Ieri, 22 marzo, Sante Notarnicola, eroe e poeta proletario, è riuscito a saltare l’ultimo muro di questa galera di cemento e leggi speciali che ci ostiniamo a chiamare vita. Ora corre libero in un altro luogo dove potrà tornare ad abbracciare Adriano, Prospero, Bianca, Pietro e tutti gli altri amici di sempre che lo hanno preceduto.
La sua anima di poeta, rimasta impressa nei ricordi di chi l’ha conosciuto, ne impedirà la trasformazione in monumento retorico e freddo, esaltandone invece la profonda e irriducibile umanità.
Per ricordarlo “Carmilla” ha scelto di riproporre un suo testo apparso nella raccolta degli Atti del Convegno di Bologna del 12-13 marzo 1994 “Anni ’70 – anni ’90 – Chi non ha memoria non ha futuro” a cura del Centro di Documentazione Francesco Lorusso pubblicata sulla rivista “Vis-à-vis” n.3, 1995.
I dannati della terra e la rivolta delle carceri
di Sante Notarnicola
Compagne e compagni, permettetemi con gli inizi di questi lavori di mandare un nostro saluto alle compagne e ai compagni imprigionati. Alle compagne e ai compagni esuli, specialmente a coloro il cui esilio è gramo; il nostro saluto va agli esiliati che non godono di particolari favori, o perché mancano di strumenti e mezzi personali, o perché la loro coerenza politica li pone in una fitta rete di diffidenza e di controllo che li costringe ad una vita di emarginati.
E ricordando l’esilio di tanti, un ricordo commosso va al compagno avvocato Sergio Spazzali che tanto ha dato ai prigionieri e nulla ha avuto in cambio, se non l’affetto e la stima di tanti rivoluzionari. Sergio andato ad allungare la lista di quei compagni che hanno dato tutto, proprio tutto…
Alle compagne e ai compagni tuttora imprigionati, oltre al nostro saluto, mandiamo a dire che durante questi lavori porremo al centro la questione della loro liberazione.
Vogliamo sviluppare un’azione politica ad ampio raggio per superare la frammentazione di iniziative che ha caratterizzato gli ultimi due anni.
Sta a noi fuori fare in modo che siano superati gli ostacoli che impediscono, anche su questo terreno delicato, un apporto unitario del movimento. Quanto ci auguriamo venga fuori da questo convegno.
Gli ostacoli sono di diversa natura, alcuni legati a vecchi travagli oggi superabilissimi, dato il tempo trascorso (mi riferisco alle divisioni degli anni ‘70 che caratterizzarono la vita del movimento rivoluzionario). Altri ostacoli invece sono tuttora vivi, attuali e per questo più insidiosi. Rispetto a questi ultimi va fatto il massimo di chiarezza, per dare strumenti ulteriori ai compagni piovani verso cui sentiamo la responsabilità che ci deriva dal peso della nostra storia. Ma vogliamo anche ricordare agli “smemorati” quale pesante responsabilità politica e umana si assumono in sede di revisione storica, omettendo, minimizzando o addirittura teorizzando scelte disonorevoli sul piano personale, oltre che politico. Scelte e comportamenti che tanto hanno pesato negli anni successivi e che hanno impedito la ripresa del movimento tutto che si arenò sulle macerie della rottura della solidarietà.
Un saluto non formale va alle donne e agli uomini rinchiusi qui alla Dozza.
È un saluto da estendere ai detenuti che sono rinchiusi nei “braccetti” (sono proliferati negli ultimi tempi), ai detenuti che subiscono una pena inumana come quella dell’ergastolo e, infine, ai detenuti malati. E qui non possiamo non ricordare con emozione e preoccupazione insieme: Prospero Gallinari, Salvatore Ricciardi, Salvatore Cirincione, la compagna Silvia Baraldini e quanti altri vivono, oltre al carcere, anche malattie devastanti.
