, una volta a Buio, e non appena accadrà, non ti nascondo che te lo comunicherò immediatamente. […]
A Buio scopriamo insomma chi siamo, e chi sono gli altri, e il senso del dramma della realtà: e ciascuno di noi ha forse un Buio dove tornare – “Ho sempre saputo che prima o poi sarei tornata” lì – per decrittare la nostra vita, la nostra stessa diversità (comunque declinata) e il senso di un’alterità.
E qui troviamo una svolta fantastica che è un colpo di genio. In un caffè di Varsavia la Nostra incontra il padre Tadeusz: sì, nei fatti è morto, ma non lì, dove ogni tanto lo vedono e il tempo sembra seguire una biforcazione che riporta alla gioventù di lui. Tanto che la avvicina, facendo il furbetto: al che lei, per nulla affascinata dal maschio, ma dolorosamente turbata da nostalgie d’infanzia verso l’uomo che in fondo è il papà, si presenta come Jadwiga e prende a frequentarlo, facendosi portare da lui alla Buio nel passato. Lì non può che imbattersi e rapportarsi con la quattordicenne che era stata, in un rispecchiarsi ambiguo, a tratti torbido ma estremamente illuminante delle dinamiche familiari un po’ losche, che può rileggere ora con occhi diversi e meno ingenui.
Confida ora la ragazzina che lei era stata: “Io volevo tutta Jadwiga, avrei voluto strapparle la pelle e infilarmici dentro [si vedano le ultime righe del romanzo, che riprendono la suggestione, ma si pensi anche al capriolo coi pretesi due cuori]; volevo essere lei, forse si tratta solo di questo”. Nei fatti quanto descrive è un vero innamoramento adolescenziale per la diva custode di un mondo incantato, e insieme modello scintillante di femminilità libera contro ogni condizionamento di ruolo sessuale. E l’autrice è abilissima nel far sì che la voce narrante passi fluidamente dalla ragazzina innamorata all’adulta in visita (“Non sono la vera Jadwiga Rathe e non riesco a fingere”) e viceversa, in un pingpong continuo che flirta con un concetto di bidentità – forse per effetto della rifrazione, la bambina mostra una lucidità adulta che la Nostra non ricordava di aver avuto – e porta a emergere ipocrisie e crisi della famiglia Rec. Percependo l’odio della moglie di Tadeusz – dunque sua madre – per l’ennesima amante del marito, l’ostilità del primogenito, la perplessità degli altri… In fondo, se ci pensiamo, un po’ tutti siamo riconoscibili in un ventaglio di identità sparigliate tra il passato (in particolare quello che riconosciamo più fondativo, per quanto situato nel Buio di noi) e squarci di un futuro cui tendiamo, come nell’oscillazione di un pendolo che lascia al presente il tempo di un passaggio breve. Ma cosa significano le assicurazioni della Nostra di non essere la vera Jadwiga? Perché le date anagrafiche dell’attrice, riportate su un vecchio giornale relativo all’omicidio, sono “1858-1893”? E perché è così difficile stabilire l’ora della morte di Jadwiga?
Infatti c’è un passo ulteriore, una nuova capriola della trama: laddove nel bosco della tenuta – e sappiamo come il bosco sia una dimensione altra nei miti e nelle fiabe – incontra sorta di eremiti che raccontano una strana storia su “Uomini, donne e bambini […] venuti da ogni parte, dalle città e dai villaggi. E poi hanno preso i loro ricordi e così hanno costruito una falsa Polonia. […] Sapevano di essere diversi. […] Come lei, signorina”. Anzi, “Quelli che sono venuti qui da noi, non sempre erano persone. Loro erano gli unici convinti di esserlo, ma non era così […] Se si va abbastanza a fondo, non si può parlare di errore”.
È possibile non essere umani e non rendersene conto?
La penna è sospesa sul foglio, l’inchiostro gocciola sul bianco della carta.
Io credo di sì, scrivo. Un bambino isolato dagli altri, privato di qualità come l’intelligenza, o dei sentimenti più nobili, può pensare di essere un cane, se è cresciuto tra i cani; allo stesso modo, l’Altro, se isolato dalla propria razza e dalla propria comune consapevolezza, può ritenere di essere un uomo.
