di Paolo Lago
Guy Debord, Ecologia e psicogeografia, a cura di Gianfranco Marelli, elèuthera, Milano, 2021, pp. 184, € 17,00.
La grandezza intellettuale di un autore, fra le altre cose, sta nel riuscire a comunicarci le sue idee in modo efficace anche a distanza di tempo. Guy Debord, scrittore, filosofo, cineasta, artista, uno dei fondatori dell’Internazionale Situazionista, in questo senso, è sicuramente un autore e un intellettuale significativo: le sue idee, le sue teorie e le sue opere – a cominciare dal suo testo più noto, La società dello spettacolo – risultano efficaci anche applicate al mondo di oggi. Per comprendere meglio le complesse dinamiche di relazioni di potere che attraversano la società attuale possiamo rivolgerci perciò anche a un interessante volumetto uscito recentemente per “elèuthera” che raccoglie diversi scritti di Debord sul tema di “ecologia” e “psicogeografia”, dal titolo, appunto, Ecologia e psicogeografia.
Bisogna comunque mettere subito in chiaro che Debord non dà alla parola “ecologia” il significato correntemente in uso, coniato nel 1866 dal naturalista tedesco Ernest Haeckel (“la scienza dell’economia, del modo di vita, dei rapporti vitali esterni degli organismi”). Come nota Gianfranco Marelli nell’ampia postfazione al volume, Debord, con “ecologia”, indica il “contesto urbano diviso «in piccole unità che sono in parte unità della vita pratica (habitat, commercio) e in parte unità d’ambiente» […] In tal modo il termine ecologia viene imprigionato entro la definizione di abitato che occupa con i propri edifici lo spazio urbano”.
Al centro degli scritti di Debord raccolti nel volume vi è quindi il concetto di “spazio” che, del resto, appare come uno dei punti cardine della cultura contemporanea, in opposizione al tempo che, invece, caratterizza maggiormente la modernità. Come ha scritto Bertrand Westphal, principale studioso della geocritica, la categoria di “spazio” si trova al centro di diverse teorie critiche, letterarie e filosofiche della contemporaneità. Nel capitolo ottavo del volume, dal titolo Prospettive di modificazioni coscienti nella vita quotidiana, rielaborazione di uno scritto uscito su “Internationale situationniste” nel 1961, lo studioso francese afferma che “le nuove città di oggi raffigurano con chiarezza la tendenza totalitaria dell’organizzazione della vita da parte del capitalismo moderno: gli individui isolati (generalmente isolati nel quadro della cellula familiare) si vedono ridurre la propria vita al puro squallore del ripetitivo quotidiano, associato all’assorbimento obbligatorio di uno spettacolo anch’esso ripetitivo”. Queste notazioni ci possono far venire in mente il controllo autoritario sullo spazio attuato oggi, all’epoca del Covid: il lockdown e le limitazioni del movimento, al di là dei risvolti emergenziali, altamente mediatizzati e spettacolarizzati (che sono soltanto una sovrastruttura esteriore), possono rappresentare, alla luce della frase di Debord, la piena realizzazione del controllo della dimensione spettacolare del Capitale sugli individui a fronte della reale incapacità, da parte di un sistema di governo, di gestire razionalmente il contenimento del virus. Vengono imposti sia l’isolamento all’interno di una “cellula familiare” che assomiglia sempre di più alle famiglie perfette (e consumatrici) della pubblicità televisiva, sia uno “spettacolo ripetitivo” all’interno delle mura domestiche fra pay tv, videogiochi, social, telegiornali pronti a decantare la bellezza dello starsene rinchiusi e isolati a godere di tutte le meravigliose comodità che il Capitale ci impone. Come scrive Debord, “questa società tende ad atomizzare le persone in consumatori isolati, a proibire la comunicazione. La vita quotidiana è così vita privata, dominio della separazione e dello spettacolo”. In questo senso, il Covid capita come il cacio sui maccheroni nelle mani del Capitale: il lockdown, in questo senso, forgia il consumatore ideale, isolato, lesto nell’acquistare qualsiasi cosa su Internet, felice del suo smart working e dei suoi rapporti sociali digitalizzati. Un individuo rappreso nella dinamica di una vita privata condotta a livelli esponenziali, che non si rende conto che, in definitiva, se la vita è “privata”, lo è perché – come scrive Debord – è privata “molto semplicemente della vita, che ne è crudelmente assente”.