Compagni e compagne, nella storia del movimento operaio di tutto questo secolo, il PCI, ha sempre agitato la bandiera del vecchio compagno Terracini che, sotto il regime fascista, fu il dirigente che scontò 18 anni di detenzione. Sotto il regime “democratico” nato dalla Resistenza, Paolo Maurizio Ferrari, comunista e militante delle Brigate Rosse, nel prossimo maggio avrà scontato vent’anni di prigione, e così i fratelli Abatangelo, Giovanni Gentile Schiavone, Maria Pia Vianale. Decine e decine di altri comunisti sono in carcere da oltre quindici anni. Questi sono i dati. Questo è il duro prezzo da pagare alla propria coerenza di comunisti. Qui non c’è la tanta decantata e compiaciuta discontinuità… La repressione continua a funzionare con perfetta continuità!
La continuità delle carceri speciali in cui sono rinchiusi, con lo stesso trattamento dei tempi emergenziali, decine di compagne e di compagni. Sono coloro di cui non si parla mai neppure tra di noi e che tacciono e non chiedono nulla. Sono le compagne e i compagni che, per proprie convinzioni politiche, hanno fatto della loro vita una militanza granitica, nelle condizioni più difficili che possiamo immaginare. Negli anni passati, grazie all’emergenza, sono state molte le fortune politiche anche economiche che si sono formate sulla pelle delle compagne e dei compagni. In tempi più recenti, venendo a mancare i motivi che l’aveva generata, pennivendoli e scrittori di un certo tipo non hanno rinunciato ad ingrassarsi ed hanno creato ad arte emergenze fasulle. Basta ricordare i libri dei Flamigni, dei Cipriani, ecc., dove pur di sostenere tesi complottiste care al vecchio PCI, violentano la loro intelligenza (ma ce l’hanno?) senza sentirsi ridicoli. Discutiamo dunque di quella stagione tenendo presenti i costi umani che ha avuto e le difficoltà di coloro che hanno osato autonomamente la scalata per il comunismo.
Ancora una volta sono invitato ad un’iniziativa di movimento come testimone di una lunga stagione di lotte che spesso ha visto al centro anche i problemi del carcerario.
Resto sempre dell’idea che una ricostruzione storica e politica delle nostre vicende debba necessariamente avere carattere collettivo. Anche se ormai vi sono numerosi contributi, perché questa ricostruzione possa essere compiuta, è indispensabile che tutti i compagni siano fuori dalle prigioni e gli esuli rientrati. Questo perché, tra le pieghe di questa storia, possono esserci ancora tegole di natura giudiziaria: è di pochi mesi fa l’ultimo arresto sul caso Moro.
Ogni volta che ho affrontato pubblicamente i problemi del carcere, ho sempre diviso in due fasi quelle vicende. Una prima fase che inizia con il mio arresto e va fino al 1977 e una seconda fase, quella delle carceri speciali, che è tuttora in corso.
Sono fortemente legato a quella storia, quella del movimento dei “dannati della terra”, che ritengo esemplare dal punto di vista di una lotta di massa, dell’acquisizione di una forte dignità collettiva di migliaia di detenuti e, non ultima, di una crescita di identità politica che ha coinvolto centinaia di persone, alcune delle quali, col tempo, hanno assunto anche ruoli precisi di responsabilità politica all’interno del movimento rivoluzionario.
Ne sono legato anche per antica cultura che sto ravvivando fuori dalle prigioni in questi anni di semilibertà infinita…
Quella stagione di lotte ebbe incredibili risultati che andrebbero ricordati, o meglio, analizzati. Per tutti voglio ricordare la forza di quel movimento che seppe creare, all’interno delle più grandi prigioni, un vero e proprio “territorio liberato”, che gestì in maniera rivoluzionaria ponendo all’ordine del giorno il legame politico con il movimento esterno, lo studio, la crescita politica della massa dei detenuti e dei singoli. Si creò un fortissimo senso di solidarietà, tanto da preparare il salto di qualità che per molti significò la liberazione pratica attraverso evasioni individuali e di massa che, in quegli anni, furono numerose e clamorose.
