di Mauro Baldrati
E’ un soleggiato martedì di settembre, il taxi procede in colonna, a passo d’uomo, verso l’ingresso. Il vialetto è presidiato dalle guardie, probabilmente carabinieri in borghese, che controllano i documenti.
Siamo quasi arrivati al posto di blocco. Non vedo perquisizioni, o passeggeri fatti scendere dai taxi o dalle berline scure. I controlli devono essere discreti. La sicurezza va garantita, ma si tratta pur sempre di persone importanti. E le persone importanti hanno questa caratteristica: pretendono la sicurezza ma odiano essere importunate.
Quando arriva il mio turno una guardia si abbassa per guardare nell’abitacolo. Dice “buon giorno”, cui rispondo educatamente, come sempre. La mia identità è sicura, è stata analizzata a lungo, e sottoposta a verifiche. Io sono Gunther Meyer, dottore commercialista residente a Milano, invitato a un convegno internazionale all’hotel Villa d’Este di Cernobbio. La guardia mi chiede la carta d’identità, che ho già preparato. Gliela porgo. La esamina brevemente, controlla sulla lista degli invitati. Il mio nominativo è regolare. Sono uno dei tanti professionisti che gli ordini professionali invitano ogni anno a questo convegno internazionale di personalità dell’economia e della politica. Qui, mi ha detto il dottor Mustafà, il mio intermediario, ci sono industriali potenti, banchieri, ministri, che discutono del futuro dell’economia globale. La guardia mi restituisce la carta di identità, mi chiede: “Pensa di fermarsi per la notte, dottor Meyer?”
“No” rispondo. “Parto stasera per Milano.”
“Certo” dice la guardia, annuendo. “Quindi non ha bagaglio con sé, dottor Meyer?”
“Solo la mia 24 ore. Desidera controllarla?”
La guardia sembra riflettere. “Non è necessario. Buon lavoro, dottor Meyer” e mi saluta con un cenno del capo, prima di passare all’auto che ci segue.
Il taxi imbocca il vialetto, arriva sul piazzale di questa specie di castello attestato sulla riva del lago di Como. Scendo e dico all’autista di aspettarmi. A operazione finita dovrò allontanarmi subito, senza essere precipitoso, perché non è necessario, visto che non ci sarà nessun esito cruento immediato. Ma è buona regola abbandonare al più presto la scena di una missione. Non dobbiamo permettere al caso, all’imprevisto, di scombinare il lavoro.
Mi avvicino al banco della reception, dove un gruppo di giovani uomini e donne vestiti con abiti blu registrano i visitatori. Comunico il mio nome. Di nuovo una ragazza consulta una lista. Annuisce, dice “benvenuto, dottor Meyer, si può accomodare in sala”, e mi restituisce il documento.
La hall è affollata di persone che raggiungono le postazioni del convegno, e una grande quantità di uomini col minuscolo auricolare degli addetti alla sicurezza. Sono guardie private, poliziotti, ma anche agenti dei servizi segreti di paesi stranieri, perché ci sono rappresentanti di vari governi.
In sala vedo una poltrona libera in prima fila e la raggiungo immediatamente. E’ fondamentale che sia seduto a ridosso del tavolo degli oratori, per portarmi a diretto contatto con l’obiettivo, quando verrà il momento.
Lancio occhiate intorno, agli altri ospiti, e nessuno si cura di me. Questo era previsto. Il dottor Meyer non fa parte del giro, è un professionista che nessuno conosce. Anche per questo è stato scelto, oltre al fatto che ha la mia stessa altezza, un metro e ottantacinque.
Mi siedo, apro la valigetta e controllo il contenuto: la busta arancione è al suo posto, nello scomparto dei documenti. La richiudo e l’appoggio sulle gambe. Mi metto comodo sulla poltroncina ed entro nello stato di iper-rilassamento, mentre ripenso per l’ennesima volta alla preparazione di questa missione.
Il mio obiettivo si chiama Matteo Salvini. Non so chi sia, solo che è un esponente politico italiano. L’ordine di eliminarlo è partito dal suo stesso schieramento, per contrasti interni. La cosa mi è indifferente. Non mi interessano i dati personali degli obiettivi, a meno che non siano necessari per la missione, né l’identità dei committenti. Io sono uno specialista, porto a termine, solo questo conta.
Per prima cosa bisognava individuare la cosiddetta chiave d’acceso, cioè una identità pulita che io potessi usare per agire. Questo commercialista, Meyer, operava a Milano, ma non aveva clienti, né segretarie. E non frequentava colleghi, né uffici. Apparentemente non si capiva di cosa vivesse, visto che non si occupava di denunce dei redditi, consulenze, bilanci. Il motivo è semplice: era un prestanome della Ndrangheta. Riciclava denaro, investiva in borsa, acquistava immobili. Il tipo ideale, senza rapporti coi colleghi, e quindi esente da imprevisti dovuti a incontri casuali.
Così i committenti hanno comprato Meyer dalla mafia e l’hanno fatto sparire. Poi è stata sostituita la foto nei suoi documenti con la mia.
Quindi coi documenti in ordine, e dopo un meticoloso addestramento, soprattutto sulla manipolazione dell’arma che dovrò usare, sono entrato in azione.
La sala è ormai piena, affollata di uomini e donne eleganti di varia nazionalità, le guardie con gli abiti scuri, gli auricolari. La mia linea di azione è semplice: non userò armi tattiche, né dovrò fare gesti sospetti. Io sono uno del pubblico, come tutti. Che si comporta come tutti.
