di Sandro Moiso
Luca Trevisan, Il respiro del bosco. Le montagne della città di Vicenza sull’Altopiano dei Sette Comuni, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 200, 14,00 euro
Nel corso degli ultimi decenni la storia locale, emancipatasi gradualmente dalla retorica del localismo e della tradizione identitaria, ha contribuito a proporre ricerche che, pur rimanendo all’interno di tale ambito, hanno saputo cogliere momenti e casi capaci di illuminare la storia con la “s” maiuscola, ponendo e affrontando concretamente problemi che la seconda aveva relegato spesso ai propri confini o a studi specialistici di carattere quasi esclusivamente istituzionale.
Prova ne sia il testo di Luca Trevisan, dottore di ricerca presso il Dipartimento Culture e civiltà dell’Università di Verona e docente nella scuola superiore, pubblicato da Cierre edizioni nella collana Nordest (nuova serie) di cui costituisce il volume n° 188.
La ricerca di Trevisan, nel ricostruire le vicende dello scontro tra il Comune di Vicenza e le comunità dell’Altipiano dei Sette Comuni per la delimitazione spaziale e lo sfruttamento dei boschi e dei pascoli, soprattutto a partire dal XVI secolo, finisce anche con l’affrontare indirettamente la questione dei confini o del “confine”, anche se quest’ultima non è posta al centro dell’opera o nel titolo.
Dopo un plurisecolare contrasto con la città, infatti, i comuni dell’Altopiano riuscirono ad acquisire e quasi immediatamente a spartire tra diversi possidenti i territori montani, in particolare i boschi, posti a quote elevate, vicini al crinale e alle pendici della Valsugana, che il Comune di Vicenza aveva acquisito nel 1261, dopo la fine del dominio di Ezzelino III da Romano. Motivo per cui, come afferma Gian Maria Varanini (Università di Verona) nella sua prefazione al testo:
il problema del “delimitare”, del definire lo “spazio frontaliero” – quale che sia la frontiera -, è presente in ogni pagina di questa approfondita sintesi.
[…] Il punto di partenza di molte riflessioni è stato costituito da alcune celebri pagine di Febvre (Frontière: le mot e la notion), che posero il problema sin dagli anni Venti. Il problema del confine “politico”, del confine degli Stati, circolò poi variamente nella storiografia europea, nei decenni successivi, incrociandosi con il dibattito sul concetto di frontiera “naturale” messo in discussione dagli antropologi […] Inutile dire che le Alpi e le montagne in genere sono il terreno d’elezione per queste riflessioni. […] In generale questi studi hanno spinto molto avanti nel tempo, sino al Settecento inoltrato la trasformazione sostanziale del confine. Solo allora c’è un cambio di paradigma, e si può parlare di un “processo di frontierizzazione”, di un definitivo orientamento verso la trasformazione del confine in una “linea di separazione” fra due sovranità consapevoli ed esclusive. Per molto tempo invece, nei secoli dell’età moderna che da questo punto di vista diviene un lungo medioevo, il confine era rimasto un “campo di tensione”, un luogo di confronto e di sfruttamento condiviso e contrastato. E non solo: è stata importante in questi studi, la progressiva messa a fuoco, che avviene appunto nel Settecento, fra un confine “politico” (verso l’esterno) e un confine “amministrativo” (ad intus)1.
Una questione, quella dei confini nazionali e politici, che nelle Alpi centro-orientali troverà una sua definitiva sistemazione soltanto con l’avvento del primo conflitto mondiale, destinato a dividere comunità che fino a poco tempo prima si erano più sentite unite dall’appartenenza alle “montagne” più che divise da ben specifiche appartenenze nazionali. Come, per esempio, anche solo una semplice passeggiata nella zona del Passo dello Stelvio, nei luoghi della guerra sui tre confini, potrebbe facilmente far comprendere anche all’escursionista più distratto.
Riprendendo però il tema centrale della ricerca, occorre sottolineare che il duello vero e proprio tra le due entità (Comune di Vicenza e Comuni dell’Altopiano), nella ricostruzione di Trevisan, ha inizio nella seconda metà del Cinquecento nell’epoca in cui, occorre forse qui ricordare, inizia a diventare decisiva la questione dei confini statali e istituzionali2. Un’epoca in cui non solo gli storici iniziano a situare il golden nail dell’inizio dell’antropocene o, per meglio dire, capitalocene3, ma in cui una stagione di raffreddamento del clima (la cosiddetta Piccola glaciazione) si era accompagnata ad una situazione piuttosto grave di crisi economiche e sociali. Tra le cui conseguenze va annoverata anche l’ultima grande epidemia di peste nel ‘600.
E’ in questo quadro di regressione economica e di autentica caccia alle risorse che si apre e si svolgono principalmente gli eventi narrati da Trevisan, ruotanti, guarda caso, intorno alla gestione e all’uso commerciale del patrimonio boschivo dell’Altopiano di Asiago.