Alcuni di quegli evasi non tornarono alle vecchie attività extralegali ma andarono ad ingrossare le fila del movimento rivoluzionario, portando un contributo di coraggio, coerenza e tutta la ricchezza acquisita nelle lotte di quegli anni. Per tutti voglio ricordare Martino Zicchitella, che pagò con la vita questa sua coerenza, durante un’azione dei Nuclei Armati Proletari.
Molto spesso alcune compagne e compagni mi hanno chiesto come poter fare intervento oggi nelle prigioni. Ho detto e ripeto che la risposta ci viene da quelle lontane esperienze. Il movimento dei “dannati” poté decollare perché si erano create le condizioni favorevoli. Intanto quelle nel carcere, all’epoca più vicino al medioevo che ai nostri giorni e quindi vicino al punto di rottura. Ma, cosa più importante, era cambiata la composizione sociale nel carcerario. L’irruzione di figure proletarizzate, magari con esperienze fugaci nel mondo del lavoro, o che ne vivevano la problematica in famiglia, fece fare un salto di qualità al modo di affrontare i problemi immani che il carcere ti poneva giorno per giorno. Non fu semplice comunque convincere subito tutti alla necessità di una lotta collettiva, lì dove c’erano individualità molto forti, in una realtà in cui era proprio la resistenza isolata la cultura più apprezzata.
Altro aspetto, il più importante, è che nello stesso periodo fuori dal carcere si veniva a formare un poderoso movimento di massa, soprattutto giovanile, per la prima volta fuori dal controllo dei partiti, anzi, contro i partiti e contro ogni tipo di autoritarismo. Un movimento che poté vivere a lungo grazie anche alla saldatura che operò tra mondo della scuola e mondo del lavoro. I riferimenti ideali dell’epoca erano il Che, le guerre di liberazione del Terzo Mondo, la rivoluzione culturale cinese, la lotta dei neri americani contro la discriminazione razziale e, soprattutto, la lotta del popolo vietnamita.
Tematiche che ebbero grossa influenza anche tra i detenuti che cominciavano, in stretto contatto con questo movimento, a formare e costruire la loro coscienza politica.
Temo sia dunque una stagione irripetibile, quella.
Ad Irene Invernizzi, una militante di Lotta Continua che insieme a quella organizzazione ebbe un ruolo essenziale per la formazione politica dei detenuti, scrivemmo nel ‘71 che “il carcere si può definire lo specchio della società che lo contiene e i carcerati la sua immagine”.
Questa definizione apre il famoso libro Il carcere come scuola di rivoluzione che ebbe all’epoca una grossa fortuna dentro e fuori e che andrebbe letto dalle compagnie e dai compagni piovani. Grazie a quella compagna e alla sua organizzazione per la prima volta fu data la parola ai detenuti.
Se il carcere è dunque lo specchio della società, si capisce perché oggi nonostante le condizioni di sovraffollamento che rendono invivibile la quotidianità, un movimento non decolla. I mutamenti sono stati profondi. Pensante, il 15-20 per cento della popolazione detenuta è formata da extracomunitari, cioè hanno fatto irruzione culture diverse e, come fuori, spesso in contraddizione, in urto, venendo a mancare un cuscinetto autorevole che solo i compagni potevano svolgere. Poi la droga, la tossicodipendenza, altra percentuale altissima che per “sopravvivere” anch’essa ha operato guasti insanabili, certamente agevolata, come fuori, per intorpidire forze e coscienze e che ha determinato anche un doppio controllo.
La composizione dei detenuti è dunque profondamente modificata, così la forza e la presenza del movimento e solo quando questo tornerà ad essere protagonista nella vita sociale, si potranno ricreare condizioni perché anche sul carcerario si possa intervenire.