Gli oratori iniziano a prendere posto. Quando arriva Matteo Salvini il silenzio piomba nella sala. Tutti guardano il Senatore, così viene introdotto dal relatore, che si appresta a prendere la parola. E’ un uomo corpulento, di circa cinquant’anni, con una giacca scura e la camicia azzurra con cravatta a pallini. Si atteggia a “popolare”, ha detto ghignando il dottor Mustafà, come impone la moda politica attuale.
Inizia a parlare, dopo una introduzione del relatore, ed io mi metto di nuovo in stato di iper-rilassamento. Il discorso dura circa quaranta minuti, poi parla un altro personaggio, e seguono domande del pubblico. E’ un’attesa lunga, snervante, ma sono preparato. Abbiamo calcolato che prima di agire dovrò restare seduto almeno due ore. Per questo è necessario attivare l’iper-rilassamento dello yoga, per neutralizzare la tensione nervosa, che potrebbe confondermi, spingermi a commettere degli errori. E in questa missione un errore sarebbe fatale, anche per me stesso.
Quando è ormai evidente che l’evento sta per concludersi, apro la valigetta e prendo la busta. Tiro fuori il cerotto, che misura 4 centimetri per tre, e lo applico sul palmo della mano destra. Lo faccio aderire con cura, aprendo e chiudendo la mano, per farlo adattare alle pieghe della pelle.
Ecco, ora tutti si alzano in piedi e si avvicinano al tavolo, come previsto.
Anch’io mi alzo, e raggiungo rapidamente la postazione. Varie persone stazionano accanto a me, cercano di scambiare battute con Matteo Salvini, fanno domande, portano i saluti di conoscenti comuni.
Quando finalmente trovo un varco, con un gesto fulmineo tolgo la pellicola di protezione del cerotto. Ora devo fare attenzione a non sfiorare con le dita la superficie, o per me sarà finita. Tendo la mano e dico, ad alta voce: “Signor Senatore, sono Gunther Meyer, dottore commercialista. Vorrei ringraziarla per tutto ciò che ha fatto per noi!”
Matteo Salvini è pressato da tutte le parti, ma la mia mano si apre un passaggio, è come un tronco d’albero proteso. Intuisco lo slancio di risposta, la sua mano che sta per accettare la mia, in una stretta obbligata, decisa. Ma un uomo a lui vicino, probabilmente un collaboratore, si avvicina e gli parla a poca distanza dall’orecchio, distraendolo. La mia mano è inerte ora, dimenticata.
La ritiro, facendo attenzione a non sfiorare nulla e nessuno, soprattutto parti del mio stesso corpo. Mi restano circa quarantacinque secondi, prima che l’entità vivente si disattivi a contatto con l’aria. Non devo perdere la concentrazione, né devo cedere al panico per i secondi che volano, mentre Matteo Salvini continua a essere distratto, sul punto di girarsi e lasciare la sala.
Faccio ripartire la mano, con un gesto invasivo, aggressivo quasi. “Senatore Salvini, è un onore conoscerla!” grido, sovrastando il vociare della folla. “Accetti, la prego, i ringraziamenti di tutta la categoria dei dottori commercialisti!”
Capto qualche sguardo di commiserazione di questi uomini di mondo, per i miei modi villani. Ma Matteo Salvini decide che non può, non deve sottrarsi a questo richiamo di una intera categoria. Così la sua mano si appoggia alla mia, l’afferra e si fa afferrare. Gliela stringo, la strattono in un impeto di euforia, mettendolo in imbarazzo, strappandogli un sorriso che si espande in una risata verso questo pazzoide entusiasta.
“Ma s’immagini, dottore, s’immagini!” dice.
Trattengo ancora la sua mano, per permettere all’entità di entrare in lui, attraverso i micro-aghi del cerotto, che gli provocano delle lesioni superficiali di cui non si rende conto.
Quando è inutile perseverare, perché la contaminazione è avvenuta, e anche per non creare sospetti, gli lascio la mano e, reggendo la valigetta con l’altra, guadagno velocemente l’uscita.
Raggiungo il bagno, mi chiudo in una toilette, appendo la borsa a un attaccapanni e prendo il coltellino tascabile dalla tasca dei pantaloni. Benché ora l’entità sia in gran parte disattivata rimuovo con grande cura il cerotto, badando a non sfiorarlo con le dita, perché qualche residuo potrebbe essere ancora attivo. Si tratta di un virus che proviene da un laboratorio segreto russo. Si trasmette unicamente per contatto diretto col sangue. Getto il cerotto nel water e tiro l’acqua. Poi mi lavo con cura le mani con un detersivo speciale che ho nella borsa.
Mi sciacquo la faccia, mi pettino ed esco dai bagni.
Mentre mi dirigo verso l’uscita incrocio Matteo Salvini seguito da una segretaria e varie persone. Il virus sta già lavorando, tra circa una settimana cadrà in preda a una febbre altissima che convincerà il suo medico a farlo ricoverare in ospedale. Qui gli diagnosticheranno un virus sconosciuto, per il quale non esiste cura, e dopo due settimane morirà, causando sentimenti di sconcerto tra la popolazione italiana ed europea. La sua foto farà il giro del mondo, come quel dissidente russo avvelenato col polonio.
Che è esattamente ciò che vogliono i committenti. Decesso per cause naturali, l’obiettivo ideale per tutti gli omicidi.
E chi se non un vero specialista, uno scienziato del delitto come il sottoscritto, può metterlo in atto?