Siamo arrivati a un momento della storia sociale che nega qualsiasi tentativo di aggregazione ludica e creativa: allo stato attuale, qualsiasi proposta di “creazione libera di eventi” proposta da Debord come resistenza alle dinamiche spettacolari e lobotomizzanti messe in atto dal Capitale sarebbe veramente impossibile. Ma, forse, è proprio al giorno d’oggi che essa si caricherebbe di un significato più profondo: assumerebbe, infatti, una valenza maggiormente sovversiva nei confronti del diktat autoritario della dimensione economica e spettacolare che avvolge la nostra esistenza. Una “deriva”, oggi, assumerebbe una precisa connotazione di disobbedienza alle norme imposte dal Capitale. Come scrive Debord nel capitolo quarto del libro, costituito da un testo uscito in rivista nel 1956 e intitolato Teoria della deriva, la “deriva” consiste in “una tecnica del passaggio frettoloso attraverso ambienti vari” (all’interno di uno spazio urbano) connotata da “un comportamento ludico-costruttivo, il che l’oppone in toto alle nozioni classiche di viaggio e passeggiata”. Si può “andare alla deriva” (dériver) da soli, ma si raggiungerebbero risultati migliori in piccoli gruppi di due o tre persone “pervenute a una stessa presa di coscienza”; la durata media di una deriva è di un giorno ma può essere prolungata anche per tre o quattro giorni o anche di più. La sua estensione massima può raggiungere un’intera grande città e le sue periferie; la minima può comprendere un solo quartiere o un isolato. Interessante è anche la dinamica, che si può sovrapporre alla pratica della deriva, dell’appuntamento possibile: “Il soggetto è pregato di recarsi da solo a un’ora stabilita in un luogo che gli viene fissato. È libero dai penosi obblighi dell’appuntamento ordinario, visto che non c’è nessuno da aspettare”. Eppure, “potrebbe essere stato dato contemporaneamente e nel medesimo luogo un altro appuntamento possibile a qualcuno di cui egli non può prevedere l’identità. Potrebbe persino non averlo mai visto, il che lo spinge a stabilire una conversazione con diversi passanti”.
Centrale, all’interno dell’analisi dello spazio messa in atto dallo studioso, è il concetto di “psicogeografia”. Nel capitolo settimo, Ecologia, psicogeografia e trasformazione dell’ambiente umano, un testo inedito del 1959 incluso nelle “Opere” uscite presso Gallimard, l’autore scrive che “la psicogeografia è la porzione del gioco nell’urbanismo attuale”, ribadendo che essa si configura come “una sorta di «fantascienza», ma fantascienza di un pezzo della vita immediata, e di cui tutte le suggestioni sono destinate a un’applicazione pratica, direttamente per noi”. L’analisi del concetto di “psicogeografia” si pone in netta antitesi con quello di “ecologia”: se quest’ultima “si propone lo studio della realtà urbana d’oggi, e ne deduce alcune riforme necessarie per armonizzare l’ambiente sociale che conosciamo” (abbracciando soltanto la “pseudo-libertà del tempo libero, che è un sottoprodotto necessario all’universo del lavoro”), la psicogeografia, “che ha senso solo come dettaglio di un tentativo di abbattimento di tutti i valori della vita attuale, si muove sul terreno della trasformazione radicale dell’ambiente”.
Estremamente attuali in tempo di Covid sono anche alcune riflessioni svolte ne Il pianeta malato (che costituisce l’undicesimo capitolo della raccolta), uscito su “Internationale situationniste” nel 1971. Come scrive Debord, “una società sempre più malata, ma sempre più potente, ha ricreato dovunque concretamente il mondo come ambiente e scenario della sua malattia, come pianeta malato”. Se il Covid nasce proprio in seno alla ‘malattia’ endemica del pianeta provocata dal sistema di sfruttamento economico capitalistico, che manipola l’esistenza umana e animale in funzione del profitto, la stessa emergenza mediatizzata e spettacolarizzata sui media di ogni tipo ha creato un gigantesco diversivo per cui, in nome della sicurezza, sono state azzerate tutte le lotte per l’ambiente sorte negli ultimi anni. A proposito delle lotte per l’ambiente – scrive il pensatore francese – “la semplice verità dei «fattori inquinanti» e dei rischi attuali, infatti, è sufficiente a costituire un immenso motivo di rivolta, un’esigenza materialista degli sfruttati, altrettanto vitale di quanto lo è stata la lotta dei proletari del XIX secolo per la possibilità di mangiare”.
Nel testo che chiude il volume, intitolato Commentari alla società dello spettacolo, che costituisce i capitoli XIII-XIV della più ampia opera con lo stesso titolo (1988), Debord nota che, nella “società dello spettacolo” “non si chiede più alla scienza di capire il mondo, o di migliorarlo in qualcosa. Le si chiede di giustificare istantaneamente tutto ciò che viene fatto. Il dominio spettacolare, ottuso su questo terreno come su tutti gli altri, che sfrutta con la più rovinosa irriflessione, ha fatto abbattere l’albero gigantesco della conoscenza scientifica al solo fine di farsene intagliare un manganello”. E, in tempi di Covid, è ormai assodato che l’altra faccia della scienza non è altro che il manganello di una sovrastruttura poliziesca la cui ombra abbraccia il controllo sociale fino alla “campagna militar-vaccinale”, come ha scritto Giovanni Iozzoli in un appassionato intervento su “Carmilla”. Come scrive Marelli, la scienza finisce per “rassicurare la popolazione mondiale, snocciolando cinicamente una sfilza di dati sui tempi del perdurare degli effetti, sulle dosi da assumere per lenirli, ma guardandosi bene dall’affrontare la causa che li ha determinati”.
Ecologia e psicogeografia, per concludere, offre una selezione di scritti di Debord che, come l’intera sua opera, hanno ancora molto da dirci oggi, nella difficile situazione che stiamo vivendo, poiché mettono in primo piano gli aspetti più autentici dell’esistenza, connotati da una dimensione passionale e ludica contro l’alienazione, il controllo totalitario e il consumo spettacolare passivo. E si potranno intravedere vie di fuga dalla prigione del Capitale per mezzo di una lotta che affermi la propria lucidità e consapevolezza di fronte all’alienazione che ci avvolge ogni dove: “Bisogna considerare il peggio e combattere per il meglio” per, in definitiva, riappropriarci di tutta la vita ‘vera’ di cui siamo stati privati.