Tornando per un attimo a quegli anni, ai legami ormai solidi creati tra movimento esterno ed interno, al clima e al dibattito di quegli anni, ricordo che fuori dalle prigioni una serie di avanguardie aveva posto all’ordine del giorno la questione della lotta armata, e in quale modo svilupparla. Noi nelle prigioni, come comuni, non ci sentivamo esclusi, anzi… Dopo alcuni episodi: la strage nel carcere di Alessandria, l’uccisione di Venanzio Marchetti per mano dagli agenti di custodia durante una rivolta, la sparatoria contro i detenuti alle Murate di Firenze, quasi tutte le avanguardie del carcerario avevano allentato il legame con Lotta Continua che da anni aveva avuto un rapporto privilegiato con i carcerati e riversarono le loro simpatie verso le organizzazioni armate che, per quanto ci riguardava, ponevano anche per noi il problema del riscatto totale e l’abbattimento delle prigioni. Più nessuno credeva ad un carcere umanizzato, riformato.
Del resto grossa era l’influenza dei primi militanti di quelle organizzazioni che, catturati, entravano in diretto contatto con noi e ci riportavano il livello del dibattito che esisteva all’interno del movimento. Avvenne così una saldatura ideologica, politica e pratica che sarebbe durata molti anni. Naturalmente quella saldatura, grazie anche all’azione dei NAP che si erano organizzati per la difesa delle lotte dei detenuti, preoccupò fortemente i vertici del Ministero di Grazia e Giustizia che dapprima istituì alcuni reparti di isolamento individuale e per piccoli gruppi a Porto Azzurro, Alghero, Favignana e in qualche altro carcere e, nel 1977, in gran segreto, approntò cinque carceri speciali.
Sarebbe comunque ingeneroso verso tantissime avanguardie del carcerario sostenere che la loro scelta di lotta armata fosse dettata soltanto dall’influenza dei militanti delle organizzazioni armate. Queste avanguardie, ricordiamolo, avevano una loro particolarità: si formarono nel corso di anni nel fuoco delle rivolte, spesso subirono repressioni inenarrabili e la loro militanza, la loro formazione, avvenne tutta “nelle mani del nemico”, all’interno dell’istituzione più chiusa e più “gelosa” della borghesia. L’adesione fu dettata anche da una riflessione politica: solo la rivoluzione poteva dare, può dare, la vera libertà. Questo ovviamente vale per tutti, ma per un detenuto la parola libertà ha mille significati in più.
Quei compagni dunque, si assunsero quella responsabilità non solo per tentare una sorta di riscatto personale, ma per trascinarsi dietro tutti gli altri, per trasformare quella massa “delinquenziale” in un vero e proprio strato di classe.
Tutti i sommovimenti proletari storici, al culmine del loro sviluppo, hanno aggregato molteplici figure esterne alla classe: anche la piccola e media borghesia. Questo è successo anche negli anni ‘70. Poi, regolarmente, all’esplodere della crisi, ognuno è tornato nei suoi ranghi… i piccoli e medi borghesi in seno alla propria classe. Chi non ha questo tipo di scelte sono i proletari e …. i carcerati.
Come dicevo, nel 1977 furono approntate cinque carceri speciali, con caratteristiche altamente distruttive e di assoluto isolamento.
La gestione di queste prigioni, per la prima volta, passava sotto le dirette dipendenze dell’esecutivo, cioè del governo, e il controllo esterno fu affidato all’arma dei carabinieri.
Gli scopi di questo rivoluzionamento del carcerario erano molteplici: da una parte, si voleva ridare fiducia alle direzioni e agli agenti di custodia, provati e sfiduciati da una lotta decennale che li aveva visti sulla difensiva; dall’altra isolare i militanti delle organizzazioni armate e le avanguardie di lotta dalla massa dei detenuti e lanciare un preciso messaggio verso il movimento esterno.