Riflessioni che, nella situazione del romanzo, possono far pensare a una sorta di Doppelgänger (la Jadwiga tornata a Buio non sarebbe una persona bensì un suo doppio, spurgato tra le pieghe del tempo) e le provocazioni storiche sono evidenti: pensiamo al 1935 delle deumanizzanti leggi razziali tedesche, o – ai nostri giorni – a certe identità scheggiate come amigdale e brandite dall’uomo della strada o in certo subdibattito politico. D’altra parte la ragazzina vuole essere Jadwiga, rifiutandosi di stare – in un’età di svolta e di scelte identitarie – nel ruolo sociale della bambina che riceve la bambola: vuole essere il guerriero indiano, partecipa alla caccia e conosce l’esperienza iniziatica della morte (attraverso l’uccisione del capriolo). Ricevendo anche quella storia dei due cuori che in qualche modo emergeranno dalla ferita aperta del suo rapporto con Jadwiga – con una femminilità vincente e libera, ben diversa da quella dimessa suggerita in famiglia. Uccisa forse (non lo sapremo mai con certezza, la narrante non può affrontare l’indicibile, legato al trauma che la segnerà) dal fratello Franciszek con il fucile trovato nel bosco: la logica dei patriarchi guarda al futuro, stronca l’antimodello che potrebbe ispirare le donne del clan a una pericolosa ribellione, preferisce far arenare alla deriva dello squilibrio psichico. O invece forse già morta nel 1893, magari per il colpo di fucile di un abitante della zona che la considerava non umana… e allora potremmo comprendere il messaggio di Jadwiga (2: morta nel 1814) agli spiritisti, e perché possa tornare come Jadwiga (3: in apparenza nel 1935) trasfondendosi nella ragazzina di tanti anni prima.
Nata probabilmente come storia di paradossi temporali, razionalizzabile (ma a patto di perdere gran parte della forza simbolica) quale vicenda innescata da un’ipnosi o da una possessione nel corso della seduta spiritica, con i suoi mille sottintesi e sfumature Buio rende in realtà impossibile chiuder tutto con un’interpretazione troppo univoca. Diciamo che è un testo del fantastico nel senso più stretto, todoroviano: in scena è una sospensione imbarazzante rispetto alle nostre categorie d’interpretazione della realtà, una domanda che resta nell’aria, un dubbio che fertilmente ci interpella e mantiene la cifra intatta del linguaggio simbolico. Certamente è una storia di barriere infrante, di tabù violati (omosessualità femminile, incesto), di perversione almeno virtuale (le attenzioni sessuali tra la narrante/Jadwiga e la narrante/quattordicenne culmineranno nella loro trasfusione unificante, rivelando cioè natura ben diversa da una scena pedofila, ma il sapore disturbante resta), di bugie che assomigliano pericolosamente alla verità e di ipocrisie familiari altoborghesi scoperchiate con forza di epifania. Anche la chiave di un sogno o un viaggio simbolico nei meandri della memoria parrebbe troppo debole. Anche se certo il passato c’entra.
In un antefatto dell’inverno 1863 (cap. 18) nella zona scopriamo essersi consumato uno strano fatto di sangue: un ragazzo sconosciuto aveva sparato in viso a un vecchio sostenendo che un diavolo gli aveva rubato la faccia e l’aveva sostituito. Ma anche il bosco pareva cambiato, ne venivano “cose molto più simili all’uomo” a portare orrori grotteschi o sosia impossibili, e a nulla era servito l’intervento del prete locale – tanto che una notte di primavera gli abitanti erano scomparsi, in un clima che ci ricorda L’invasione degli ultracorpi. Anche Jadwiga, non è casuale, morirà per uno sparo nel viso, a distruggerne la somiglianza-calco. La data del 1863 non è casuale: l’autrice ricorda in qualche intervista come quell’anno si verifichi la cosiddetta Insurrezione di gennaio, contro i russi e in nome di un’identità polacca che non esisteva più sulle mappe geografiche. Di nuovo dunque una questione identitaria, dove la metafora non può essere forzata troppo strettamente sul racconto.
Certo queste misteriose alterità si mitologizzano nel corso della narrazione come maschere d’inquietudine. Gli altri possono trovarsi in mare, con echi vagamente lovecraftiani:
Mi ricordo quel che mi raccontò una volta Irenka: diceva che più al largo vanno gli uomini, più strani sono gli esseri che pescano. Le aringhe comuni, i merluzzi e le sogliole si trovano vicini alla costa, ma più lontano si trovano strambe, fantasmagoriche creature, non del tutto vive, né morte, dagli sguardi enigmatici e dalle forme insolite.