Dopo aver infatti analizzato le caratteristiche del popolamento dello stesso e il lento consolidamento istituzionale delle comunità montane in età tardo medievale, la ricerca si focalizza da un lato sulle prerogative proprietarie del Comune di Vicenza che affitta i pascoli e permette l’uso dei boschi per i soli fini domestici e dall’altro sulle comunità rurali dell’Altopiano. Il motivo del contendere era dato (anche se la questione si trascinò fino al 1783) dallo sfruttamento commerciale del legname, cui si opponeva il primo.
Nei confronti di tale risorsa, e dei boschi nel loro insieme, il Comune vicentino vantava i diritti ottenuti dopo la spartizione delle proprietà di uno degli ultimi difensori della causa ghibellina, dopo la sua sconfitta e morte4, mentre gli abitanti delle comunità dell’Altopiano erano pronti a tutto pur di vincere la partita principale. Quella, appunto, della “mercanzia del legname”, condotta per mezzo di malizie, trucchi ed illegalità varie cui si aggiungeva, da parte dei montanari, una antica conoscenza dell’ambiente, delle sue caratteristiche e risorse.
Si trattava cioè di valorizzare una materia prima sempre più necessaria e ricercata, soprattutto in un periodo di piccola glaciazione. Commercio che in quello stesso periodo era diventato particolarmente significativo nell’area delle Alpi centro-orientali. Così le comunità «insediate tra i 700 e i 1200 m di quota erodono, usurpano, attaccano in età moderna il possesso cittadino», ricorrendo anche alla falsificazione di documenti precedenti5.
Le diatribe emerse, non solo con il Comune di Vicenza ma anche tra le stesse comunità, si trascineranno ben oltre l’epoca, fino a Novecento inoltrato. Confermando così che, come già analizzato sia in opere di ricerca storica locale che letterarie6, il lento e progressivo disfacimento delle comunità alpine, trasformatesi da comunità che in età antica e medievale erano organizzate intorno alla condivisione e alla gestione comune delle risorse e del lavoro a comunità istituzionalizzate e dedite all’appropriazione individuale e privata o perlomeno parzializzata dei beni, della ricchezza e delle risorse, abbia costituito la strada principale attraverso cui il capitalismo, prima mercantile e poi industriale, si è affermato anche nelle zone inizialmente più ostili alla creazione di confini statali, governativi e, non dimentichiamolo, proprietari nell’accezione più moderna del termine.
Come afferma ancora il Varanini nella sua prefazione:
Chi esce con le ossa rotte da questo studio è naturalmente la retorica, la retorica della concordia e del decantato spirito comunitario che si scioglie come neve al sole: e ciò emerge con tanta maggior evidenza dalla parte finale dello studio di Trevisan, dedicata al disfacimento ottocentesco del patrimonio boschivo. Alla fine, nel 1783, Vicenza aveva infatti allivellato ai Sette Comuni le sue Montagne, ma questo patrimonio alcuni decenni più tardi viene avviato allo smembramento, in mezzo a liti feroci fra le comunità, che durano sino al Novecento inoltrato7.
Osservazioni sicuramente e ampiamente condivisibili, se non si tiene però conto del fatto che il disfacimento delle comunità era già iniziato, sia sui monti che nelle pianure, diversi secoli prima e che il periodo da cui ha inizio la ricerca di Trevisan segnava già un primo momento di superamento o, in altre parole, di sconfitta sociale, economica e politica dell’organizzazione comunalistica, ancor più che comunale. Solo così si può autenticamente parlare di una retorica comunitaria che si vorrebbe, più per motivi politici e identitari attuali che per autentico amore per la Storia, mantenere in vita ancora oggi. In un’epoca in cui l’appropriazione privata delle risorse e la valorizzazione del capitale ha trionfato ovunque, tanto in quota quanto in basso.
La ricerca di Trevisan si rivelerà perciò utile per chiunque sia interessato alla ricostruzione delle vicende e dei conflitti, dalle forme spesso differenti e inaspettate, che hanno portato all’affermazione dei confini, più ancora che territoriali e istituzionali, proprietari e, perché no, di classe della società attuale.
Gian Maria Varanini, Prefazione a Luca Trevisan, Il respiro del bosco, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 10-11 ↩
Si veda, nella letteratura storica recente, Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi editore, Torino 2019 ↩
Si veda ancora su questo tema: Simon L. Lewis, Mark A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi editore, Torino 2019 ↩
Sulla figura di Ezzelino da Romano e le contraddizioni di un uomo troppo spesso, sbrigativamente e opportunisticamente, liquidato come uno dei “cattivi” della Storia (forse proprio per la sua ostinata e implacabile opposizione al potere e al dominio del Papato), si veda l’opera di Giorgio Cracco, Il Grande Assalto. Storia di Ezzelino, Marsilo Editori, Venezia 2016 ↩
G. M. Varanini, op.cit., p. 11 ↩
Si vedano, solo per citare due esempi, Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, 2 voll., Comunità Montana di Valle Trompia 2018 e Umberto Matino, La valle dell’Orco, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2016 ↩
G. M. Varanini, op.cit., p.13 ↩