I mesi successivi all’istituzione delle carceri speciali furono difficili, anche perché all’esterno i NAP avevano concluso la loro parabola e quelli che erano rimasti confluirono in altre organizzazioni combattenti e queste, se non ricordo male, cominciarono a subire catture importanti per spessore politico e per numero. Un momento di debolezza di cui il nemico approfittò, dispiegando la sua forza sui prigionieri. Nonostante la fase durissima, non vi fu alcuna defezione da parte dei prigionieri che anzi, successivamente si riorganizzarono, dotandosi delle strutture necessarie alla sopravvivenza politica e fisica.
Cominciò una nuova stagione di lotte, che all’inizio furono particolarmente dure, perché fatte in piccoli gruppi. A volte sembravano lotte disperate. Ma grazie anche all’apporto delle OCC e del movimento tutto, i prigionieri riuscirono a riconquistare degli spazi vitali e mantennero compatto e solido il corpo dei prigionieri.
Mi preme sottolineare che per lunghi anni, nonostante la durezza della repressione, il corpo prigioniero rimase compatto e solidale e questa solidità morale dava molta fiducia nel futuro e quindi nel superamento delle crisi cicliche.
Gli spazi politici erano ovviamente privilegiati su tutto il resto e credo che molto abbia pesato, nel bene e nel male, il ruolo e l’influenza dei prigionieri sulle sorti del movimento rivoluzionario.
Bisogna ammettere anche che non sempre c’è stato molto equilibrio, vi sono stati eccessi di soggettivismo che alla lunga hanno logorato i prigionieri. In determinati momenti sarebbe stato necessario conservare le forze, dare meno spazio alla soggettività. Non è un segreto per nessuno affermare che i quadri più preparati erano in prigione e la loro influenza politica era molto forte, per via delle elaborazioni teoriche che spesso venivano pensate e sperimentate dagli stessi prigionieri.
Sicuramente sono stati fatti molti errori di soggettivismo e di settarismo, la maledizione storica della sinistra, e quest’ultimo ha contribuito, alla fine, allo sfilacciamento del movimento rivoluzionario.
Questo però non deve essere una giustificazione per nessuno, specie per coloro che, in difficoltà nelle prigioni, ruppero la solidarietà, elusero le contraddizioni e scelsero il dialogo con i giudici e roba simile.
Aree omogenee… dissociazione… sono termini per alcuni incomprensibili o vaghi e forse è bene chiarire che dietro queste parole cambiava la qualità materiale della tua vita di prigioniero. A quanti facevano una scelta di campo diversa dalla tua, veniva cambiata la quotidianità, venivano premiati con un trattamento da prigionieri-ospiti, previa dichiarazione pubblica di abiura pubblicata quasi sempre sul Manifesto che, è bene ricordare, non solo si prestava, ma sosteneva la creazione delle aree omogenee e quindi la dissociazione; posizione bizzarra per chi occupa il mercato editoriale quale “quotidiano comunista”. Era una specie di fisarmonica oscena: mano a mano che i loro spazi si allargavano, i nostri si chiudevano. Gli esempi sono tanti e non è male farne qui qualcuno. I luoghi omogenei si formarono nei carceri adeguati, non troppo lontani dai luoghi di residenza per agevolare i familiari, ma con un occhio attento anche alle necessità della nuova politica. Rebibbia era ideale, ci si poteva addirittura candidare al parlamento e uscire da onorevoli… Le nostre compagne, i nostri familiari, invece, dovevano continuare a farsi i soliti 2000 chilometri per un’ora di colloquio, con i vetri di mezzo. Non solo, spesso si dovevano denudare e sottoporsi a perquisizioni umilianti. Quando ai sostenitori delle aree omogenee e ai dissociati diedero i computer, per tenersi aggiornati con le nuove tecnologie, a noi furono tolti tutti i libri. Ne potevamo tenere solo tre per volta e ricordo ancora la mia indecisione se privilegiare il vocabolario o un testo che mi interessava particolarmente. Quando a quelli delle aree omogenee davano spazi maggiori di socialità con l’esterno, a noi la censura della posta diventava più feroce e più feroce l’applicazione dell’art. 90, che sospendeva tutti i diritti costituzionali del prigioniero.