Registriamolo: “non del tutto vive, né morte”, “più lontano”. O invece allignano sotto terra, sul confine:
il grano cresceva su cumuli allungati non più lunghi di una tomba, ma più stretti […] Li fissai, e immaginai delle persone che ci dormivano dentro, con le mani intrecciate sul petto e gli occhi chiusi coperti dalla terra. Il loro respiro era così leggero che bisognava posargli l’orecchio sul petto per accorgersi che erano ancora vivi. […] quando quelle persone si sarebbero svegliate, sarebbero scivolate fuori dal terreno, scuotendosi la polvere dalle valigie e dai soprabiti da viaggio, e poi sarebbero tornate a casa a raccontare
eccetera. Il fratello minore stesso può apparire neonato alla narrante come “una nube di oscurità, una creatura informe nera e sfilacciata, come l’ombra di un ragno sulla parete”. Eppure Jadwiga, almeno quella che torna a Buio, sembra avere caratteristiche un po’ diverse. Qualche commentatore ha opportunamente citato Carmilla, testo plausibilmente ben noto all’autrice: e la scena di eros lesbico che sciocca Tadeusz al cap. 16 di Buio, significativamente titolato Rondò, Jadwiga allo specchio – e sappiamo quanto la simbolica dello specchio rilevi in Carmilla – è accompagnata dal ricordo di come la quattordicenne fosse affascinata da lunghezza e massa dei capelli di Jadwiga, soppesati e lasciati scivolare tra le dita, episodio-calco di uno di Le Fanu. Non nel senso, beninteso, che Jadwiga sia un vampiro (anche se pare vissuta e morta prima di quanto appaia); ma, come Carmilla, in quanto rifrazione della narrante, dei suoi desideri inconfessati e inconfessabili, e oggetto di Perturbante, con tanto di conclusione malinconica del loro rapporto. In effetti la narrante immagina a un certo momento
degli esseri che prendono per una funzione fisiologica tutto ciò che per noi è il senso della vita. […] ciò che per noi è legato alla ragione e all’anima, a loro riesce del tutto inconsapevolmente, a livello cellulare. […] Noi non abbiamo la capacità di impedire al cuore di battere, o al sangue di scorre nelle vene; così, anche loro non possono trattenersi dal dire o fare certe cose, anche a costo di danneggiare un’intera comunità. […] E, cosa peggiore, noi, gente, non siamo in grado di andare d’accordo con loro. Se proviamo a parlarci, otteniamo solo un muro di riflessi fisiologici, non conosciamo la loro lingua […].
Le “non persone” che si sono sostituite alla gente del villaggio, forti della magia selvaggia del bosco, sono allora doppioni figli di desideri, di sogni febbrili, di emozioni impastate nella Storia. Non alieni, anche se simili agli Ultracorpi, ma ombre della vita vissuta e dei desideri che la animano: e tali da poter tornare recando sconquassi. Come Jadwiga 2, tornata a Buio a morirvi solo nell’immaginazione della narrante, che non l’avrebbe mai incontrata davvero; come Jadwiga 3, che assume l’identità della 2 e le si sovrascrive, identificandosi per rifrazione/trasfusione con la ragazzina del 1914… Uccisa da uno degli eremiti del bosco o piuttosto da un giovanotto rampante verso il futuro, da quel futuro Jadwiga è richiamata per il desiderio di una ragazzina affascinata da tale modello, a cui dicono assomigli tanto; e senza rendersi conto della propria identità di “non persona” torna al passato modificandolo in qualche misura – ad arricchire l’identità della ragazzina stessa e svelarci, come ai sodali spiritisti, “Perché il mondo non funziona come dovrebbe”. Funzionerebbe, forse, se di quel passato tenessimo memoria, e se sfrondassimo la realtà da una serie di modelli premasticati e avvilenti che costringono a proiettare il non-morto come riflesso di uno specchio buio.
Indicativo, del resto, il rapporto con ciò che è irreale o decisamente finto:
Quasi tutto ciò che è accaduto a Buio è falso, eppure non riesco ancora a pensare a quel periodo senza che il cuore mi si riempia di nostalgia.
Qualcosa che, di nuovo, sembra richiamare il finale di Carmilla. Perché, impastati come siamo della stessa sostanza dei sogni, proiettiamo attraverso fiati onirici, desideri ed emozioni nella grande Storia, e nella nostra stessa storia personale, spettri magari irreali, finti, ma capaci di protestare una vitalità autentica in grazia di riflesso (e la bubbola dei due cuori prende allora senso, e svela un arcano interiore). Una finzione che, voce dell’irreale o dell’impossibile impostosi alla protagonista, può tuttavia svelare la realtà e chiamarsi letteratura.