Compagne e compagni, per due anni buoni ho avuto la ventura di dividere tutte le mie giornate, ininterrottamente, con altri tre prigionieri. Sempre gli stessi. Bisogna essere assai corazzati per reggere una condizione del genere e non andare fuori di testa. Vi sono stati passaggi di tale ferocia che per orgoglio, per pudore, non ho raccontato neppure a Severina, la compagna con cui tutto questo ho condiviso.
Le aree omogenee, i dissociati, hanno fatto più danni dei traditori, perché hanno rotto la solidarietà politica e hanno seminato la sfiducia non solo nel corpo dei prigionieri, ma anche nella classe.
A questo proposito voglio leggervi un brano di uno scritto che recentemente ha affrontato i problemi degli esuli.
il danno sociale prodotto dai pentiti è circoscritto, limitandosi a smantellare un’organizzazione clandestina e a penalizzare i membri che la costituiscono. La dissociazione invece è misura di più ampio respiro sociale, in quanto crea un precedente ideologico, produce disaffezione e scoraggiamento non nelle fila di una specifica organizzazione, ma internamente ai movimenti sociali in generale. La dissociazione si rivolge perciò a un numero elevatissimo di individui ed è potenzialmente più insidiosa in quanto trascende la semplice sconfitta militare. Il pentimento adotta il linguaggio dell’esercito, mentre la dissociazione attinge dal vocabolario comunicativo della società civile.
Coloro che si sono distanziati dal proprio passato hanno avuto, il più delle volte, la possibilità di riprendere o iniziare una professione. La loro ‘autocritica’ assume rilevanza non in quanto maturata nell’intimo delle convinzioni personali, ma in quanto si presta ad essere riprodotta e trasmessa ad altri individui e gruppi. Ai dissociati si chiede di agire da testimoni di una sconfitta generazionale, di promuovere una memoria di sconfitta che non si esaurisca nel tempo passato e presente, ma che conservi un impatto significativo anche relativamente al futuro. È un fatto che, per coloro che sono stati coinvolti in processi politici, dissociazione ha anche significato reinserimento e spesso lavoro. Molti altri hanno dovuto emigrare. Tra i primi, lo status pubblico di dissociati si è sostanziato in messaggi e appelli chiari, inequivocabili, lanciati dalle pagine dei giornali o dagli schermi televisivi.1
Per chi volesse saperne di più sulla storia e il ruolo della dissociazione segnalo il libro Il proletariato non si pentito, Maj Editore, dove troverà tutta la documentazione di quegli anni sul problema.
Naturalmente condivido quanto scritto dal compagno. Non capisco quindi la superficialità di settori di questo movimento che danno credibilità a coloro che invece di dimostrare la propria coerenza, se la sono squagliata e oggi cercano di riproporsi come soggetto politico “rinnovato”. Nemmeno ai democristiani è più consentito di “riciclarsi”.
Penso che per i comunisti la coerenza sia essenziale e per coerenza intendo anche difendere sempre e comunque la propria classe. Altrimenti, non solo si perde credibilità, ma si fanno fare passi indietro ai movimenti e sappiamo quanto sia faticosa la ripresa.
Ricordo quando i comunisti, nelle aule dei tribunali, rivendicavano la loro militanza o i compagni delle Brigate Rosse rivendicavano l’appartenenza all’organizzazione e tutte le azioni fatte da questa. Era l’orgoglio di appartenere a un partito o a un’organizzazione che porta avanti il progetto più alto: la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Oggi in prigione ci sono rimasti quelli che “si sono sporcati le mani”, i proletari. I professori, i figli dei borghesi e dei piccolo-borghesi, i neo-editori, dopo aver fatto corsi accelerati in quelle aree omogenee, sono tornati al loro posto nella “società”.
A noi restano, tra gli altri, due problemi: ricostruire la nostra memoria e riannodare il filo rosso della solidarietà di classe con contributi più sostanziosi di quelli che posso dare io, e la sorte dei prigionieri politici e degli esuli. In più il problema urgente dei prigionieri che versano in condizioni di salute gravi: Prospero Gallinari, Salvatore Ricciardi, Salvatore Cirincione, Silvia Baraldini e altri…
Due problemi che devono essere sviluppati insieme, anche se le condizioni di salute dei compagni ci impongono tempi stretti se vogliamo che sia data loro la possibilità di sopravvivere alla detenzione.
Prospero non ha mai voluto, per sue convinzioni e coerenza personale, privilegiare la sua malattia per risolvere il suo caso personale. Siamo stati noi compagni a fare pressioni sul suo avvocato perché presentasse istanza di differimento della pena, che per due volte è stata rigettata. Come sapete, Prospero è stato sottoposto ad intervento chirurgico al cuore ed ha tre bypass. Solo pochi giorni fa è stato ricoverato in ospedale per un ictus e secondo i vari medici che l’hanno visitato ogni crisi potrebbe essere l’ultima.
Badate, il regime fascista liberò Gramsci nell’ottobre del 1934 perché potesse curarsi. Gramsci morì circa due anni dopo, nell’aprile del 1937. Ma siamo tutti d’accordo che il fascismo fu l’assassino di Gramsci. Siamo tutti d’accordo che questo potere democristiano (e non solo) sta uccidendo il nostro compagno.
Credo quindi che vada fatta ogni iniziativa possibile per chiedere la liberazione di Prospero e degli altri compagni che sono gravemente ammalati e impedire che cada un velo di silenzio che sarebbe mortale.
Ancora una sola considerazione personale.
Quando sono uscito dalla prigione questo movimento mi ha in un certo senso adottato. Ve ne sono grato. Ho trovato sostegno, umanità e calore.
Mi sono sforzato di capirvi e spesso anche voi avete fatto lo stesso sforzo. Certo, con i più veniamo da esperienze diverse, ma questo solo perché ho percorso diverse vite politiche. Di voi apprezzo il fatto che militiate in uno dei momenti più difficili di tutta la storia del movimento. È quanto vi abbiamo lasciato. Ma non siate ingenerosi, nonostante i guasti, resta l’esempio, il nostro, di una generazione che ha osato…
Spero che questi lavori in cui siamo impegnati possano darvi gli elementi di conoscenza utili a capire le luci e le ombre prodotte. Personalmente ritengo ancora valido quanto scritto da Lenin nel Che fare?
Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada dirupata e difficile, tenendoci saldamente per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il loro fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, proprio per combattere i nostri nemici e non sdrucciolare nel vicino pantano.
Questo scriveva Lenin…
Per fare ci sono necessari dei punti fermi: la gelosa custodia della memoria, il superamento delle contraddizioni che possono avere una qualche validità nei grandi numeri e sono invece insensate in una situazione come la nostra. La politica praticata con senso costruttivo e aggregante. Più da vicino, i centri sociali possono avere soddisfatto molte esigenze, tuttavia rischiano di diventare una specie di riserva. Bisogna invece sfondare tutti i muri, pure quello dei nostri cervelli. È indispensabile, oggi più che mai, mischiarsi alla gente e a tutti i loro problemi.
Brano tratto dallo scritto di V. Ruggiero “Condannati alla normalità. I detenuti politici italiani in Francia”, poi pubblicato su “Vis-à-vis” n. 2, 1994. ↩